domenica 1 maggio 2011

Barcellona: Kluivert più catalano di Tamudo

Prima ancora che dai trofei e dall’appeal mediatico, Barcellona ed Espanyol si sono differenziati sin dall’inizio per il diverso approccio alla questione catalana. Nel 1918 le rivendicazioni autonomiste della regione subirono un forte impulso grazie al famoso discorso pronunciato dal presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson sul principio di autodeterminazione dei popoli. Membri del Barcellona – croce di St Jordi e strisce giallo-rosse, i colori della Catalogna, nel proprio logo - furono tra i principali promotori di una petizione al governo spagnolo a favore dell’autonomia. L’Espanyol – la corona della monarchia come simbolo - replicò con una contro-petizione, e parte dei propri tifosi andarono ad ingrossare le fila della Peña Iberica, un gruppo di vigilantes che girava per la città alla caccia di secessionisti da “riconvertire”. Scontata la successiva adesione di questo gruppo di galantuomini ai falangisti ed alle armate di Franco durante la guerra civile. Al momento della sua fondazione, avvenuta un anno dopo rispetto a quella del Barcellona, l’Espanyol aveva scelto la parola “Spagnolo” proprio per rimarcare la propria identità nazionale in contrapposizione agli stranieri del Barcellona, il cui padre era lo svizzero Hans Camper – successivamente “catalanizzato” in Joan Gamper. In breve tempo però tale ragione sociale ha assunto una connotazione monarchica e centralista in decisa opposizione agli impulsi autonomisti e repubblicani degli storici rivali.

Oggi i tifosi dell’Espanyol sono gli unici in Catalogna a sventolare sugli spalti la bandiera della Spagna. Molti ex-giocatori stranieri del Barcellona sono più catalani degli stessi catalani ex-Espanyol; l’olandese Patrick Kluivert parla fluentemente catalano mentre Raul Tamudo, nato a Barcellona, si esprime solo in spagnolo. Non è però una questione puramente linguistica, bensì socio-culturale. A Barcellona la chiamano tarannà, modo di essere, e si riferisce a quel rapido processo di adattamento che porta ad interiorizzare usi e costumi propri di un luogo in maniera così profonda da trasformare lo straniero in una sorta di cittadino onorario. Gli esempi si sprecano, basta pensare a gente quale Johan Cruijff, Hristo Stoichkov, Laszlo Kubala, Terry Venables (che salutò i tifosi del Barcellona in catalano durante il suo primo allenamento), Vic Buckingham, Gary Lineker. Non fanno parte dell’elenco invece fuoriclasse quali Diego Armando Maradona e Ronaldo, perché non bastano qualità straordinarie in campo per entrare nell’olimpo del barcellonismo. Maradona passava troppo tempo in Argentina, mentre a Ronaldo interessava solo un contratto più remunerativo. Entrambi hanno giocato nel Barcellona, nessuno dei due ha “vissuto” Barcellona. A partire dalla metà degli anni Novanta però anche l’Espanyol ha intrapreso un timido processo di “catalanizzazione”. Nel 1995 la denominazione del club è stata mutata da Real Club Deportivo Español (in spagnolo) in Real Club Deportiu Espanyol de Barcelona (in catalano). Sotto la guida del presidente Daniel Sanchez Libre il catalano è diventata la lingua principale delle pubblicazioni ufficiali del club, dai libri alle brochure fino al sito internet. La società ha inoltre preso le distanze dalle Brigadas Blanquiazules, la frangia più destrorsa e violenta del tifo organizzato di casa Espanyol; svastiche, fischi ai giocatori di colore (anche ai propri, vedi il portiere Kameni), striscioni contro lo statuto della Comunità autonoma di Catalogna. Il club ha detto basta, rivolgendo le proprie attenzioni sulla Curva Jove, ovvero il lato apolitico e anti-violento della tifoseria organizzata bianco-blu. Non aveva invece avuto seguito, a conferma della complessità della fase di transizione, l’idea di Sanchez Libre di aderire alla campagna a favore della creazione di una nazionale catalana lanciata dal Barcellona nel 1999; il consiglio direttivo dell’Espanyol ha bocciato la proposta.
(3-continua)

Fonte: Calcio 2000

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