lunedì 31 maggio 2010

David Alaba

Jari Litmanen, Edwin van der Sar, Edgar Davids, Andres Iniesta, Patrick Kluivert, Clarence Seedorf, Thomas Müller, Demy de Zeeuw, Sergio Romero, Holger Badstuber. Nazionalità e ruoli diversi, un unico denominatore comune: Louis van Gaal, il tecnico che li ha lanciati nel grande calcio. Ajax, Barcellona, Az Alkmaar, Bayern Monaco. Non c’è stato club nel quale l’allenatore olandese più vincente di tutti i tempi – per alcuni anche il più antipatico - non abbia proposto in prima squadra qualche giovane dal brillante futuro. Alcuni pescati direttamente alla fonte, vedi il caso del finlandese Litmanen o dell’argentino Romero, la maggior parte invece prelevati e svezzati dal vivaio di casa. Il marchio di fabbrica Van Gaal significa garanzia di qualità. E’ questo uno dei motivi per i quali David Alaba può guardare con assoluta fiducia al proprio futuro.

Fin dai primi approcci al calcio professionistico, è stata affiancata al nome di Alaba una sola piccola parola: record. Tutti legati alla verdissima età di debutto nelle squadre in cui finora ha militato. David Alaba è stato il giocatore più giovane ad esordire: con la seconda squadra dell’Austria Vienna (18 aprile 2008, 15 anni e 299 giorni di età); nella nazionale austriaca under 21 (5 settembre 2009, 17 anni e 74 giorni); nella selezione maggiore dell’Austria (14 ottobre 2009, 17 anni e 112 giorni); nel Bayern Monaco in Coppa di Germania (10 febbraio 2010, 17 anni e 232 giorni), in Bundesliga (6 marzo 2010, 17 anni e 256 giorni) e in Champions League (9 marzo 2010, 17 anni e 259 giorni).

Alaba nasce a Vienna il 24 giugno del 1992 e cresce calcisticamente a Donaustadt, il 22esimo distretto della capitale austriaca, dove veste la maglia del club locale dell’Aspern. Gioca a centrocampo ed ammira Mehmet Scholl, all’epoca regista di quel Bayern Monaco che solo un anno prima era salito sul tetto più alto d’Europa, battendo ai rigori il Valencia nella finale di san Siro, e del mondo, primeggiando sul Boca Juniors. All’età di dieci anni Alaba cambia distretto spostandosi al decimo, il Favoriten, sito nella parte meridionale di Vienna e sede di un ginnasio legato alla sezione giovanile dell’Austria Vienna. Il passo di ingresso nell’accademia della prestigiosa società austriaca è breve. Nell’aprile 2008 il tecnico Dietmar Constantini lo porta in panchina nella trasferta dell’Austria Vienna in casa dell’Altach, mentre pochi giorni dopo è in campo per la prima volta nella Erste Liga, la seconda divisione del campionato austriaco, con la squadra riserve. La svolta però arriva in Tirolo nel corso di un torneo per under 19. Werner Kern, capo del settore giovanile del Bayern Monaco, che aveva già visto Alaba in azione l’estate precedente nella Premier Cup organizzata a Manchester, decide di non attendere oltre. Una rapidità condivisa poco più di un anno dopo dallo stesso Constantini il quale, diventato nel frattempo ct della nazionale austriaca, non esita a convocare ed a gettare nella mischia il suo vecchio protetto, permettendogli di battere il record di precocità detenuto fino ad allora da Hans Buzek.

A Monaco di Baviera Alaba, dopo una stagione di apprendistato con le selezioni under-17 e under-19 dei bavaresi, si ritrova in Dritte Liga (la Lega Pro tedesca) nel Bayern Monaco II agli ordini proprio di Mehmet Scholl, da poco subentrato a Hermann Gerland, l’uomo che aveva precettato il giovane austriaco per la seconda squadra del Bayern. Esordio nell’agosto 2009 in uno scialbo 0-0 contro la Dinamo Dresda, già uomo-partita con un gol e un assist nel 3-1 rifilato al Borussia Wüppertaler il turno successivo. Nel gennaio 2010, in partenza per una tournè nella calda Dubai, il Bayern Monaco annuncia l’aggregazione in piante stabile alla prima squadra dei giovani Diego Contento, Mehmet Ekici e David Alaba. Quest’ultimo arriva alla corte di Van Gaal da interno di centrocampo/mediano e ne esce terzino sinistro, ruolo nel quale, secondo il tecnico olandese, può sfruttare meglio il proprio dinamismo e una tecnica, soprattutto con il mancino, di primo livello. Debutta in Coppa di Germania contro il Greuter Fürth fornendo a Franck Ribery l’assist per la rete del momentaneo 3-2 (l’incontro finirà 6-2 per il Bayern), quindi nel giro di tre giorni colleziona i primi caps in Bundesliga, contro il Colonia, e in Champions League, nell’incontro di ritorno degli ottavi di finale contro la Fiorentina. In quest’ultimo match, in cui la qualificazione è stata decisa da un gioiello di Arjen Robben, viene schierato a sorpresa titolare. Ovviamente sulla sinistra della linea a quattro di difesa, in quanto, a detta di Van Gaal, “Alaba è un terzino sinistro, anche se forse non se ne rende ancora conto”. Il diretto interessato dovrà farsene una ragione; fino a quando rimarrà sotto la guida dell’olandese, l’idea di emulare il suo punto di riferimento odierno, lo spagnolo Cesc Fabregas, rimarrà sempre e solo sulla carta.

E’ un austriaco quasi per caso David Olatokunbo Alaba, nato dall’unione di un musicista nigeriano emigrato a Vienna per studiare economia e finito a lavorare come DJ dopo aver visto un proprio brano rap (The Indian Song, cantata con la cantante Petra Suk e firmata con il nome Two in One) finire al secondo posto nelle charts austriache; e da un’ex reginetta di bellezza filippina che oggi lavora come infermiera. Un inno al multiculturalismo di cui la più lesta ad approfittarne è stata l’Austria, che forse anche per mettersi al riparo da possibili future scelte del ragazzo orientate a una qualsivoglia riscoperta delle radici (nigeriane o filippine), lo ha fatto rapidamente debuttare in nazionale maggiore, il 14 ottobre 2009 a Saint Denis contro la Francia, in un incontro valevole per la qualificazione ai Mondiali 2010. E’ finita 3-1 per i transalpini, ma a Vienna e dintorni tutti erano contenti. Alaba per essere entrato nel grande giro, mentre gli Ösi (nomignolo che i tedeschi affibbiano ai loro cugini d’Austria) per aver scoperto, dopo Marko Arnautovic ed Erwin Hoffer (due talenti da riscoprire in piazze diverse da Milano e Napoli), un nuovo “Wunderkind” sul quale riporre la propria fiducia per rilanciare un movimento calcistico da tempo sprofondato in una latente mediocrità.

sabato 29 maggio 2010

Switzerland Reflect on Super League Stars of 2009/10

Switzerland has bid farewell to another season. The 2009/10 campaign ended with three thrilling head-to-head clashes: Basel against Young Boys for the title; Thun meeting Lugano to contest promotion to the Super League; Bellinzona versus Lugano again in the promotion/relegation playoff. Basel, Thun and Bellinzona were the victorious sides, and now Switzerland can assess which stars really made an impact this season.
Here's the seven most impressive players of the Swiss season:

Marco Streller
Along with midfielder Benjamin Huggel, Marco Streller is the symbol of 2009/10 Super League champions Basel – both tough footballers for a tough team. While they may not play attractive football, and style and technique are not their most potent weapons, they do know how to win.
With 21 league goals, Streller has played a key role in helping Basel to their 13th league title. The striker's performances were impressive all season long, despite having to operate with four different partners up front, from veteran Alexander Frei (who suffered a broken arm in February), Australian Scott Chipperfield, Argentine bench-warmer Federico Almerares, right through to Cameroon rising star Jacques Zoua. Last January Streller turned down a move to English side Fulham and Swiss coach Ottmar Hitzfeld convinced him to continue his international career after Euro 2008 – both of those decisions look to have paid dividends.

Seydou Doumbia
In the summer of 2008, Young Boys signed Seydou Doumbia from the Japanese second division. Two years later and a fine spell in the Super League has shown the signing of the Ivorian to have been a real masterstroke: In 2008/09 Doumbia netted 20 goals, and this year he scored 30.
Even the performances of Doumbia weren't enough this season to help Young Boys bag a first title since 1986, as they missed out to Basel. While the Berne club dominated the Swiss league until the spring, then their form dropped, culminating in losing the last two games of the season. This missed opportunity should be quickly forgotten by Doumbia though, the striker is heading to Russia and CSKA Moscow after the World Cup.

Hakan Yakin
Hakan Yakin is a name well known to Swiss football fans, and this past summer Luzern decided to bring the skilled midfielder back home from Qatar. It wasn't easy to predict whether Yakin still possessed the motivation to perform at the highest level, but he soon proved he could make a difference, helping the club to qualification for the Europa League.
Yakin notched 10 goals and 10 assists, but perhaps more importantly, the midfielder played a vital role in helping to bring the best out of his team-mates. Beneficiaries were Romanian forward Christian Ianu (21 goals, having only scored six last season) and former Juventus starlet David Chiumiento (11 goals). In South Africa Yakin will line up for his second World Cup.
Brother Murat Yakin also enjoyed a great season, coaching Thun to win the Challenge League and return to Switzerland's top flight.

Samuel Inkoom
20-year-old Ghana right back Samuel Inkoom has spent this season living up to comparisons with Brazil star Maicon and won't quickly forget his 2009/10 campaign. This season Inkoom has won almost every single competition he has taken part in: With Ghana he won the 2009 FIFA Under-20 World Cup, finished as runner-up in the African Cup of Nations and bagged a league and cup double with Basel in Switzerland.
Inkoom moved to St. Jakob-Park from Kumasi Asante Kotoko in April 2009, and after a difficult start was praised for his positive personality. Basel's chairman Gisela Oeri has gone on record as stating Inkoom is now the subject of heavy interest from many of Europe's elite.

Gilles Yapi Yapo
The Ivory Coast man held the key to the Young Boys midfield this past season. A series of outstanding performances, both as a defensive midfielder and playmaker, helped the club to remain top of the league for much of the campaign. In January Yapi shocked Young Boys fans by announcing he had penned a three-year deal with rivals Basel. The imagined lack of commitment shown by key players such as Yapi and Doumbia was pinpointed by supporters as vital reason why Young Boys lost out on the title at the death.
Yapi arrived in Europe in 2001, following French coach Jean-Marc Guillou to Belgium and Beveren, where the club consisted mainly of players from the Ivory Coast. Despite much criticism, Beveren developed a host of great talents, and Yapi, alongside Gervinho, Yaya Toure, Romaric and Emmanuel Eboue, has proved to be one of the best.

Moreno Costanzo
Moreno Costanzo must rank as one of the best young players of the 2009/10 Super League season, with 14 goals to his name and a universally acknowledged impact, helping St. Gallen to a comfortable mid-table finish.
Last season, Costanzo had been vital too, with 14 goals in 24 games as his side clinched promotion to the top flight. In the Swiss second tier Costanzo has played as a forward, but upon promotion soon found himself deployed on the right side of midfield. Then St. Gallen coach Uli Forte had a brainwave and played the youngster as a classic number 10, just behind his two strikers – Costanzo never looked back.
Already in-demand, the 22-year-old with Italian roots seems ready to step up to a higher level. In fact, Costanzo is amongst the options Young Boys are considering to fill Gilles Yapi Yapo's role.

Frank Feltscher
The 22-year-old midfielder has been one of the few bright spots in Bellinzona's horrible season. On loan from Italian side Lecce, Feltscher saved the day with a late winner in the promotion/relegation playoff against Lugano.
Bellinzona, with the smallest budget in the entire Super League, managed to survive the duel with Challenge League side Lugano, thanks in no small part to Feltscher. The Granata won 2-1 at home and drew 0-0 at the Cornaredo Stadium after 90 minutes of defensive football. With his dribbling ability and outstanding vision, Feltscher has given Bellinzona another season of top flight football.

Fonte: Inside Futbol

mercoledì 26 maggio 2010

Toni Kroos

Da Lothar Matthaus a Toni Kroos, il filo che lega passato e futuro del calcio tedesco si chiama Jupp Heynckes. Nel 1979 il tecnico fece debuttare con la maglia del Bayern Monaco il 18enne Matthaus; vent’anni dopo ha rimesso sui giusti binari la carriera del più puro talento di Germania prodotto nell’ultimo quinquennio. La sovra-esposizione mediatica, parzialmente involontaria, stava giocando un brutto scherzo a Kroos, passato nel giro di un anno da miglior giocatore del Mondiale under 17 in Corea del Sud a grande assente, causa scelta tecnica, agli Europei under 21 in Svezia, torneo vinto proprio dalla selezione tedesca. La Germania completava così uno storico tris di successi, comprendenti anche il titolo di campioni d’Europa under 17 e under 19, e del piccolo fenomeno di Greifswald, città sulle rive del Mar Baltico a circa sessanta chilometri dal confine con la Polonia, nemmeno l’ombra.

Kroos nasce centrocampista centrale con spiccate propensioni offensive. Il suo ruolo naturale è quello di numero 10 alle spalle delle punte, dove può sfruttare al meglio tanto le proprie capacità balistiche (il destro è sopraffino) quanto quelle di lettura delle situazioni di gioco. Eppure il suo ritorno sulla ribalta, dopo un fuoco fatuo nel Bayern Monaco che ha raggiunto la propria luminosità massima in una notte europea, è avvenuto in una squadra dotata di un modulo che non prevedeva l’utilizzo del trequartista centrale: il Bayer Leverkusen di Heynckes, stagione 2009/2010. Ma quello che a prima vista non appariva propriamente l’ambiente tattico ideale per Kroos, un 442 con una mediana centrale composta da due interdittori e la fantasia relegata ai lati, ha per contro rappresentato un fondamentale punto di svolta nella carriera del giovane. L’infortunio di Renato Augusto lo promuove titolare nell’undici delle Aspirine, al resto ci pensa il suo destro tagliente, dal quale sgorgano gol e assist. E per la prima volta in assoluto Kicker elegge per tre giornate di seguito lo stesso giocatore quale miglior elemento della Bundesliga.

Toni Kroos nasce il 4 gennaio 1990 in una famiglia con lo sport nel Dna. La madre è stata campionessa della DDR di badminton, mentre il padre vanta un passato da calciatore nel Greifwalder, club del quale in seguito è diventato anche allenatore. La prima maglia indossata da Kroos non può pertanto che essere quella del padre, il quale, una volta ottenuto un incarico presso il settore giovanile dell’Hansa Rostock, porta il figlio con sé. Nel 2005 Kroos è vice-campione di Germania con la selezione Allievi del club. Un anno dopo si trova sulle rive dell’Isar, a Monaco di Baviera, con addosso la maglia della squadra tedesca più titolata: il Bayern. Alloggia nella foresteria del club, vive e respira calcio.

Il 2007 è l’anno in cui il nome di Kroos inizia prepotentemente ad uscire dai confini tedeschi: Toni prima sfiora la vittoria del campionato tedesco under-19, che finisce al Bayer Leverkusen al termine di una tiratissima finale vinta 2-1 ai supplementari dalle Aspirine; poi parte per i Mondiali under 17 in Corea del Sud, tornando con il “Pallone d’Oro”, riconoscimento assegnato al miglior giocatore del torneo (con il 26% dei voti batte al fotofinish il nigeriano Macauley Chrisantus), la “Scarpa di bronzo” quale terzo miglior marcatore della manifestazione, grazie alle 5 reti (più 4 assist) realizzate, ed il pieno di consensi per aver guidato la Germania sino al terzo posto; infine il 26 settembre debutta in Bundesliga in un 5-0 rifilato dal Bayern Monaco all’Energie Cottbus, disputando gli ultimi venti minuti del match al posto del brasiliano Zè Roberto e fornendo due assist a Miroslav Klose per altrettanti gol. A 17 anni e 265 giorni Kroos è il più giovane debuttante di sempre con la maglia del Bayern Monaco; il primato gli verrà sfilato nel 2010 dall’austriaco David Alaba. Ma l’apparentemente inarrestabile ascesa non è ancora terminata, ed ecco quindi l’esordio in Europa (in Coppa Uefa contro il Belenenses) e una dozzina di intensissimi minuti contro la Stella Rossa, dove Kroos, entrato in campo al minuto 81, prima offre a Klose la palla del pareggio, quindi decide l’incontro nel recupero (3-2 il risultato finale) con un destro dal limite.

E’ nata una stella, dicono in Germania. Uli Hoeneß, tanto per alleggerire la pressione sul ragazzo, dichiara che per lui è già pronta la maglia numero 10 del Bayern. Non la pensa propriamente così invece Jürgen Klinsmann, subentrato nell’estate del 2008 ad Ottmar Hitzfeld sulla panchina dei bavaresi. Poche chance e tanta panchina per Kroos, e il piccolo talento inizia a sgonfiarsi come un pallone bucato. Gli unici lampi arrivano in Coppa di Germania e con l’under 21 tedesca, dove segna al debutto nell’agosto 2008 in un match contro l’Irlanda del Nord. Le sempre ottime prestazioni offerte con le selezioni tedesche portano a Kroos qualche paragone un po’ scomodo. Quello con Micheal Zepek, ad esempio, talento bruciato del calcio tedesco che tutt’oggi detiene il record di presenze nelle nazionali giovanili della Germania, ma la cui carriera è ben presto scivolata tra i dilettanti. Un viaggio ovviamente di sola andata. Quello che non sembra compiere Kroos quando nel gennaio 2009 il Bayern Monaco lo presta al Bayer Leverkusen. Sei mesi per cambiare aria ed accumulare minutaggio prima del rientro in Baviera, almeno nelle intenzioni. Ma la stagione-no prosegue, tanto da convincere il ct della Germania under 21 Horst Hrubesch a non convocarlo per gli Europei di categoria in Svezia nemmeno quale vice di Mesut Özil. Per Toni si tratta di un brusco ritorno sulla terra.

Leggenda vuole che la proroga annuale del prestito di Kroos al Bayer Leverkusen sia dovuta all’intervento del Segretario Generale della Federcalcio tedesca Wolfgang Niersbach, che nel luglio 2009 ha contattato personalmente Jupp Heynckes, diventato nel frattempo il nuovo tecnico delle Aspirine, chiedendogli di prendersi cura del ragazzo. Il resto è storia recente. Il Bayer, fedele alla recente tradizione di grande incompiuta, crolla nel finale di stagione dopo un ottimo girone di andata, mentre Kroos mette in mostra una continuità ad una maturità mai viste prima, che gli valgono anche, il 3 marzo 2010, l’esordio in nazionale maggiore in un’amichevole contro l’Argentina. Scontato in estate il rientro alla casa madre, questa volta non più come pacco di ritorno, bensì da legittimo pretendente ad una maglia da titolare.

lunedì 24 maggio 2010

Super League top players 2009/2010

Marco Streller
Lui e il compagno Huggel sono i simboli del Basilea: rudi, antipatici, nessuna concessione all’estetica. Eppure terribilmente efficaci. Streller, ariete di pura fisicità, immarcabile sulle palle aeree ma tecnicamente limitato, ha ben figurato sia in coppia con l’icona Alex Frei, sia con l’australiano Chipperfield, centrocampista tuttofare riconvertito in seconda punta. Per lui parlano i numeri: 21 gol in campionato, fondamentali nell'economia dei renani per il successo al fotofinish sullo Young Boysa. E i critici sono zittiti.

Seydou Doumbia
L’attaccante della Costa d’Avorio non era ancora nato quando, nel 1986, al Wankdorf di Berna lo Young Boys festeggiava il suo ultimo titolo nazionale. Neppure lui però è riuscito a restituire ai gialloneri quella gioia, nonostante le quasi 60 reti segnate in due stagioni. Capocannoniere della Super League per due volte consecutive (in quella appena conclusa ha toccato quota 30 gol), miglior giocatore del campionato 2008/09. Ma lo Young Boys, dopo aver dominato per larga parte della stagione, ha chiuso mestamente secondo. Doumbia lascerà la Svizzera a giugno per il CSKA Mosca. Una chance ad alto livello indubbiamente meritata.

Rolando Zarate
Il Grasshopper è sull’orlo del collasso economico, ma in campo non si è visto. La squadra guidata da Ciriaco Sforza ha saputo reagire ad un preoccupante inizio di stagione fino ad imporsi quale terza forza del campionato. Merito soprattutto della grande stagione disputata da questa mezzapunta argentina, fondamentale nel ruolo di trequartista centrale nel 4-2-3-1 delle Cavallette. Con i suoi 14 gol e 10 assist Zarate è destinato a diventare uno dei nomi “caldi” del mercato svizzero. Perchè mai come ora il Grasshopper ha necessità di vendere.

Hakan Yakin
Strappato al suo dorato esilio in Qatar, Hakan Yakin ha dimostrato di essere ancora in grado di fare la differenza in un campionato dai ritmi non certo vertiginosi come quello svizzero. A Lucerna, il re dell’ultimo passaggio (10 in questa stagione) ha rivitalizzato la vena realizzativa del rumeno Ianu (che ha toccato quota 21) e il talento di Chiumiento (11 centri per l'ex juventino), dimostrando di non avere alcuna intenzione di abdicare, a dispetto dei 33 anni suonati.

Moreno Costanzo
Rivelazione stagionale, 14 reti in campionato, in doppia cifra già lo scorso anno, quando era stato tra i principali protagonisti della promozione del San Gallo in Super League. Nasce attaccante di movimento, iniza la stagione da esterno destro, sboccia definitivamente quando il tecnico Uli Forte lo mette dietro le due punte. Capocannoniere stagionale di un San Gallo yè-yè che, accanto all’esperienza di veterani alla Mario Frick, ha proposto con successo qualche giovane elemento (Abegglen, Fabian Frei, Lang) di interessanti prospettive.

Gilles Yapi-Yapo
Cresciuto nel Beveren “africano” del maestro di calcio francese Jean-Marc Guillou, Yapi è diventato il cervello di centrocampo dello Young Boys, mostrando personalità e visione di gioco. Come il connazionale Doumbia, lascerà Berna in estate. Lui però ha scelto di passare dall’altra parte della barricata e di accasarsi al Basilea. Per lo Young Boys, oltre al danno, anche la beffa.

Samuel Inkoom
Stagione da incorniciare: campione del mondo under-20 con il Ghana, finalista in Coppa d’Africa, doppietta campionato-coppa nazionale da titolare sulla corsia destra del Basilea al suo primo anno in Europa. Un terzino rapido e grintoso, efficiente tanto nella fase difensiva quanto in quella offensiva. Lo hanno chiamato il nuovo Maicon; indubbiamente un’esagerazione, ma non una bestemmia.

Ideye Aide Brown
Solo metà stagione, sufficiente però per totalizzare un bottino di 12 reti e 6 assist. Poi l’attaccante nigeriano, in doppia cifra per il terzo anno consecutivo con la casacca dei rossoneri, è stato ceduto in Ligue 1 al Sochaux. Stesso destino per il compagno di reparto, il ticinese Mario Gavranovic, finito allo Schalke 04. Due partenze pesantissime che hanno trasformato il Neuchatel da squadra rivelazione, con ambizioni europee, nel 2009 a ultima delle presentabili (ovvero le prime otto) nel 2010.

Alvaro Dominguez
Il circo Sion dell’ingestibile presidente Constantin sembra essersi preso un anno sabbatico, lasciando finalmente parlare il campo. E non è un caso che, una volta diminuite le turbolenze ambientali, un giocatore di qualità come il centrocampista colombiano sia tornato sui livelli mostrati un paio di stagioni fa, e poi misteriosamente scomparsi. Geometrie, tecnica e un buon feeling con la punta belga Lokonda Mpenza. Miglior assist-man del campionato con 12 passaggi decisivi.

Dusan Djuric
Lo Zurigo campione in carica si è squagliato sotto il peso degli infortuni, degli impegni di Champions e dello scarso stato di forma mostrato da molti protagonisti del titolo. Stelle appannate? Largo dunque ai gregari, come questo mosto perpetuo svedese che agisce da collegamento tra mediana e reparto offensivo. Ha giocato interno, esterno, ala, seconda punta, offrendo quantità e sostanza. Notevole il tiro da fuori.

Fonte: Calcio 2000

venerdì 21 maggio 2010

Robben, il talento di cristallo re Mida dei trofei



Al civico 51 della Säbener Straße, il quartiere generale del Bayern Monaco, sembra sia già pronto un biglietto di ringraziamento indirizzato a Jorge Valdano. Perché senza quella porta sbattuta in faccia la scorsa estate dal direttore tecnico del Real Madrid ad Hans Robben, reo di aver chiesto delucidazioni sul ruolo che avrebbe rivestito il proprio figlio Arjen all’interno delle Merengues dopo la nuova svolta “galactica”, oggi in Baviera si starebbe raccontando una storia diversa. Una storia nella quale con tutta probabilità non ci sarebbe né una società arrivata ad un passo dalla conquista della storica tripletta campionato-coppa nazionale-Coppa dei Campioni riuscita in passato solamente a cinque club (Celtic Glasgow, Ajax, Psv Eindhoven, Manchester United e Barcellona), né tantomeno un giocatore divenuto il primo in Europa ad aver conquistato quattro titoli nazionali in quattro paesi diversi: Olanda, Inghilterra, Spagna e Germania. Arjen Robben, appunto. Il pericolo pubblico numero uno per l’Inter di Josè Mourinho nella finalissima di Madrid.

Non sarebbe corretto affermare che il Bayern Monaco 2009/2010 equivale ad Arjen Robben. Ma è altrettanto innegabile che le fortune della squadra di Louis van Gaal siano dipese in larga misura dalle straordinarie prestazioni dell’olandese, fresco della nomina quale giocatore dell’anno in Bundesliga. 16 gol e 7 assist in campionato, 3 centri in coppa di Germania, 4 in Champions League. Oltre ai numeri, tanta qualità. La staffilata all’incrocio dei pali a Firenze, il sinistro al volo su corner di Ribery all’Old Trafford, la cavalcata di 80 metri nei supplementari della semifinale di coppa nazionale contro lo Schalke 04, la prima tripletta in carriera nel 7-0 all’Hannover. Reti decisive realizzate nei momenti, e nelle partite, che contano. Come dovrebbe fare un vero fuoriclasse.



Escludendo la sua prima esperienza nel calcio professionistico con il Groningen, iniziata in una mattina di novembre del 2000 con un sms di convocazione ricevuto dall’allora 16enne Arjen mentre sedeva sui banchi di scuola, Robben ha sempre sollevato trofei in qualsiasi squadra abbia militato: Psv Eindhoven, Chelsea, Real Madrid e ovviamente Bayern Monaco. Mai come nell’attuale stagione ha però saputo essere così decisivo per il proprio club. Merito (anche) di Huub Westhovens, un’osteopata che lo ha aiutato a risolvere il suo più grande tallone d’Achille: i muscoli di seta. Robben il talento di cristallo, dicevano, il cui fisico è delicato come una porcellana di Delft, nonostante la madre Marjo vantava un passato da ottima ginnastica e lo aveva aiutato nella crescita a sviluppare una muscolatura forte ed elastica. Eppure nel suo primo anno al Chelsea Arjen aveva saltato per infortunio 30 incontri sui 59 ufficiali disputati dai Blues. In totale, nelle cinque stagioni spese tra Inghilterra e Spagna, la percentuale di presenze dell’ala nata a Bedum il 23 gennaio 1984 si era attestata attorno al 58%. Il che equivaleva a quasi una partita su due fermo ai box.

Secondo giocatore più veloce al mondo dopo Cristiano Ronaldo grazie ad una punta massima raggiunta in allenamento di 32.9 km/h (ricerca effettuata dal settimanale “Der Spiegel”), fino ad oggi per Robben sono stati spesi in totale 83 milioni di euro. 3.9 li aveva sborsati il Psv Eindhoven (primato per il più costoso under-19 olandese di sempre sottratto a Clarence Seedorf, pagato 500mila euro in meno dalla Sampdoria all’Ajax nell’estate ’95), 18 il Chelsea, 36.1 il Real Madrid, 25 il Bayern. L’olandese è genio senza sregolatezza, come dimostrato dai buoni rapporti con tutti gli allenatori incontrati in carriera, da Guus Hiddink a Josè Mourinho, dai ct oranje Dick Advocaat e Marco van Basten fino a Juande Ramos (il primo a schierare lui, sinistro naturale, come esterno destro, ruolo attualmente ricoperto nel Bayern) e Louis Van Gaal. Con quest’ultimo si appresta a compiere il grande slam. “Das Triple ganz nah”, incitava lunedì il quotidiano sportivo Kicker. E ora la tripletta. O i tedeschi oppure l’Inter, chi vince a Madrid questa volta prende davvero tutto.

Fonte: Il Giornale

Per chi si accende la B-Ticino

Potrà sembrare strano, ma non dappertutto la finale di Champions di sabato sera a Madrid è l’incontro più atteso del week-end per i calciofili. Ad esempio in Canton Ticino, dove sulle pagine dei quotidiani trovano più spazio Pascal Renfer e Gurkhan Sermeter rispetto a Diego Milito e Arjen Robben. La ragione è semplice: a cavallo tra venerdì e lunedì andrà in scena la sfida che nessuno avrebbe mai voluto vedere, ovvero il derby tra Bellinzona e Lugano. Con una posta in palio altissima: la conquista del decimo e ultimo posto disponibile per la stagione 2010/2011 di Super League. E’ lo spareggio/barrage che da anni, a termini di regolamento, mette di fronte la nona classificata delle massima divisione elvetica, il Bellinzona appunto, alla seconda della serie cadetta, il Lugano. Il destino ha piuttosto beffardamente voluto che fossero proprio le due compagini di punta del cantone di lingua italiana a disputarsi la promozione, o la permanenza, in Super League lungo 180 minuti spalmati tra il Comunale di Bellinzona e Cornaredo, la casa del Lugano.

Beffa, proprio così. Non esistono altre parole per descrivere ciò che è accaduto lo scorso sabato pomeriggio, quando il Lugano si accingeva ad affrontare a domicilio, da primo in classifica, l’ormai demotivato Vaduz. Una vittoria avrebbe significato la promozione diretta. Ne è invece uscito un brutto 1-1 che ha gettato nello sconforto i circa 7700 spettatori (mai visto Cornaredo così gremito) accorsi a sostenere i bianconeri. E mentre i bernesi del Thun, guidati da una vecchia conoscenza del calcio svizzero quale Murat Yakin, festeggiavano il sorpasso avvenuto all’ultima tornata, a Lugano rotolava (metaforicamente) la testa del tecnico Simone Boldini, che già l’anno scorso aveva portato la squadra al secondo posto in Challenge League prima di arrendersi nel barrage contro il Lucerna.

Il giorno successivo il Bellinzona perdeva invece in casa contro il fanalino di coda Aarau, già però aritmeticamente retrocesso. Una domenica pomeriggio pertanto tranquilla per i granata, dopo le indicibili sofferenze durate un’intera stagione. Quest’anno al Comunale si è vista una squadra molle, impaurita e tecnicamente modesta, alla quale il triplo cambio di panchina (Schällibaum-Cavasin-Morinini) è riuscito a regalare solo brevi sussulti, senza però mutare il quadro generale. Quest’anno il filo diretto con il campionato italiano si è rivelato un cocente flop, con gli impresentabili Maurizio Ciaramitaro e Fausto Rossini, e l’appena discreto Aimo Diana, tornato dignitoso una volta schierato difensore centrale rispetto ai pessimi esordi sulla fascia. Per il Bellinzona si tratta del terzo barrage negli ultimi quattro anni. Nel 2007 i granata, allora squadra di serie cadetta, dovettero arrendersi all’Aarau, mentre un anno dopo riuscirono ad imporsi sul San Gallo ed a riguadagnare così la Super League.

Sia il Lugano che il Bellinzona dovranno rinunciare ai loro migliori elementi, gli esperti Renfer e Sermeter citati all’inizio. Ma la sfida più interessante rimane quella tra i due allenatori, l’ex granata Marco Schällibaum contro l’ex bianconero Roberto Morinini. Per entrambi un incrocio pericoloso con i loro vecchi datori di lavoro. Schällibaum era sbarcato a Bellinzona nell’estate 2008 con il non facile di sostituire Vlado Petkovic, il tecnico che in un colpo solo aveva portato i granata alla promozione in Super League e alla finale di Coppa di Svizzera, con tanto di prima storica qualificazione alla Coppa Uefa. Ad una prima stagione più che dignitosa, tanto in Europa (eliminazione contro il Galatasaray dopo due match ad alto tasso spettacolare) quanto in patria (salvezza tranquilla), era seguita una seconda terminata con l’esonero lo scorso autunno dopo una serie di imbarazzanti prestazioni.
Morinini per contro ha allenato il Lugano in due occasioni. La prima va ricordata per lo storico secondo posto nella stagione 94-95 alle spalle del Grasshopper, e per l’impresa compiuta l’anno successivo in Coppa Uefa quando i ticinesi eliminarono l’Inter vincendo a San Siro. Tornato nel 2000, ecco un altro secondo posto, prima del fallimento del club. Nel week-end entrambi andranno contro il loro passato. E nel Canton Ticino sia Louis van Gaal che Josè Mourinho dovranno accontentarsi, almeno per una volta, di non avere la prima pagina tutta per loro.

PS. Ringrazio l’amico e collega Stefano Olivari per il geniale titolo.

lunedì 17 maggio 2010

Verdetti di fine stagione

Come da pronostico, l’Ajax si assicura il brodino della Coppa d’Olanda battendo un Feyenoord nettamente inferiore sotto ogni punto di vista, in primis quello degli stimoli. Formalmente la finale è spalmata su 180 minuti, in realtà ne dura appena 9, il tempo impiegato da Siem de Jong per perforare due volte la retroguardia del club di Rotterdam nel match di andata dell’Amsterdam ArenA. Il resto è solo una passerella, quasi più amara per l’Ajax (il titolo nazionale finito al Twente per un solo punto brucia parecchio) che per il Feyenoord.

La squadra allenata da Mario Been, comunque più che dignitoso alla sua prima stagione sulla panchina dell’ex grande d’Olanda, centra l’obiettivo minimo della qualificazione all’Europa League. Al Feyenoord faranno compagnia Psv Eindhoven, Az Alkmaar e Utrecht. Questi ultimi sono i vincitori dei play-off per l’ultimo piazza disponibile per l’ex Coppa Uefa. Dove forse ci sarebbe stato meglio l’Heracles Almelo di Gertjan Verbeek, terminato davanti in classifica all’Utrecht spendendo quindici volte di meno quanto fatto dal club allenato da Ton Du Chatinier. La lotteria dei play-off ha però vanificato in dieci minuti quanto di buono fatto lungo tutto l’anno; tale è stato infatti il tempo impiegato dal Roda per ribaltare il risultato ad Almelo e cogliere un clamoroso successo esterno per 2-1, dopo il pareggio (1-1) dell’andata. Tutt’altra musica però in finale contro l’Utrecht, nel frattempo sbarazzatosi facilmente del Groningen. La differenza tra i due club è emersa in tutta la sua chiarezza sia al Parkstad Limburg (2-0 Utrecht) che al Galgenwaard (4-1). Missione dunque compiuta sotto la Domtoren (Torre del Duomo) per Mertens, Van Wolfswinkel, Mulenga e compagni. Nonostante nessuno di questi attesi protagonisti sia riuscito a terminare il campionato in doppia cifra. Insomma, c’è ancora parecchio su cui lavorare.

Capitolo Nacompetitie. Salvo all’ultimo respiro il Willem II grazie alla doppietta di uno dei tanti pessimi giocatori visti a Tilburg negli ultimi anni: l’ex Borussia Dortmund Mehmet Akgün. Eroe per un giorno, Akgun ha affossato con due reti nei tempi supplementari i sogni di gloria del Go Ahead Eagles, sbarcato a Tilburg forte dell’1-0 dell’andata, pareggiato dopo una mezzora scarsa da Demouge. Grossa delusione per le Aquile di Deventer, che dopo la semifinale di Coppa d’Olanda persa contro l’Ajax vedono svanire al fotofinish il loro principale obiettivo stagionale. Il successo nella tiratissima semifinale contro il Cambuur di Menzo (2-0 a Deventer, 0-1 a Leeuwarden) aveva ingigantito le aspettative, anche alla luce dello stato di crisi in cui versava il Willem II, mai convincente nemmeno in una semifinale sulla carta agevole come quella contro l’Fc Eindhoven. Una grande stagione conclusa con un pugno di mosche, mentre Tilburg si veste a festa per celebrare il lieto fine di un’annata imbarazzante. Anche questo è il calcio.

L’altro match dei play-off salvezza/promozione aveva invece regalato un emozionante derby di Rotterdam: Sparta contro Excelsior. I primi si erano sbarazzati non senza qualche brivido dell’Helmond, sconfitto 2-0 al Het Kasteel dopo il ko di misura (1-2) dell’andata. I giovani guidati da Alex Pastoor (l’Excelsior è, di fatto, una squadra under-21) avevano invece avuto la meglio sullo Zwolle sia in trasferta (1-0) che in casa (4-3). Derby quindi, il cui primo atto si era chiuso nella tana dell’Excelsior con uno 0-0 che lasciava aperto qualsiasi discorso. Ed era pareggio a reti inviolate fino al novantesimo anche nel ritorno, almeno fino a quando Rydel Poepon incornava in rete un assist di testa di Eric Falkenburg e faceva esplodere l’Het Kasteel. La gioia è durata però un solo minuto, il tempo necessario a Fernandez, che poco prima aveva fallito un calcio di rigore, per mettere il pallone nell’angolino lontano dove Cor Varkevisser non poteva arrivare. Dell’Excelsior parleremo più approfonditamente a breve, mentre lo Sparta chiude in lacrime una stagione iniziata benino e poi rovinosamente precipitata. Ma non ha certo fatto peggio del Willem II. Anche questo però, lo ripetiamo, è il calcio.

domenica 16 maggio 2010

Michel Preud'homme's Gent on the Rise

Few in Belgium believe that Michel Preud’homme will go his entire career without being appointed national team coach, it just seems written in the stars. The former keeper, who enjoyed notable spells with Standard Liege, Mechelen and Benfica, is now one of the most promising young managers in Belgian football and seemingly has a bright future.

Two years ago Preud’homme led his one of his former clubs – Standard Liege – to their first Belgian title in 25 years. And this season he has moulded Gent into one of the best teams in the Jupiler League, having guided the Flemish side to second place, their highest finish since 1955. This important achievement means that next season Gent will enjoy the spotlight of the Champions League, hoping to navigate their way through the preliminary round. Should they do so it will undoubtedly be the finest moment in a long long history – the club was formed in 1864 and is one of the founders of the Belgian Football Association.

Gent are a club steeped in history. Their nickname is De Buffalos, a term coined after a visit from the original Buffalo Bill’s Wild West Circus to the city in the early 1900s. It obviously had quite an impact, as a native American chief was chosen as the symbol of the club. Gent were known by the French name of La Gantoise until a decision was made to switch to the Dutch version in 1971.

Although Gent have been in the Belgian top flight since the 1989/90 season, the club have always failed to win the title: Simply put, the Buffalos have not been able to compete with the economic power of the country’s three giants – Anderlecht, Club Brugge and Standard Liege. Usually Gent’s budget stands at about half of Standard’s and almost a third of Anderlecht’s. In 2008, under Norwegian coach Trond Sollied, the club reached the cup final (they have lifted the trophy twice before in 1964 and 1984), however Anderlecht proved too strong and saw off the upstarts 3-2.

The following season Sollied left the Jules Ottenstadion for Dutch side Heerenveen and Preud’homme was appointed the new boss. The former keeper had just won the Belgian Coach of the Year award for a successful campaign with Standard Liege. Preud’homme went on record as saying he had departed Liege because he simply could not see a future with the club anymore, but the main reason seemed to be clear for all to see: Gent were offering more money.

Preud’homme switched Sollied’s 4-3-3 system into a 4-4-2 and at first found the going tough. In the first half of the season Gent lay stuck in mid-table, although things changed after the winter break with new arrivals Stef Wils, Tim Smolders and Adnan Custovic, along with explosive Costa Rica forward Bryan Ruiz (Ruiz would go on to be included in the Jupiler League’s best eleven at the end of the season). Gent ended the 2008/09 season fourth, with the same number of points as giants Club Brugge, but worse goal difference.

The curse of a poor start seemed to stick with them for the current campaign, as Roma handed out a humiliating 7-1 home defeat in qualifying for the Europa League. However, Preud’homme gradually raised the team’s performance in the Jupiler League and then the championship playoffs where Gent started in third and ended in second. De Buffalo finished their season in style with a 6-2 win over Club Brugge in the last game of the playoffs. And this Saturday (15th May), Gent will take to the pitch for in the final of the Belgian Cup against Cercle Brugge.

Senegal forward Elimane Coulibaly, the club’s top scorer with 13 goals, and Costa Rica midfielder Randall Azofeifa, have been two of the key players in Gent’s rise. Azofeifa arrived in Belgium in 2006 alongside countryman Bryan Ruiz. Both were scouted by former Gent general manager Michael Louwagie, but, unlike Ruiz, Azofeifa has been inconsistent, with flashes of brilliance interspersed with dips in form. The 25-year-old is a fine passer and his shots are, as the Belgian press say, “as sharp as a razor’s edge.” Azofeifa still has some way to go though in order to show he can step up to a bigger league.

Preud’homme has won praise for discovering and developing talented youngsters, such as Belgian-Moroccan midfielder Yassine El Ghanassy. The 19-year-old joined the Buffalos in the summer of 2008 from La Louivere and has already impressed with his vision and pace. Having been labelled by home fans “little [Mbark] Boussoufa” (the midfielder is considered the club’s best player of the last 10 years) great things are expected. El Ghanassy notched his first goal against Naftan Novopolotsk in Europa League qualifying.

Gent’s coach was one of the best goalkeepers in the world over a long career and the first winner of the Yashin Award as the finest keeper at the 1994 World Cup. With Mechelen Preud’homme won the Belgian Cup in 1987, the Cup Winners Cup and European Super Cup in 1988 and the Belgian league title in 1989. While the 51-year-old’s coaching career has been short so far, the signs are it could be similarly marked with success. Whether Gent will be the main beneficiaries only time will tell: Their fans will hope so.

Fonte: Inside Futbol

venerdì 14 maggio 2010

Tulipani tricolori: le curiosità

Viaggio attraverso cento anni di calciatori olandesi in Italia. Il meglio, il peggio e le storie curiose (3).

Andries Roosenburg. Calciatore stagionale, nel senso che sbocciava in primavera dopo un letargo lungo tutto l’inverno. La Fiorentina lo acquista nel 1950, lui scopre il cibo italiano e si presenta in campo con una silhouette non propriamente atletica. La cura dimagrante sortisce gli effetti desiderati da marzo in poi: 7 gol la prima stagione, 10 la seconda. Poi si ripresenta nuovamente appesantito. La Viola, stufa di avere un attaccante part-time, lo rispedisce a casa.

Johan Cruijff. Anche il miglior calciatore olandese di sempre ha giocato in Italia. Una sola partita, con la maglia del Milan (avversario il Feyenoord), nel corso del Mundialito per club 1981, torneo fortemente voluto da Silvio Berlusconi. In condizioni fisiche impresentabili, il Maestro viene sostituito dopo un tempo. La Gazzetta dello Sport gli affibbia un 4. Per molti commentatori è un giocatore finito. Cruijff tornerà in patria e vincerà ancora titoli nazionali con Ajax e Feyenoord.

Mario Been. Romeo Anconetani stravedeva per lui. Lo fece accogliere a Pisa da idolo, gli pagò un tour nei negozi di abbigliamento più costosi, e in Olanda c’è chi giura che gli avrebbe raddoppiato lo stipendio pur di tenerlo in Toscana. Ricevette in cambio un fantastico gol da cinquanta metri contro il Messina, uno stoico 0-0 strappato a San Siro contro il Milan, e una retrocessione in Serie B. Perché purtroppo Been era il tipico giocatore da “potrei ma non voglio”.

Marciano Vink. Ad un certo punto prese palla, saltò avversari in rapida serie e trafisse Pagliuca. “Sembrava Alberto Tomba”, commentò il portiere doriano. In quel fantastico slalom di cinquanta metri nel derby della Lanterna, stagione 93/94, è racchiusa tutta l’esperienza italiana di Vink. Una sola stagione, mediocre, con una punta di sublime. Poi è diventato giocatore di poker professionista. Ma tra le carte e il pallone, a suo figlio consiglierà sempre il primo.

Harvey Esajas. Storia da libro Cuore, la sua. Nel 2002 aveva appeso le scarpe al chiodo e sbarcava il lunario con i lavori più disparati (barista, lavapiatti, commesso). L’amico Clarence Seedorf decide di dargli una mano, procurandogli un ingaggio nel Milan. Nel luglio 2004 arriva in Italia. Pesa 99 chili. Lavora sodo, debutta in Coppa Italia, è in panchina nella finale di Champions ad Istanbul. Chiude in C nel Lecco, visibilmente soprappeso. Ma felice.

Sander Westerveld. Un ex nazionale in Lega Pro. Merito del nuovo corso del Monza inaugurato da Clarence Seedorf, che oltre ad aver portato in Brianza un paio di parenti (il cugino Stefano ed il fratello Chedric), ha convinto anche questo portiere che nel 2001 ha vinto cinque trofei con il Liverpool, tra cui la Coppa Uefa. Un lusso per la C, nonostante qualche amnesia. “Il centro di allenamento di Monzello è da squadra di Champions League”, assicura. Al Brianteo però si sono accontetati di aver evitato i play-out.


(Westerveld con Stefano - a sinistra - e Cedric Seedorf - al centro)

Fonte: Calcio 2000

giovedì 13 maggio 2010

Tulipani tricolori: i flop

Viaggio attraverso cento anni di calciatori olandesi in Italia. Il meglio, il peggio e le storie curiose (2)

Winston Bogarde. Chi di Olanda ferisce, di Olanda perisce. Dopo i fasti di Van Basten & co., la nuova ondata oranje del Milan si rivela un disastro. Davids, Reiziger, Kluivert e Bogarde. Quest’ultimo dura lo spazio di tre partite; giusto in tempo di mandare in rete l’attaccante dell’Udinese Oliver Bierhoff con uno sciagurato retropassaggio. Non si risolleverà più, a differenza dei citati connazionali. Bidone in Italia, Spagna e Inghilterra. Un vero mito alla rovescia.

Ronald Hoop. Nel 1996 sbarca a Palermo il “Van Basten nero”, almeno così dice un articolo dell’epoca. La realtà è ben diversa; 447 minuti giocati, una rete al Venezia, rosanero in B a fine stagione. Presidente era Giuseppe Ferrara, il cui braccino corto fece nascere numerose leggende metropolitane, tra cui quella che voleva Hoop venditore di perline alla spiaggia di Mondello per integrare la scarna busta paga.

Leonard van Utrecht. Misteri e ignoranza del calcio italiano. Cosa può spingere un club di Serie A ad acquistare un attaccante che in quattro stagioni di B olandese non era mai finito in doppia cifra, rimane un rebus pressoché irrisolvibile. Eppure il Padova anno 95/96 punta su di lui per centrare la salvezza. Che non arriverà, come non arriveranno i suoi gol (2 in totale, uno in A e uno l’anno successivo in B). Tornato in Olanda, ha continuato a non segnare.

Milan Berck Beelenkamp. Tre flop al prezzo di uno. Un blitz di Claudio Onofri nell’aprile 1998 porta a Genova i giovani Van Dessel, Van Kallen e Beelenkamp. Quest’ultimo è il Beckham olandese, ma solo per l’aspetto fisico. Per il resto è un difensore tecnicamente modestissimo, rimandato a casa dopo 14 presenze. Van Dessel invece, ricorda Onofri, “è diventato capitano del Roda ed ha stretto la mano a Paolo Maldini in Europa”. Quando si dice le soddisfazioni della vita.

Harald Wapenaar. Diceva che aveva scelto l’Udinese, ed il tranquillo Friuli, per sfuggire al caos di Rotterdam. Diceva di essersi innamorato della sabbia di Lignano. Diceva che la cucina italiana gliela aveva prescritta il medico. Di calcio parlava poco, eppure portava fortuna: due presenze in Serie A, Udinese-Juventus 4-3 e Udinese-Parma 2-1. Ma la tecnica e lo stile alquanto rivedibile di questo portiere non gli valsero la riconferma nemmeno come vice-Turci.

Fonte: Calcio 2000

mercoledì 12 maggio 2010

Tulipani tricolori: i top

Viaggio attraverso cento anni di calciatori olandesi in Italia. Il meglio, il peggio e le storie curiose (1)

Marco van Basten. Da piccolo guardava una scritta su un muro fuori da casa: “dopo me stesso, sono il migliore”. Una frase diventata la sua filosofia di vita. Il Milan lo paga all’Ajax un miliardo di lire; l’affare del secolo, in rapporto qualità/prezzo. Tre volte Pallone d’Oro, doppietta allo Steaua Bucarest in finale di Coppa Campioni, perle europee (Vitocha, Real Madrid, IFK Goteborg) a getto continuo. Crudele stop al calcio nel 1993, tradito dalla caviglia destra.

Ruud Gullit. Mirabile fusione tra tecnica e potenza. Nasce libero nell’Haarlem, impara il calcio a fianco di Cruijff nel Feyenoord, numero 10 nel Psv che lo cede al Milan per 12 miliardi di lire. Solo Maradona all’epoca era costato di più. Imprendibile nelle progressioni, imperioso di testa, puntuale sotto porta. Pallone d’Oro 1987, doppietta allo Steaua Bucarest nella finale di Coppa Campioni. Vive una seconda giovinezza alla Sampdoria, numero 4 sulla schiena e libertà di movimento totale.

Frank Rijkaard. Sacchi lo preferiva a Gullit e Van Basten, e lo impose anche a Berlusconi, innamorato dell’argentino Borghi.. Duttilità ed intelligenza tattica lo rendevano il sogno di ogni allenatore. Gioca libero, stopper, centrocampista destro o centrale. Nel Milan decide la finale di Coppa Campioni contro il Benfica, poi segna nella Supercoppa Europea e nell’Intercontinentale (doppietta). Recentemente eletto in patria miglior centrocampista olandese di tutti i tempi.

Edgar Davids. Incompreso nel Milan, crepuscolare nell’Inter, imprescindibile nella Juventus. In meno di un anno passa da mela marcia dei rossoneri alla finale di Champions con la Vecchia Signore. Il pitbull accarezza la palla e azzanna gli avversari. Nell’Ajax nasceva ala sinistra e veniva accostato a Bryan Roy. Oggi la pietra di paragone è lui. Il suo stile ha fatto scuola, i suoi occhialini pure. Fermo dal 2008, ufficialmente non si è mai ritirato dal calcio.

Clarence Seedorf. La vocazione internazionale era chiara già a 19 anni, quando lasciò l’Ajax per la Sampdoria. Un quarto di secolo dopo, per l’unico giocatore al mondo ad aver vinto tre Champions League con tre squadre diverse, parlano i numeri. 8 trofei vinti con il Milan (in totale in carriera ne ha collezionati 19), 9 riconoscimenti individuali. A 33 anni può ancora permettersi di segnare di tacco al Manchester United in Champions. Centrocampista totale, incompreso solo nell’Inter.

Ruud Krol. Dal Canada a Napoli con l’etichetta di pensionato. Sotto il Vesuvio invece disputa quattro stagioni di ottimo livello. Sontuosa la prima, nella quale il Napoli guidato da Rino Marchesi (che alla vigilia si era lamentato per l’arrivo di un over-30) finisce terzo. Leader naturale, guida la difesa con una classe ed uno spirito competitivo senza pari. Prima di Re Diego, il sovrano di Napoli batteva bandiera oranje.

Jaap Stam. Uno dei pochi errori nella carriera di manager di Sir Alex Ferguson. Considerandolo finito, lo cedette in Italia. Ma il gigante di Kampen ha conosciuto, tra Lazio e Milan, una seconda giovinezza. Fisicità unita a capacità di lettura del gioco e personalità. “Se prendiamo gol vi ammazzo tutti” minacciò i compagni di reparto milanisti durante un calcio d’angolo. Meglio ascoltarlo, uno così. Oggi allena lo Zwolle.

Wesley Sneijder. Il 26 agosto scorso si allenava, incupito e rabbioso, a Valdebebas, l’avveniristico centro sportivo del Real Madrid. Tre giorni dopo faceva faville nel derby di Milano. E poi reti pesanti in campionato (Udinese, Siena), Champions (Dinamo Kiev) e Coppa Italia (Livorno). Qualità tecniche e balistiche da primo della classe, grinta da rude mediano. Un trequartista moderno e totale. Se non gira lui, stenta tutta l’Inter.

Faas Wilkes. Lo chiamavano la Monna Lisa di Rotterdam perché il suo dribbling era come un’opera d’arte. Del suo talento si innamorò il presidente dell’Inter Carlo Masseroni, che lo soffiò ai cugini del Milan grazie ad una cena in un ristorante meneghino. Versione ante-litteram di Arjen Robben, tra il 1949 e il 1951 segna 42 gol in campionato. Leggendaria una sua prestazione in un derby vinto dall’Inter 6-5 in rimonta dal parziale di 1-4. Gioca anche nel Torino, poi va in Spagna.

Dennis Bergkamp. Mister Class in ogni dove, tranne che a Milano. Nell’Inter paga caro le aspettative elevate (doveva diventare il Van Basten nerazzurro) e un carattere fin troppo schivo. Numeri alla mano, però, con 8 reti è capocannoniere nell’edizione della Coppa Uefa vinta dall’Inter in finale contro il Salisburgo. Vittima o colpevole? La verità si trova nel mezzo. Ma non può essere definito un bidone.

Fonte: Calcio 2000

lunedì 10 maggio 2010

Dal gol alla Bibbia

Quelli che si rifiutano di indossare una maglia sponsorizzata da una società di scommesse sportive. Quelli che non digiunano e finiscono davanti al Parlamento con l’accusa di indegnità. Quelli che decidono di non firmare il prolungamento del contratto perché ormai la fine del mondo è vicina. Quelli che si presentano ad un provino con il nome di Joseph Ratzinger. Quelli che chiedono una maglia da titolare perché “me lo ha detto Dio”. Quando calcio e religione si incontrano, nascono storie bizzarre ed imprevedibili. Talvolta sincere, alcune volte folcloristiche, altre ai confini del ridicolo. I casi di Frederic Kanoutè, Dudu Aouate, Carlos Roa, Joseph Laumann e Taribo West rappresentano un perfetto esempio dei variegati effetti che può creare la commistione tra sacro e profano. Ma c’è chi si è spinto oltre, abbandonando una carriera dalle brillanti prospettive per seguire la propria fede. Una scelta radicale che non ha mai conosciuto ripensamenti né repentine inversioni di marcia. Accadde nel settembre del 1969 quando Peter Knowles, astro nascente del Wolverhampton e del calcio inglese, sconvolse il paese annunciando, all’età di 24 anni, il proprio ritiro dal calcio professionistico dopo essere diventato Testimone di Geova. Non gli interessava più segnare gol ed esaltare il pubblico, ma solo incrementare i proseliti del proprio culto.

Il 6 settembre 1969 Peter Knowles indossa per l’ultima volta la maglia arancio-nero del Wolverhampton. I Lupi pareggiano 3-3 in casa contro il Nottingham Forest, poi negli spogliatoi arriva l’annuncio-shock. Il talento più fulgido visto al Molyneux Stadium negli ultimi anni saluta tutti e se ne va. I compagni di squadra più giovani pensano ad uno scherzo, mentre i veterani scuotono il capo: dategli tempo un mese e sarà di nuovo tra noi, dicono, perché un ragazzo così dotato non riuscirà a rimanere senza calcio tanto a lungo. Il tecnico Bill McGarry prende Knowles in disparte e lo invita a tornare sui propri passi; calcio e religione, del resto, possono convivere pacificamente. Fiato sprecato. Nessuno aveva capito che le decisione presa dal giovane Peter era il frutto di un lungo e tortuoso percorso spirituale interiore intrapreso una sera di agosto dell’anno prima, quando due Testimoni di Geova aveva bussato alla sua porta. “All’epoca”, ricorda Knowles, “ero un credente distratto. Mi tormentavo domandandomi perché mio padre e due mie sorelle erano morti così presto. Quegli uomini seppero darmi tutte le risposte. La mia vita cambiò completamente. Da quel giorno cominciai a studiare la Bibbia con mia moglie, e gradualmente realizzai che il calcio rappresentava un elemento di disturbo. Mi soffocava, mi rubava del tempo. I tifosi mi adoravano, e non lo trovavo giusto. Non potevo permettermi di essere oggetto di un simile culto della persona. La Bibbia dice che nessuno è più grande di Dio”.

Peter Knowles era soprannominato il George Best di Wolverhampton. Le movenze, la tecnica, il dribbling e certi improvvisi cambi di direzione rendevano naturale un paragone con il fuoriclasse del Manchester United, sebbene Knowles non possedeva la genialità del nord-irlandese, ma fortunatamente nemmeno l’amore per gli eccessi, alcol e donne su tutti. Nato il 30 settembre 1945 a Fitzwilliam, piccolo villaggio a sud-est di Leeds, da una famiglia di minatori, a 15 anni Knowles entra a far parte del Wath Wanderers, la scuola calcio istituita dal Wolverhampton. Il manager dei Wolves, Stan Cullis, lo aveva visionato durante un torneo scolastico locale, nel quale il giovane Peter aveva furoreggiato grazie a qualità tecniche nettamente superiori ai coetanei. All’epoca il Wolverhampton era uno dei grandi club d’Inghilterra, forte di tre titoli nazionali vinti negli ultimi otto anni (1954, 1958, 1959). Nella stagione 61/62 le sue giocate guidano i Lupi fino alla finale della FA Youth Cup, persa dopo un replay contro il Newcastle. Nell’estate del 1963 viene aggregato stabilmente alla prima squadra, in partenza per una tourné attraverso Canada e Stati Uniti. Il 14 ottobre dello stesso anno arriva, contro il Leicester City, il debutto nella massima divisione inglese. Knowles sostituisce il suo idolo di gioventù, il nazionale inglese Peter Broadbent. Otto mesi dopo è invece protagonista con la maglia dell’Inghilterra under-18 in un torneo giovanile in Olanda, vinto proprio dagli inglesi. Nella finale contro la Spagna, umiliata 4-0, Knowles realizza quello che ha sempre definito il gol più bello della sua carriera, una botta da trenta metri che si infila sotto l’incrocio dei pali.

Per il Wolverhampton però la prima metà degli anni Sessanta coincide con una crisi societaria, che inevitabilmente si riflette in campo. Al termine della stagione 64/65la squadra retrocede, con Knowles spesso relegato in panchina perché il suo calcio era ritenuto troppo artistico per una compagine che doveva invece usare la clava per salvarsi. Una pregiudiziale che cade in Seconda Divisione, dove il ragazzo viene lasciato libero di inventare, sia decentrato sulla sinistra in qualità di ala che sulla mediana alle spalle degli attaccanti. Il primo anno va a segno 19 volte in 31 partite, mentre nel secondo un infortunio lo ferma a 8 centri in 23 incontri. Ma i Wolves riescono a riconquistare la massima divisione. Knowles si regala una Triumph Spitfire rossa con la quale gira per la città a godersi il bagno di folla. A 21 anni lo aspetta di nuovo la First Division e un sogno: disputare un’ottima stagione per potersi guadagnare un trasferimento in un grande club di Londra. Il primo novembre 1967 debutta da protagonista nell’under-23 inglese, che batte 2-1 il Galles a Swansea. Chiude la stagione in doppia cifra (12 gol in 36 partite) e accetta di prolungare il proprio contratto con il Wolverhampton. La sua casa, dichiara. Due mesi dopo niente sarà più come prima.

La stagione 68/69, l’ultima disputata per intero, consegna ai Wolves un Knowles molto diverso: serio, introverso, turbato. Il 13 novembre 1968 a Birmingham va in scena il suo atto con la maglia della nazionale inglese. L’under-23 pareggia 2-2 contro i pari età dell’Olanda; Knowles esce dal campo tra gli applausi. Era la sua presenza numero quattro. L’estate successiva, dopo un’amichevole contro l’Ipswich Town, viene convocato dal ct della nazionale Alf Ramsey per un colloquio. Bisogna iniziare a programmare il Mondiale messicano del 1970, dove l’Inghilterra si presenterà come detentrice del trofeo. Ramsey vuole inserire il 23enne di Fitzwilliam nel giro della nazionale maggiore. La risposta lo lascia a bocca aperta: “esistono forti probabilità che io a breve smetta di giocare a pallone”. Il calcio, a Peter Knowles, non interessa più. A fine agosto arriva l’annuncio ufficiale. La carriera di Knowles si chiude con un bottino di 61 reti in 174 partite. L’ormai ex-giocatore rimane sotto contratto con il Wolverhampton fino al luglio del 1982, nella speranza di un ripensamento che non avverrà mai. La sua nuova vita lo porterà ad un impiego part-time per consegnare il latte nelle scuole, a dieci anni di attività nell’ufficio commerciale della catena di grandi magazzini Marks & Spencer, e soprattutto a centinaia di domeniche spese a suonare i campanelli degli inglesi. Nel 1991 il folk singer Billy Bragg gli ha dedicato una canzone dal titolo “God’s Footballer”, il calciatore di Dio.

Fonte: Guerin Sportivo

sabato 8 maggio 2010

FC Twente Eredivisie Title Well Deserved for Blaise Nkufo

When Blaise Nkufo landed in Enschede in the summer of 2003, the local club FC Twente were nothing more than a solid mid-table outfit with a whole host of problems, both on and off the pitch. During that season, the Tukkers were heading out of business, as the club’s mother corporation (FC Twente ‘65 Corporation) was declared bankrupt. The team, at that time led by Belgian coach Rene Vandereycken, played such unattractive football that the local press had labelled them the “Catenaccio boys”.

Nkufo arrived at Twente from German side Hannover, and the Swiss forward was much-travelled. His professional career was littered with ups and downs, impressive seasons with Yverdon (12 goals in the Swiss second tier in 1996/97), Lausanne (18 goals in 1997/98), Lugano (14 goals in 1999) and Mainz (14 goals in the 2. Bundesliga in 2001/02), were mixed with disappointing spells at Grasshopper, Luzern and Hannover.

Seven years later Nkufo played his last game for Twente, at NAC Breda’s Rat Verlegh Stadium. It was not one of his best, but surely was his most important, as the Reds beat their hosts 2-0 and won their first ever Eredivisie title. Despite an afternoon of high pressure, Steve McClaren’s side handled the nervousness of starting the day just one point ahead of giants Ajax, and left Breda as champions.

It was quite an achievement from Nkufo and co. For the first time in Dutch history, two years have passed without either Ajax, Feyenoord or PSV Eindhoven becoming champions – AZ Alkmaar picked up the trophy last year. Steve McClaren meanwhile became only the second English coach to pick up the title, after Sir Bobby Robson. Nkufo can’t sit around celebrating all those facts though, because, Twente’s all time top scorer (114 goals in 223 Eredivisie games) is heading to the MLS and Seattle Sounders once the World Cup has ended.

The Swiss striker has played a vital role in the rise of the Tukkers from mid-table mediocrity to the country’s best, having been their leading scorer for six consecutive seasons – this time around Nkufo was pipped to the post by Costa Rica forward Bryan Ruiz. His best performance came with back to back seasons of 22 goals in 2006 and 2007, and he has never failed to register numbers in the double digits. Indeed, the title is a just reward for seasons of hard slog. “This is the second domestic title I’ve won”, said Nkufo. “In 1996 I claimed the Qatar Stars League with Al Arabi. I played there for half a season, because I couldn’t stand to waste my time in the Swiss third division. However, triumphing in the Eredivisie tastes totally different.”

Born in Kinshasa, the capital of the former Zaire (now the Democratic Republic of the Congo) on 25th May, 1975, Nkufo fled to Switzerland with his family when he was just seven. His father, a nurse, took flight from the regime of dictator Joseph Mobutu Mobutu and a country in strife, and settled in Lausanne. One of Nkufo seniors’ first acts was to change his son’s name from Isetsima to Blaise. His child liked football, and began to play the game at 13 with Ouchy, an amateur club from a popular lakeside resort located south of the city. Nkufo senior however, constantly taught his son to put culture above the game.

Today, Blaise Nkufo is a rarity in the world of football. The Swiss striker doesn’t give many interviews to the press, but when he does, most of the time could be spent talking about religion, philosophy and sociology. Nkufo enjoys playing chess and reading the books of countryman Jan Ziegler, a former professor of sociology who works for the United Nations on the Human Rights Council Advisory Committee.

In August, 2002, just a few hours before a friendly between Switzerland and Austria, Nkufo left the “Nati” and headed home. “You don’t let me play because I’m black”, he said to coach Kobi Kuhn. Then he stepped away.

“Racism is still creeping through Europe”, said Nkufo. “As a black man I had to work twice as hard in Switzerland to have my chance in the spotlight. Switzerland is a good country to live in, but immigrants don’t have an easy life however. If the police see two black men driving a big car, you can be sure they’ll stop them. Ask my father for example how many times it has happened. I can’t deny I had problems during my first few years, but I’ve met a lot of good people too. Then though, I’ve also met people who prefer to have a good foe instead of a good friend”.

Kuhn – replaced by Ottmar Hitzfeld in July 2008 – brought Nkufo back into the team five years later, just a few months before the start of Euro 2008. “With Kuhn I had a talk on the phone and now everything is okay with him”, he explained. However, a couple of weeks before the tournament got underway, an injury ruled the striker out. Now, at 35 years old, the World Cup in South Africa will be his last chance to enjoy a big international competition. Few would argue against the thought that Nkufo deserves it, having been key to Switzerland’s passage to the World Cup, scoring five goals.

Since 2009, Nkufo’s wife and two children have been in Canada, settling into life in Vancouver. The striker will join his family after the World Cup, and their location is one of the reasons he chose to join Seattle Sounders. At Qwest Field there are big expectations surrounding Nkufo’s arrival. He knows how to hold the ball up, create space, and, most importantly, put the ball in the net. But what’s perhaps the most special about Nkufo is not just that he knows how to win, he knows how to think too.

Fonte: Inside Futbol

mercoledì 5 maggio 2010

Il pagellone della Eredivisie 2009/2010

Voto 10 Steve McClaren. Secondo posto alla stagione d’esordio, primo in quella successiva. Mai accaduto prima in casa Twente. Il titolo è gran parte farina del suo sacco. Ha costruito la squadra (che intuizioni gli arrivi di Ruiz e Stoch), l’ha resa competitiva e soprattutto l’ha dotata della necessaria solidità mentale per resistere nei momenti di scarsa vena. I Tukkers hanno concluso con il fiatone, ma non hanno mollato. Il loro successo profuma d’antico, ossia di quando per ogni squadra esisteva un undici titolare fisso da mandare a memoria. Big Steve l’ha riproposto (per chi volesse impararlo: Bosckher-Stam-Wisgerhof-Douglas-Tiendalli-Brama-Perez-Janssen-Ruiz-Nkufo-Stoch) e adesso si gode gli applausi. Anche dall’Inghilterra.

Voto 9 Luis Suarez. Una macchina da reti: 35 gol in Eredivisie, eguagliato il record di Mateja Kezman quale miglior marcatore stagionale straniero di sempre del campionato olandese. A differenza del serbo, però, Suarez partecipa alla manovra, apre spazi per i compagni e li manda in gol (miglior assist-man della Eredivisie con 17). Un attaccante completo. Sommando le reti in Coppa d’Olanda e in Europa League supera quota 40. Unico neo: stecca contro la Juventus, in una delle poche brutte prestazioni offerte dall’Ajax quest’anno.

9 Voto Ajax. Onore ai vinti. Perché deve rodere parecchio non sollevare lo Schaal pur avendo concluso con il miglior attacco (106 gol fatti) e la miglior difesa (20 reti subite) del campionato. In termini di produttività assoluta, le reti realizzate in stagione sono state 150. Solo nel 60/61 e nel 97/98 gli ajacidi erano riusciti a fare meglio. Da Siem de Jong a Gregory van der Wiel, da Vurnon Anita a Eyong Enoh, da Toby Alderwiereld a Marko Pantelic fino a Demy de Zeeuw: dal punto di vista del gioco e del rendimento, per gli ajacidi è stata un’annata assolutamente positiva.

Voto 8 Heracles Almelo e Roda. Per i primi il sesto posto finale è un autentico miracolo firmato Gertjan Verbeek, ennesimo esponente di quella categoria di allenatori per i quali le idee contano di più del budget a disposizione. Il club di Kerkrade merita invece la citazione per l’operazione di mercato più azzardata: puntare alla salvezza con l’attaccante Mads Junker, 17 reti totali in tre stagioni e mezza nel Vitesse. Il danese però si è trasformato in un novello Kenneth Andersson ed ha infilato ben 21 palloni nelle reti avversarie. Risultato: Roda nono e qualificato ai play-off per l’Europa League.

Voto 7 Dick Advocaat. Ha raccolto i cocci di un Az devastato da uno tsunami finanziario (il collasso della proprietà, la DSB Bank di Dick Scheringa) e tecnico (la confusa gestione Ronald Koeman), centrando una fondamentale qualificazione europea. In più, la rivitalizzazione di giocatori spenti (El Hamdaoui, Schaars) e la scoperta di oggetti fino a quel momento misteriosi (Wernbloom, Rasmus Elm).

Voto 7 Daley Blind, giovane rivelazione dell’anno grazie a sei mesi di ottimo livello giocati in prestito nel Groningen. Buone nuove per il calcio oranje del futuro, pur in mancanza all’orizzonte di un nuovo fuoriclasse. Ma giocatori quali Georginio Wijnaldum (Feyenoord), Zakaria Labyad (Psv Eindhoven), Bas Dost (Heracles Almelo) Luc Castaignos (Feyenoord), Ruud Boymans (Vvv Venlo), il duo dello Sparta Kevin Strootman-Erik Falkenburg, oltre ovviamente allo stesso Blind e al già citato Anita (entrambi Ajax), inducono all’ottimismo.

Voto 6 Roy Maakay. Non merita di più l’ultima stagione dell’attaccante oranje, ma la citazione è doverosa per rendere omaggio all’ultimo atto della carriera (da voto 9) di questo grande bomber. Il suo biglietto d’addio? Tripletta all’Heerenveen al De Kuip nell’ultimo turno di campionato. Una chiusura in bellezza per un falco delle aree di rigore da 318 reti in 664 partite come professionista.

Voto 6 Hai Berden. Il presidente del Vvv Venlo ha scoperto e coltivato il miglior giocatore della prima metà della Eredivisie (il giapponese Keisuke Honda, voto 8), poi ha fatto cassa vendendolo al CSKA Mosca, infine ha visto la propria squadra vivere di rendita nel girone di ritorno grazie ai punti accumulati in precedenza. Salvezza tranquilla centrata. Ma adesso?

Voto 5 Ola Toivonen. Lo specchio di un Psv Eindhoven bello ma inaspettatamente fragile, scioltosi in primavera dopo aver a lungo coltivato legittime ambizioni di titolo. Ma sul più bello, e soprattutto negli scontri diretti contro Twente e Ajax, la squadra di Fred Rutten si è arenata. E i talenti come Toivonen sono rimasti a guardare.

Voto 4 Moussa Dembele. In un Az turbolento e bisognoso di una guida, anche in campo, il belga ha gettato alle ortiche un anno. Mentre altri compagni, indubbiamente meno dotati di lui sotto il profilo tecnico, si sono rimboccati le maniche nel tentativo di far risalire la squadra, Dembele si è perso nei propri giochini, mostrando una preoccupante carenza di personalità. La delusione per il mancato passaggio al Genoa la scorsa estate è una scusante solo parziale. Innegabile invece il ribasso del prezzo del proprio cartellino, con danno a sé stesso e all’Az.

Voto 3 Heerenveen. La grande delusione stagionale. Dopo il primo trofeo della propria storia (la Coppa d’Olanda) conquistato lo scorso anno, per i Frisoni è arrivato il brusco ritorno alla realtà. Il tourbillon di allenatori e giocatori ha dato l’idea di un club in balia degli eventi, una sorta di contrappasso per una società che solamente l’anno prima era stata dichiarata “il club perfetto” per la capacità di coniugare risultati economici con quelli sportivi.

Voto 2 Willem II. Dalla Champions League al baratro della Eerste Divisie in dieci anni, i Tricolores devono ringraziare la presenza di un Rkc Waalwijck totalmente inadeguato agli standard odierni della Eredivisie se hanno evitato la retrocessione diretta. Ma la Nacompetitie si prospetta tutt’altro che una passeggiata per questa armata Brancaleone sull’orlo dell’abisso (anche finanziario).

Voto 1 alle società che si lasciano scappare talenti locali quali Jens Toornstra solo perché giocano tra i dilettanti (ovvero, in Olanda, dalla terza serie in giù) ma poi non battono ciglio quando si tratta di ingaggiare il Kerlon di turno solamente perché arriva dalle giovanili dell’Inter.

Voto 0 al curatore di Radio Olanda, che nonostante si sia sempre tenuto alla larga dalle biografie dei calciatori, ritenendole il più delle volte semplici agiografie romanzate (male), non ha resistito all’acquisto e alla lettura de “Il falco di Utrecht”. Un’opera dedicata a Wesley Sneijder in cui si legge che i tifosi del Nac Breda sono “gialloverdi” e che il centrocampista interista è un personaggio lontano dal gossip (da settembre a questa parte in Olanda la sovraesposizione mediatica di Sneijder e compagna – futuri sposi - è pari solo a quella di Belen Rodriguez in Italia). Ma in quasi duecento pagine non c’è uno straccio di accenno alla Cruijff Court inaugurata qualche anno fa, alla semifinale di Coppa d’Olanda raggiunta con lo Jong Ajax (l’apice della sua carriera con i giovani ajacidi), al litigio in eurovisione con Ronald Koeman nel Johan Cruijff Schaal, all’affaire-Velthuizen in nazionale, e ci fermiamo qui. Ma allora che biografia è?

Top 11 Eredivisie (4-3-3): Velthuizen (Vitesse); Van der Wiel (Ajax), Vlaar (Feyenoord), Douglas (Twente), Vertonghen (Ajax); Enoh (Ajax), Afellay (Psv Eindhoven), Janssen (Twente); Ruiz (Twente), Suarez (Ajax), Dzsudzsak (Psv Eindhoven)

martedì 4 maggio 2010

Mbark Boussoufa Ready to Fly Anderlecht Nest

The “Hooghoudwestrijd” is a ball control contest organised by Ajax for their budding young stars. On 11th December, 1998, one hour before an Eredivisie clash between the Dutch giants and Heerenveen was due to kick off, the crowd at the Amsterdam ArenA watched in amazement at the performance of a 13-year-old, who kept the ball up 900 times, not once letting it hit the ground. The youngster, of course, won the contest, and left the pitch to rapturous applause. That was the day Moubarak “Mbark” Boussoufa began his trek towards stardom.

12 years on, Boussoufa stands on the brink of another breakthrough, this time to the very top level of the game. After six seasons in the Belgian top flight (the first two with Gent, the rest with Anderlecht), the Dutch-Moroccan midfielder has made a name for himself as the undisputed ‘king of assists’, with 74 recorded at the time of writing. Almost everyone agrees; Boussoufa must face a bigger test.

Belgium has been good to Boussoufa, and showered him with honours and trophies. Two league titles have arrived at Anderlecht, the Belgian Footballer of the Year award (2005/06) has been won, along with Belgium’s Best Young Player (in 2006 and 2009), the Ebony Shoe (an award handed out annually to the best player with African roots), and in February of this year Boussoufa’s winning goal in the dying seconds of a meeting with title rivals Club Brugge was voted Belgium’s goal of the year – bagging it he showcased great dribbling ability and provided a vital tonic to keep Anderlecht’s foes several points off the Jupiler League lead.

But it is this season which has been Boussoufa’s best so far. With 12 goals and 14 assists, the midfielder has played a key part, along with team-mate Romelu Lukaku, the Jupiler League’s youngest top scorer ever, in Anderlecht’s march to a 30th national title. Having topped the Belgian Eerste Klasse, 12 points ahead of Club Brugge, it took the Brussels side just six matches in the 10 game long end of season playoffs – the teams involved had their points halved – to wrap up the title.

Boussoufa was born on 15th August, 1984, in Amsterdam, and began to play the game with amateur local clubs Midden-Meer and Fortius. Although the midfielder started his professional career in Ajax’s famed youth academy, he never managed a single appearance for the senior team. Little Boussoufa had talent, of that there was no doubt – he appeared alongside Wesley Sneijder, Hedwiges Maduro, Steven Pienaar and Nigel de Jong. But there was something wrong, as Boussoufa later explained. “My problem was the coach, Danny Blind”, said the midfielder. “Every time he kept me on the bench he said it was because I was no good at school. I couldn’t stand that, because those were neither technical nor tactical reasons.”

During the summer of 2001, Boussoufa headed to England, and Chelsea, where he met fellow Dutchmen Ed de Goey, Mario Melchiot and Winston Bogarde. In London the new arrival shared an apartment with Arsenal youth academy starlet Quincy Owusu Abeyie, a forward of immense potential who went on to disappoint due to a total lack of discipline – the striker now plys his trade in Qatar. Even though Boussoufa resisted many of his room-mate’s night-life adventures, sometimes his behaviour strayed into the unprofessional too. “Once I missed my daily English lesson”, he explained, “and everybody at Chelsea got so angry that I thought I’d have to leave The Blues the morning after.”

Just as with Ajax, Boussoufa never played a game for Chelsea’s first team, but nevertheless did not regret the move. “I’ve learned a lot from Chelsea’s top players”, he said at the time. “Especially Gianfranco Zola, the best I’ve ever seen.” In the summer of 2003, Roman Abramovich bought the club and began his revolution, buying players like Hernan Crespo, Juan Sebastian Veron, Damien Duff and Joe Cole, and the writing was on the wall for the youngster. “I understood immediately that my chances of playing were close to zero”, remembered the Moroccan midfielder – Boussoufa chose to represent Morocco ahead of Holland in 2006.

The decision was soon made to set sail for Belgium, and Boussoufa ended up with Gent. At the Jules Ottenstadion the midfielder showed his true worth. Although not physically strong – debate persists as to whether he would have flourished in the English Premier League – he has great vision and outstanding dribbling and passing ability. In his first season in Belgium, Boussoufa was pipped to the Belgian Young Player Award by Anderlecht defender Vincent Kompany. However, he only had to hang on another 12 months for well deserved recognition, as he picked up the trophy after helping the Buffalos to fourth place with nine goals to his name, three of those coming in a 4-1 win over Club Brugge, and 16 assists.

In June 2006, Boussoufa signed a four-year contract with Anderlecht, costing the Paars-wit €3.5M. Four years on though, the time has come for Boussoufa to bid farewell to Brussels and the Belgian league. “Anderlecht are a strong team, also without me”, said the midfielder during their title celebrations.

Now Boussoufa, 25 years old, will try his luck in a bigger league. The Bundesliga, La Liga or even a Premier League comeback. It’s now or never for Mbark Boussoufa.

Fonte: Inside Futbol

lunedì 3 maggio 2010

Da Enschede a Monaco



Prossimamente, anche le parole...

domenica 2 maggio 2010

Radio Olanda vs Magazine Bianconero

Il resoconto di un'intervista rilasciata dal curatore di questo blog alla testata web Magazine Bianconero, della quale non sempre ci troviamo in accordo sui contenuti, ma a cui ci lega una stima profonda nei confronti dell'ideatore, Renato La Monica. Un intenditore, nonché vero appassionato, di calcio.

Su Calciopoli, noi di Magazine Bianconero abbiamo un'idea ben precisa. La tua opinione?
Premetto che non mi piace il concetto del "tutti colpevoli uguale a nessun colpevole", che suona tipicamente italiano e vagamente consolatorio. Da un punto di vista etico la vicenda è un schifo completo. Mi fa rabbrividire il solo pensiero che un dirigente di un club telefoni al designatore arbitrale non dico per minacciare, ma solo per chiedere favori. Detto questo, la Juventus ha pagato con la retrocessione, altri club con semplici penalizzazioni, mentre alcuni addirittura l'hanno fatta franca. Uno scandalo nello scandalo. Credo che la Juventus andava retrocessa. Lo scandalo sono i provvedimenti (non) presi nei confronti delle altre.

Mi spieghi la differenza tra le telefonate di Moggi e quelle di Moratti?
Dal punto di vista etico, nessuna. E comunque la storia del Moratti persona onesta e perbene è a mio parere una favola creata ad arte da certi media a lui vicini. Con questo non voglio dire che Moggi sia una persona che inviterei a cena...

Non credi che la Juve e Moggi abbiano pagato le colpe di tutto il calcio italiano?
No, hanno pagato le loro. Il problema, come dicevo prima, è che altri l'hanno fatta franca.

Avresti assegnato il tavolino all'Inter?
No, lo avrei semplicemente revocato alla Juventus. Gli scudetti vanno vinti sul campo. In caso contrario, meglio non assegnarli.

Alla luce di quanto sta emergendo al processo di Napoli, i quattro campionati post Calciopoli vanno considerati regolari?
Indubbiamente sono più regolari gli ultimi due campionati vinti dall'Inter che non quelli delle romane, finanziariamente "dopate" e, nel caso della Roma, addirittura aiutate da un cambio di regolamento in corsa. Come dice il mio collega Stefano Olivari, se dovessimo assegnare lo scudetto guardando all'onestà etico-sportiva, scenderemmo in graduatoria fino al Chievo.

Prescrizione o non prescrizione, se fossi tu a decidere, che pena commineresti all'Inter?
In un mondo ideale andrebbe quantomeno retrocessa, sorte che in passato sarebbe dovuta toccare anche a Milan, Fiorentina e alle due romane. Coi rossoneri che, approfittando di un deficit normativo dell'Uefa, hanno potuto disputare addirittura la Champions. Tornando alla realtà, comminerei almeno una penalizzazione da scontare nel prossimo campionato.

Parliamo di calcio. Benitez verrà alla Juve o no?
Le premesse ci sono tutte. A Liverpool il suo ciclo è chiaramente finito, in Spagna ha già mostrato le sue qualità, l'Italia rappresenta una sfida interessante. Specialmente in una squadra dove c'è parecchio da ricostruire.

E' lui l'uomo giusto per rifondare la Vecchia Signora?
Sicuramente sa come costruire una squadra, e si muove bene in sede di mercato. Soprattutto dopo essere guarito dalla "spagnolite" acuta che lo aveva colpito al momento del suo arrivo a Liverpool, dove prima dei vari Xabi Alonso e Torres arrivarono i Nunez e i Pellegrino. Pertanto penso che Benitez possa essere l'allenatore giusto. Come Hiddink, più di Prandelli.

Quali sono i giocatori da cui dovrebbe ripartire la Juve?
Diego innanzitutto, un capitale da rivalutare. Poi Marchisio, Sissoko, ovviamente Chiellini, Caceres. Infine un mio pallino: Giovinco. Non ha senso sfornare giocatori di tale caratura dalla Primavera e poi tenerli in naftalina in questo modo.

Champions League: il tuo pronostico?
Voto il Bayern Monaco di Van Gaal. Perchè tutti parlano di Inter-Barcellona come finale anticipata, e la pressione sarà tutta sulle spalle della vincente. Il Bayern invece ha già fatto meglio di quanto pronosticato (l'intervista è stata rilasciata il 24 aprile, nda).

Dimmi chi sono i migliori al mondo. Cominciamo dal portiere....
Iker Casillas.

Il difensore più forte?
Nemanja Vidic.

Il centrocampista?
Micheal Essien.

Il fantasista?
Wesley Sneijder, il vero fantasista moderno.

L'attaccante?
Troppo facile, Lionel Messi. Poi, tornando sulla terra, Arjen Robben.

La tua grande passione, lo sanno tutti, è il calcio olandese. Perchè le squadre italiane snobbano un campionato così ricco di talenti?
Credo sia soprattutto una questione economica. Il potere d'acquisto dei club di Serie A, Inter esclusa, si è ridotto in questi ultimi anni. I club olandesi non considerano incedibile quasi nessun giocatore, però non transigono sui soldi. Vendono senza svendere. Il Genoa che anni fa acquistava Van't Schip, oggi non rischia 10 milioni di euro su Dembele. Pertanto i club di serie A tendono a rivolgersi verso campionati meno esosi.

Mi indichi, a parte Suarez, tre giocatori dell'Eredivisie che porteresti subito in Italia?
L'attaccante del Twente Bryan Ruiz, l'ala sinistra del Psv Eindhoven Balasz Dzsudzsak, il difensore centrale del Twente Douglas.

Ultima domanda: perchè il giornalismo sportivo italiano è caduto così in basso?
Perchè è percepito come un mezzo per ottenere uno status privilegiato, per scambiare favori o lanciare messaggi ai nemici; perchè la competenza non è requisito essenziale per scrivere su un giornale o fare una telecronaca; perchè vivendo in un paese privo di cultura sportiva, vige l'idea (a mio parere errata) che ad un basso livello dei contenuti corrisponda un maggior numero di lettori/utenti; perchè spesso chi ha i denti (leggi capacità) non ha il pane per mangiare (leggi retribuzione), e viceversa.

Fonte: Magazine Bianconero