domenica 28 febbraio 2010

Momenti di gloria: Boavista

Erwin “Platini” Sanchez passerà alla storia come l’uomo che ha umiliato Diego Armando Maradona. Non in campo, ma in panchina. Il 6-1 con il quale la sua Bolivia, nell’aria rarefatta di La Paz, ha annichilito l’Albiceleste del Pibe de Oro durante le qualificazioni per Sudafrica 2010, è un risultato destinato ad entrare negli annali. Sanchez però in Bolivia era già un mito ben prima di quell’incontro concluso con punteggio tennistico, essendo stato tra i protagonisti della prima avventura de La Verde alla fase finale di un Mondiale dopo il lontano 1950. Accadde a Stati Uniti 94; accanto a lui c’erano El Diablo Etcheverry, il pittoresco portiere Trucco, quindi Baldivieso, Ramallo e Moreno, ma fu proprio Sanchez a siglare, nella sconfitta per 3-1 contro la Spagna, la prima rete di un giocatore boliviano nella coppa del mondo. Maestro dei calci piazzati, nel 2009 è stato eletto, assieme al sodale Etcheverry, miglior giocatore della Bolivia di tutti i tempi. Ciò che lo distingue maggiormente dal compagno è però l’esperienza in Europa; deludente quella del Diablo, flop nell’Albacete prima di volare nella MLS americana, ottima quella di Sanchez, tutt’oggi idolo della Oporto a scacchi bianconera. Quella del Boavista.
Il campionato portoghese è sempre stato un affare privato tra Porto, Benefica e Sporting Lisbona. Prima del nuovo millennio l’unica eccezione era targata Belenenses 1946, ovvero poco più di un incidente di percorso. Una dittatura che il presidente del Boavista João Loureiro non era più disposto a tollerare. Il triangolo magico del Portogallo avrebbe dovuto diventare un rombo. La ricetta era piuttosto semplice: affiancare ai frutti di un vivaio piuttosto fertile (tra i prodotti migliori del settore giovanile dalle Pantere si ricordano Nuno Gomes e Joao Pinto) una serie di elementi di spessore internazionale in grado di incrementare il tasso tecnico della squadra. Ecco così sbarcare a Oporto il rumeno Ion Timofte, il già citato Sanchez e l’attaccante ghanese Kwame Ayew. Nel 1996 viene prelevato dalla retrocessa Campomairoense una punta olandese che sino a dodici mesi prima giocava in patria con una squadra di dilettanti. Si chiama Jimmy Floyd Hasselbaink e sarà uno dei grandi affari del presidente Loureiro, non solo sportivamente (giocherà a Oporto una sola stagione, chiusa con 20 reti e la vittoria della Taça de Portugal, la coppa nazionale) ma soprattutto economicamente, garantendo alle casse del club un discreto gruzzolo al momento della sua partenza per L’Inghilterra, dove lo attendeva il Leeds.
Giocatori di buon livello, finanze in buona salute, la giusta ambizione; per il grande salto al Boavista manca solo il timoniere giusto. Nella stagione 96/97 si alternano in quattro. Bisognerà attendere ancora una manciata di mesi prima di pescare dal mazzo la carta giusta. Si chiama Jaime Pacheco, ex mediano di Porto e Sporting Lisbona. La sua filosofia in pillole: “I giocatori sono paragonabili a dei bambini; a volte bisogna utilizzare il bastone, altre volte la carota. Vanno pungolati e seguiti con attenzione, senza però accettare i loro capricci. Il Boavista? Penso al club con lo stesso affetto con cui penso a mia madre”. Nel 1999 arriva il secondo posto in campionato e la prima storica qualificazione alla Champions League. Due anni dopo ecco l’autentico capolavoro di Pacheco, ovvero il titolo nazionale. L’ufficialità arriva il 18 maggio 2001 con un 3-0 casalingo al Desportivo das Aves. 55 anni dopo il Belenenses, l’egemonia delle tre grandi viene nuovamente spezzata grazie alle invenzioni di Sanchez, alle reti di Whelliton (11 reti in 21 incontri sarà il suo score conclusivo), ai numeri sulla fascia di Martelinho ed alla diga difensiva Frechaut-Litos-Pedro Emanuel-Erivan eretta a guardia del sempre affidabile Ricardo.
La Pantere mostrano i denti anche in Europa. Nel 2002/2003 si sbarazzano di Maccabi Tel Aviv, Anorthosis Famagosta, Paris Saint-Germain, Herta Berlino e Malaga, arrivando in semifinale contro il Celtic Glasgow. Dalla Scozia gli uomini di Pacheco escono con un buon pareggio (1-1), ma a undici minuti dalla fine del match di ritorno Henrik Larsson gela degli Axadrezados (letteralmente i Quadrettati). Sfuma così l’intrigante ipotesi di una finale tutta portoghese, dal momento che gli avversari dei bianconeri sarebbero stati i Dragoni del Porto guidati da Josè Mourinho. Con il quale, ma non sarebbe nemmeno il caso di dirlo, mister Pacheco non aveva un rapporto idilliaco, e non solo per la rivalità cittadina che divide i due club. In passato infatti tra i due erano volate parole grosse, con Pacheco che aveva definito il non ancora Special One “un presuntuoso egomaniaco malato di protagonismo” e con Mourinho che al termine di un derby si era rifiutato di stringergli gli mano “perché non so nemmeno chi sia”.
Erwin Sanchez non avrebbe comunque potuto essere della partita, perché un grave infortunio al ginocchio sinistro lo aveva messo ko. Lascerà il Portogallo e il calcio giocato nel 2004. Loureiro per contro era più pimpante che mai, e per confermare il suo Boavista nell’olimpo delle big di Portogallo aveva intrapreso i lavori per la costruzione di uno stadio ipermoderno e multifunzionale. L’Estadio do Bessa farà bella mostra di sé durante l’Europeo del 2004 e quello under-21 del 2006, finendo però con l’aprire una voragine nei libri contabili delle Pantere. A Oporto si inizia a vendere, ma il colpo di grazia non arriva dal campo bensì dai tribunali. Nel 2007 scoppia infatti lo scandalo Apito Dourado (fischietto d’oro), una brutta vicenda di intimidazioni arbitrali in cui risulta coinvolta tanto la dirigenza del Boavista quanto quella del Porto, il presidente Pinto da Costa in primis. Ma se i Dragoes se la cavano con sei punti di penalizzazione, i bianconeri vengono retrocessi d’ufficio nella Liga de Honra, la serie cadetta. Da lì rotolano in terza divisione, con talmente pochi soldi a bilancio da far temere il definitivo scioglimento della società. Le Pantere non hanno perso solo il pane, ma anche i denti per mangiare.

Palmares
Campionato portoghese (1): 2001.
Coppa di Portogallo (5): 1975, 1976, 1979, 1992, 1997.

venerdì 26 febbraio 2010

Mai dire Jol

Lo scorso anno Trond Sollied, il cui 4-3-3 è un marchio di fabbrica fina dai tempi del Rosenborg, accolse il Milan ad Heerenveen inventandosi un 3-5-2 assolutamente inedito. La squadra affondò. Ieri Martin Jol, il cui Ajax ha finora ben figurato in stagione con un 4-3-3 spumeggiante, è andato a giocarsi la qualificazione a Torino con 4-3-1-2 ibrido. Un’invenzione (incomprensibile) dell’ultimo momento che ha ricordato la confusa gestione Van Basten di una manciata di mesi fa. La Juventus ha sentitamente ringraziato, passando all’incasso senza sforzarsi troppo. I bianconeri, al solito pessimi sotto il profilo del gioco, hanno solo due opzioni in attacco: il colpo di testa su palla inattiva e le invenzioni di Del Piero. Ieri il capitano ha latitato, eppure la Juventus avrebbe vinto lo stesso ai punti grazie ad un palo colpito da Sissoko, che ha confermato tutta la fragilità dell’Ajax sulle palle alte. Il pericolo per i bianconeri avrebbe dovuto arrivare dai lati, ma senza tridente (Emanuelson e Rommedahl in panchina, Pantelic in avanti non supportato dallo spento Sulejmani) e con un Van der Wiel che ha regalato la peggior prestazione stagionale, le ambizioni degli ajacidi si sono rivelate assolutamente velleitarie. Tanti, troppi interpreti sottotono: De Zeeuw, Siem de Jong, Vertonghen. Sulejmani ha fallito l’ennesima chance, confermandosi il Felipe Melo dell’Ajax: una vagonata di milioni spariti dopo aver tirato lo sciaquone. Migliore in campo degli olandesi si è così rivelato il nazionale camerunese Enoh, un mastino che non ha lasciato a Diego nemmeno l’aria per respirare. L’Ajax doveva vincere, ed il suo MVP è stato un interdittore. Superfluo aggiungere altro.
Peggio del club di Amsterdam ha fatto il Twente, disintegrato 4-1 a Brema dal Werder. Un esame di maturità che McClaren ha affrontato senza due terzi dell’attacco titolare (fuori Nkufo e Stoch per Luuk de Jong e Parker), ma non è una scusante. Anzi, il reparto avanzato ha fatto la sua parte: De Jong ha segnato, Ruiz ha fornito l’assist e colpito un palo (sul 3-1). Il disastro è avvenuto in difesa, in totale black-out. Possiamo solo immaginare lo sgomento dello spettatore occasionale presente sugli spalti del Weserstadion ieri sera guardando il brasiliano Douglas, che gli era stato presentato quale miglior difensore della Eredivisie (anche noi la pensiamo così) nonché elemento per il quale il Twente a gennaio aveva rifiutato un’offerta di 10 milioni di euro da parte del Wolfsburg. Si sarà chiesto se esiste ancora qualcuno sulla faccia della terra che capisca di calcio. Una certezza però Werder Brema-Twente l’ha regalata: il trio Marin-Özil-Pizarro è pura poesia calcistica.
La squadra olandese che ha dimostrato di possedere maggior spessore internazionale è il Psv Eindhoven. Ha dominato l’Amburgo (privo di Van Nistelrooy) nel primo tempo, chiudendo sul 2-0 grazie ad un tocco sottomisura di Toivonen e ad una bomba su punizione di Dzsudzsak (poi espulso per proteste). Gli anseatici sono tornati in gara grazie ad un errore del portiere Isaksson, uscito male su Petric. Lo svedese, dopo un pessimo inizio di stagione, aveva sensibilmente incrementato la propria tabella di rendimento. Peccato che l’insicurezza sia tornata a bussare alla sua porta proprio in una delle serate più importanti. Dopo il pareggio di Trochowski su rigore, l’ingresso del 16enne Zakaria Labyad nel cuore del centrocampo del Psv ha rivitalizzato gli olandesi. Il 3-2, firmato da Koevermans, è però arrivato solamente ad un minuto dalla fine. Arbitraggio insufficiente, ma non è il caso di fare drammi. Le frignate lasciatele pure ai Della Valle.
Zero su tre per l’Olanda, due su tre per il Belgio. La copertina spetta di diritto all’Anderlecht, che schianta l’Athletic Bilbao a Bruxelles. I baschi ce la mettono tutta per facilitare la vita a bianco-malva: il portiere Iraizoz si fa passare sotto il corpo un non irreisstibile tiro di Lukaku, il centrale San Josè infila la palla direttamente nella propria porta. Forte del doppio vantaggo, l’Anderlecht domina. Superbe le prestazioni in mediana del 19enne Kouyatè, Biglia e Boussoufa, notevole la botta di Legear da 25 metri che fissa il punteggio sul 4-0 a finale. Era dalla stagione 2000-2001 che l’Anderlecht non faceva così bene in Europa. Lo Standard Liegi per contro mancava dagli ottavi di una manifestazione internazionale dal 1982. Lo 0-0 strappato a Salisburgo è stato un risultato sofferto ma meritato. Catenacciari nel primo tempo, più sciolti nella ripresa, i Rouges hanno avuto due grandi con chance con Mbokani (palo) e De Camargo, ma hanno rischiato per un intervento “a saponetta” del portiere Bolat. Fortunatamente per loro il tiro-cross di Sekagya non era diretto in porta. Bolat è lo specchio della stagione dello Standard: un vertiginoso saliscendi tra grandi prestazioni (ricordate il gol in Champions all’AZ?) e tonfi clamorosi. Non è invece clamorosa l’eliminazione del Fc Brugge; gli uomini di Koster reggono, grazie alle parate di Stijnen, fino ai supplementari contro il Valencia. Finisce 3-0, senza rimpianti. Visto lo squilibrio delle forze in campo, uscire dal Mestalla con la qualificazione sarebbe stato un mezzo miracolo.

giovedì 25 febbraio 2010

Preview Juventus-Ajax

Il 4-0 rifilato domenica ad un burroso Vitesse serve per la statistica e per il morale. Contro la Juventus a Torino però sarà tutta un’altra musica. La missione per l’Ajax presenta un coefficiente di difficoltà molto alto, ulteriormente incrementato dall’assenza di Luis Suarez. Ma gli ajacidi di Martin Jol non sono una squadra Suarez-dipendente. Lo era di più l’Ajax di Marco van Basten, dove per mancanza di alternative valide veniva chiesto al talento uruguaiano di cantare e portare la croce, sdoppiandosi nel ruolo di prima punta e di suggeritore. Ne sa qualcosa la Fiorentina, eliminata lo scorso anno ai sedicesimi di Uefa proprio dagli ajacidi . L’arrivo di Marko Pantelic al posto dello scialbo argentino Cvitanich ha regalato peso al reparto avanzato del club di Amsterdam. Con il danese Dennis Rommedahl a destra e il serbo Miralem Sulejmani, in rete all’andata, a sinistra, l’assenza di Suarez può essere dignitosamente surrogata. La difesa della Juventus deve insomma restare vigile.
Ad Amsterdam i bianconeri hanno sofferto il maggior dinamismo della mediana olandese, con l’indiavolato Eyong Enoh instancabile cacciatore di palloni e di gambe, ed il brillante Siem de Jong pericoloso negli inserimenti dalle retrovie, uno dei quali ha portato al palo nel finale che ha salvato la Juventus dal possibile 2-2. De Jong ha fatto ciò che ci si aspettava da Diego: svariare a cavallo tra la linea di centrocampo e quella d’attacco senza fornire punti di riferimento agli avversari. Ma se la Juventus risponde con le stesse armi, ovvero il miglior Diego, una squadra a trazione anteriore come l’Ajax non può che andare in difficoltà.
La Juventus ha colpito gli olandesi nel loro ventre molle: le palle alte. La fisicità di Amauri, innescata dai numeri di Del Piero, è stata la chiave di volta del match di andata. Jol ha tentato la carta dell’esperienza affiancando al giovane Toby Alderwiereld l’ex Barcellona Oleguer, spostando il titolare Jan Vertonghen sulla fascia sinistra. Una mossa che gli si è rivoltata contro, con Vertonghen principale responsabile della doppietta di Amauri. Il belga potrebbe pertanto essere riproposto nel suo ruolo originario al centro della difesa, lasciando spazio a sinistra alla spinta del baby Vurnon Anita. Se il terzino destro Gregory van der Wiel ha colpito gli osservatori per le sue imperiose discese sull’out destro (dimostrandosi però non altrettanto efficace nelle chiusure), Anita non gli è da meno dall’altra parte del campo. Meglio non correre rischi insistendo su Zebina.

lunedì 22 febbraio 2010

Il giocatore della settimana: Siem de Jong

Migliore in campo dell’Ajax contro la Juventus, man of the match nel comodo 4-0 al Vitesse tre giorni dopo. Marcature aperte da un sinistro sottomisura dopo velo di Marko Pantelic, pratica chiusa con un destro dal limite. Momento magico per Siem de Jong, centrocampista classe 89 alla sua terza stagione in prima squadra nell’Ajax. Con Martin Jol compiti e ruoli sono ben definiti: nella mediana a tre ajacide Enoh (o Lindgren) è l’elemento di rottura, De Zeeuw il playmaker, Siem de Jong l’incursore, l’anello di congiunzione tra centrocampo e attacco, l’elemento che si inserisce dalle retrovie scombinando gli scacchieri tattici avversari. Posizionarlo troppo vicino all’area di rigore avversaria significa depotenziare questa sua citata qualità, e rendere prevedibile il suo calcio; se ne è accorto lo scorso anno Marco van Basten, finito sulla graticola per averlo schierato a sorpresa punta centrale, con risultati estremamente modesti.
Siem de Jong è stato lanciato in prima squadra da Henk Ten Cate nell’incontro di Coppa d’Olanda contro i dilettanti dei Kozakken Boys, battuti dagli ajacidi solo ai supplementari. Un esordio traumatico, non fosse altro che per il grande rischio sfiorato: vedere il proprio nome incluso in una squadra reduce da una figuraccia epica. Scampato il pericolo, in Eredivisie ha debuttato segnando allo Sparta Rotterdam. Non accadeva da tredici anni che un esordiente segnasse con la maglia dell’Ajax; gli ultimi erano stati patrick Kluiver e Nordin Wooter nel 1994. Con Ten Cate De Jong è stato l’unico teen a superare le venti presenze stagionali nell’Ajax, mentre l’anno successivo con Van Basten le cose sono andate meno bene. Jol lo ha nuovamente valorizzato, ricevendo in cambio reti (5 nell’attuale Eredivisie) e prestazioni di notevole sostanza.
Una curiosità: Siem de Jong, il cui fratello minore Luuk attualmente gioca (poco) con il Twente, si è diplomato al Rietveld Lyceum di Doetinchem (la città del De Graafschap), lo stesso dal quale sono usciti Guus Hiddink, Paul Bosvelt e Klaas-Jan Huntelaar.

domenica 21 febbraio 2010

Momenti di gloria:Dukla Praga

Al maresciallo sovietico Ivan Konev era stato assegnato un compito tanto preciso quanto ostico; aiutare il popolo slovacco a cacciare dai propri territori gli invasori della Germania nazista. Il 31 agosto del 1944 iniziò a pianificare l’intervento delle proprie truppe. Lo snodo strategico sarebbe stato un valico montano situato nella catena montuosa dei Carpazi al confine tra Polonia e Slovacchia. Secondo Konev gli uomini del Terzo Reich sarebbe stati cacciati dalla Slovacchia in cinque giorni. Ce ne vollero più di cinquanta. La strenua resistenza tedesca diede vita ad una delle battaglie più sanguinose della Seconda Guerra Mondiale, passata alla storia come “battaglia del passo di Dukla”, dal nome del villaggio nei pressi del citato valico. Fu proprio in onore di tale tragico evento che il regime comunista insediatosi in Cecoslovacchia nel dopoguerra decise di chiamare la squadra di calcio dell’esercito Dukla Praga.
Dopo Mosca con il CSKA, anche Praga aveva il suo club legato alle forze armate. Era stato fondato nel 1947 con il nome di ATK e, per precisa volontà del governo, avrebbe dovuto diventare la società calcistica più importante di tutto il paese. Per accelerare la sua ascesa ai vertici del calcio cecoslovacco venne introdotta una regola particolare: ogni giocatore che aveva prestato servizio militare di leva sarebbe entrato automaticamente tra le fila del Dukla Praga. Nasce così una sorta di super-squadra che raccoglieva al suo interno tutti i migliori talenti dal paese. Undici campionati e nove coppe di Cecoslovacchia in poco meno di quarant’anni testimoniano la piena riuscita dell’operazione. I primi successi arrivano agli inizi degli anni Cinquanta, quando il regime provvede ad una prima riorganizzazione dello sport cecoslovacco. Nel 1953 l’ATK cambia nome in ÙDA e vince il campionato con una sola sconfitta in 13 partite. Tre anni dopo nuovo (e definitivo) cambio di ragione sociale in Dukla Praga, e secondo titolo nazionale messo in bacheca. La superiorità dei giallorossi è talmente netta che i rivali dello Sparta, ribattezzata all’epoca Spartak Praha Sokolovo, vengono schiantati 9-0. Ma se un successo sportivo si può “costruire”, anche utilizzando metodi poco ortodossi, al cuore non si comanda, con buona pace della nomenklatura di partito, che registra con rammarico come i 28mila posti del Julisce Stadion raramente risultino esauriti. Evento che invece si verifica puntualmente per Sparta e Slavia Praga, le due autentiche squadre del popolo della città della Boemia.
Agli inizi degli anni Sessanta il quarto di sei figli di un minatore originario di Most parte da Praga e va alla conquista del mondo. Lo fermerà solamente un Brasile orfano di Pelè ma con Garrincha, Didi e Amarildo in un caldo pomeriggio cileno nell’estate del 1962, quando la Cecoslovacchia (in parte il Dukla Praga con un’altra maglia) si arrenderà 3-1 al più grande Brasile della storia. L’uscita dal campo di Josef Masopust avverrà comunque a testa altissima. Classe, tecnica, visione di gioco; nel cuore della manovra dei cecoslovacchi, così come in quella del Dukla, c’è lui; vice-campione del mondo (suo il gol della bandiera in finale) e Pallone d’Oro nel 1962, terzo ai campionati europei di due anni prima, otto volte campione di Cecoslovacchia, dove verrà coniato il termine di “Masopust-slalom” per indicare una serie di dribbling rapidi effettuati in spazi brevi. Con Masopust il Dukla Praga diventa imbattibile, vincendo cinque campionati, di cui quattro consecutivi, a cavallo tra il 1961 e il 1966. Nel 3-2-5 predisposto da mister Jaroslav Vejvoda, Masopust dirige l’orchestra, affiancato dallo scudiero Svatopluk Pluskal, alle spalle del quintetto d’attacco Brumovský-Vacenovský-Borovička- Kučera-Jelínek. Nelle retrovie il terzetto Šafránek-Čadek-Novák protegge l’ottimo portiere Pavel Kouba. Un undici entrato nella storia anche grazie…agli Stati Uniti.
Nel 1961 infatti il Dukla Praga viene invitato a partecipare alla seconda edizione dell’International Soccer League, torneo estivo che raccoglieva alcune tra le migliori squadre europee e che era organizzato da William Cox, magnate americano innamoratosi del calcio dopo essere stato estromesso dal mondo del baseball perché scommetteva sulle vittorie del proprio club, il Philadelphia Phillies. I cecoslovacchi disputano nove partite, ne vincono otto, realizzano 39 reti e distruggono (7-2 e 2-0) l’Everton nella doppia finale. Scoppia la Dukla-mania. Il club, invitato negli anni successivi come detentore, vince altre tre edizioni della manifestazione. Il giornalista sportivo cecoslovacco Ota Pavel celebra i glory days americani del club con il libro “Dukla among skyscrapers” (il Dukla tra i grattacieli), mentre in Inghilterra il gruppo pop Half Man Half Biscuit entra in classifica con “All I want for Christmas is a Dukla Praga away kit” (Tutto ciò che voglio per Natale è un completo da trasferta del Dukla Praga). Curioso rilevare come un club del blocco sovietico abbia ottenuto un così vasto successo proprio sul suolo del grande nemico americano.Nel 1966 il Dukla Praga elimina l’Ajax di Cruijff dalla Coppa dei Campioni fermandosi in semifinale contro i futuri vincitori del Celtic Glasgow. Nell’estate del 1968 Masopust ottiene il permesso di andare a giocare all’estero e si trasferisce, a 37 anni, in Belgio. Il club vincerà altri tre titoli (77, 79 e 82), mettendo in bacheca il suo ultimo trofeo, la coppa nazionale, nel 1990, in piena Rivoluzione di Velluto, che sancirà la fine del regime comunista in Cecoslovacchia. E del Dukla Praga, società strettamente legata al partito. Un’immagine scomoda che, una volta subentrati problemi di natura economica, farà fuggire numerosi potenziali investitori. Tra fusioni e retrocessioni, il club arranca nelle serie inferiori. Frizioni con l’esercito cancellano per diversi anni il nome Dukla Praga dalle mappe del calcio ceco. Riappare nel 2006, quando verrà acquistata dal Jakubčovice la licenza per partecipare al campionato cadetto. Lo scorso maggio si è disputata l’ultima edizione della stracittadina Sparta Praga-Dukla Praga. Erano presenti 807 spettatori.

Palmares
Campionato cecoslovacco (11): 1953, 1956, 1958, 1961, 1962, 1963, 1964, 1966, 1977, 1979, 1982.
Coppa di Cecoslovacchia (9): 1952 (non ufficiale), 1961, 1965, 1966, 1969, 1981, 1983, 1985, 1990.

sabato 20 febbraio 2010

L'impero degli ottomani

Sul numero in edicola di Calcio 2000 analizziamo il calcio turco dalla Scarpa d'Oro di Colak a oggi. Le big Galatasaray e Fenerbahce, i chiariscuri del Besiktas e le storie legate ai club di non primissimo piano (Sivasspor, Trabzonspor, Kayserispor, Ankaraspor). Di seguito proponiamo la parte dedicata al derby del Bosforo.

Galatasaray-Fenerbahce è il derby più caldo del mondo. E’ quanto emerge dalla classifica stilata dal sito Footbalderbies.com, che pone la sfida fratricida di Istanbul davanti al Superclasico di Buenos Aires (River Plate vs Boca Juniors) e all’Old Firm di Glasgow (Rangers vs Celtic). Galatasaray-Fenerbahce è una rivalità dalle radici puramente sportive, costruita e sedimentata su decine e decine di scontri che il tempo ha reso sempre più feroci. Niente radici religiose, etniche, politiche o sociali. Solo una pura e semplice contrapposizione sportiva. Ma anche molto di più. Il Galatasaray è stato fondato nel 1905 da un gruppo di studenti del Galatalyceum, istituto che può essere considerato la versione ottomana del rinomato collegio inglese di Eton. In quel luogo studiavano i figli delle classi abbienti della società turca, quelle che guardavano all’Europa e facevano riferimento ad usi e costumi occidentali. Il Fenerbahce invece nasce due anni dopo nella parte di Istanbul collocata a est del Bosforo, e affonda la proprie radici nella piccola borghesia mercantile che volgeva il proprio sguardo a Oriente, ai commerci con l’Asia. Primo derby il 17 gennaio 1907, 2-0 per il Galatasaray. Mille gli aneddoti. Tra i più bizzarri quello relativo alla finale di coppa di Turchia 1996. Dopo aver espugnato il campo del Fenerbahce (rete del gallese Dean Saunders, a segno sia nel match di andata che in quello di ritorno), l’allora tecnico dei giallorossi Greame Souness prende una bandiera del Galatasaray e, tra i boati dei tifosi inferociti, la pianta nel cerchio di centrocampo. Era la sua personale risposta al greve umorismo del presidente del Fenerbahce, che alla vigilia si era domandato a mezzo stampa come mai i rivali avessero ingaggiato “un allenatore disabile (Souness era reduce da un’operazione al cuore, ndr)”. Mentre però l’odio tra i due club ha abbondantemente superato il livello di guardia, le differenze sociali che avevano caratterizzato le origini sono pressoché scomparse. Oggi le due società sono potenze economiche che possono permettersi Frank de Boer, Milan Baros, Harry Kewell, il Frank Rijkaard allenatore, Abdul Kader Keita, Elano (il Galatasaray), Haim Revivo, Nicholas Anelka, Pierre Van Hooijdonk, Ariel Ortega, Roberto Carlos, Daniel Guiza e l’allenatore campione d’Europa Luis Aragones (il Fenerbahce).

Fonte: Calcio 2000

venerdì 19 febbraio 2010

Del Piero nello stretto

Bilancio molto interlocutorio per le olandesi in Europa League. Dall’urna non erano uscite avversarie facili (ma ne esistono ancora a questo punto della competizione?), pertanto non è il caso di deprimersi troppo. Anche se l’Ajax sconfitto 1-2 all’Amsterdam Arena dalla Juventus non invita all’ottimismo, soprattutto alla luce di quanto visto in campo. L’Ajax gioca meglio, sfrutta bene le fasce, è pronto è reattivo in mediana; la Juventus invece vive di episodi. Il suo grande merito è quello di individuare e colpire con precisione chirurgica il principale punto debole della compagine olandese, ovvero la sofferenza sulle palle alte. Grandi i meriti di uno scintillante Alessandro Del Piero, giocatore che nello stretto e nella capacità di calcio possiede ancora pochi eguali. Luis Suarez è sulla strada giusta per diventare un giocatore del suo calibro, e lo ha mostrato anche ieri con una serie di spunti di notevole fattura. Gli è mancato solo il guizzo decisivo. A Siem de Jong è invece mancata la fortuna; il legno colpito ad una manciata di minuti dallo scadere avrebbe regalato un altro sapore al match di ritorno della prossima settimana. Per il giocatore originario della Svizzera però, una delle migliori prestazioni stagionali. Pari la bella sfida tra i talenti di fascia Van der Wiel-De Ceglie; il primo è titolare della nazionale olandese, il secondo non ha il posto fisso nemmeno nel suo club. Che strana creatura il calcio. Uno sport dove talvolta non basta giocare meglio dell’avversario per vincere.
L’altra sconfitta della serata arriva da Amburgo, dove il Psv Eindhoven cede ad un rigore dei padroni di casa realizzato da Marcell Jansen. A tradire è il bulgaro Stanislav Manolev, solitamente tra i più brillanti del reparto arretrato olandese, ma ieri ingenuo nell’affossare Mladen Petric in area. Il resto è stato all’insegna del totale equilibrio. Due squadre organizzate, disciplinate ma che non rinunciano a pungere. L’ungherese Balasz Dzsudzsak, ormai una certezza nel Psv, regala il solito paio di assist, che questa volta però Ola Toivonen e Otman Bakkal non sfruttano a dovere. A 25 minuti dalla fine un boato dell’intero stadio accoglie l’ingresso in campo di Ruud van Nistelrooy, il grande ex. Andreas Isaksson però gli nega la gioia del primo centro "europeo" con la maglia dell’Amburgo dopo la doppietta di sabato allo Stoccarda.
Un solo gol anche nell’altro incrocio olandese-tedesco, quello tra Twente e Werder Brema. Lo realizza Theo Janssen grazie alla specialità della casa, ovvero il suo sinistro affilato e potente. La sua botta da fuori area non lascia scampo a Tim Wiese, regalando ossigeno ad un Twente concentrato, attento ma indubbiamente non ispirato come un paio di mesi fa. Ed infatti c’è stato lavoro straordinario per Sander Bosckher, bravo a neutralizzare le conclusioni di Claudio Pizarro e Marko Marin. Un calcio piazzato di Kenneth Perez terminato fuori di un soffio ha legittimato il successo dei Tukkers, bravi nell’aver metabolizzato la filosofia sulla quale il tecnico inglese Steve McClaren sta puntando fin dal primo giorno del suo sbarco ad Enschede: quella del de nul houden, ovvero delle reti bianche. Una grande squadra costruisce i propri successi attraverso il gioco, ma le fondamenta vanno gettate dalla difesa. Altrimenti, nelle giornate in cui le cose non girano per il verso giusto, le partite finiscono come Ajax-Juventus.
Piccola parentesi per una grande serata; quella delle squadre belghe, due vittorie e un pareggio. Quest’ultimo arriva da Bilbao grazie all’Anderlecht, che contro l’Athletic conduce il gioco, apre le danze con un tocco sotto misura di Luca Biglia (dopo una travolgente cavalcata del 16enne prodigio Romelu Lukaku), subisce il ritorno dei baschi con Mikel San Josè (il portiere dei bianco-malva Silvio Proto poco reattivo), sfiora infine il successo con Lukaku. Soddisfazione finale comprensibile, ma vietato abbassare la guardia: i baschi in Europa League rendono meglio in trasferta (vedi contro Tromsø e Young Boys). Fortunato invece il successo del Fc Brugge sul Valencia, che paga a caro prezzo una papera del portiere Moya sul tiro senza pretese di Dorge Kouemaha, attaccante camerunese (ex Debrecen e MSV Duisburg) che sta attraversando un autentico momento di grazia. Il ct Koster ringrazia la propria buona stella, ma a volte contro squadre nettamente superiori ci vuole anche quella. Rocambolesca infine la vittoria dello Standard Liegi sul Red Bull Salisburgo; un 3-2 in rimonta che conferma tutta l’imprevedibilità dei Rouges, alla prese con una stagione zeppa di vertiginosi alti e bassi (con quest’ultimi decisamente preponderanti). Nei ventiquattro minuti finali lo Standard, sotto di due reti e subissato dai fischi dello Sclessin, ribalta il risultato con un rigore di Axel Witsel, un gioiello da trenta metri di Igor De Camargo e un’incornata di Witsel. Dopo Ronald Koeman, è toccato ad un altro tecnico olandese, Huub Stevens, essere clamorosamente beffato a Liegi. Ai valloni questi fiamminghi stanno proprio sul gozzo.

giovedì 18 febbraio 2010

Preview Ajax-Juventus

Una volta Ajax-Juventus valeva la finale di Coppa dei Campioni. Nel 1973 fu sufficiente un’inzuccata di Johnny Rep dopo cinque minuti per regalare agli olandesi la loro terza coppa consecutiva. Nel 1996 la Juventus si prese la propria rivincita ma dovette aspettare i calci di rigore dopo l’1-1 firmato Ravanelli e Litmanen. Nella prima decade del nuovo millennio i due club devono accontentarsi dell’Europa League. Delle tribolazioni bianconere, passate e presenti, sappiamo tutto. Per quanto riguarda quelle dell’Ajax, è sufficiente un dato: il titolo nazionale manca ad Amsterdam dal 2004. Era la squadra di Zlatan Ibrahimovic, Christian Chivu e di un piccolo ma talentuoso esordiente arrivato dalle giovanili: Wesley Sneijder. Da quel momento, sei allenatori cambiati in cinque anni e un tourbillon di acquisti/cessioni alla ricerca di una competitività mai pienamente ritrovata. Almeno fino all’arrivo sulla panchina, la scorsa estate, di un tecnico esperto come Martin Jol, ex Amburgo e Tottenham Hotspurs, bravo nel ricostruire l’identità degli ajacidi, trasformando un insieme di individualità assortite alla meno peggio (vedi la gestione Van Basten della scorsa stagione) in una vera e propria squadra.
Per la Juventus l’avversario di oggi può essere il beniamino di domani. L’attaccante uruguaiano Luis Suarez, stella indiscussa dell’Ajax, è infatti da tempo uno degli obiettivi di mercato bianconeri, i quali possono oltretutto contare sui buoni rapporti con il suo agente, l’ex juventino Daniel Fonseca, procuratore anche di Martin Caceres. Per Suarez parlano i numeri: 81 reti e 45 assist in tre anni con l’Ajax, 35 gol segnati solamente nell’attuale stagione, dove spiccano una sestina realizzata al WHC in Coppa d’Olanda e un poker calato al Roda due settimane fa in campionato. Oggi con il serbo Marko Pantelic, arrivato a parametro zero dall’Herta Berlino, Suarez forma una coppia-gol affiatata e dalle molteplici soluzioni.Detto di una mediana che ha trovato nel playmaker Demy de Zeeuw, il cervello dell’Az Alkmaar di Louis van Gaal campione d’Olanda lo scorso anno, quel leader che mancava dai tempi della cessione di Sneijder al Real Madrid, va evidenziato come l’undici titolare dell’Ajax sia composto per più della metà da giocatori prodotti dal vivaio. Il portiere (Stekelenburg), tutta la linea difensiva (Van der Wiel, Vertonghen, Alderwiereld, Anita), un interno di centrocampo (Siem de Jong) e un’ala (Emanuelson). Un esempio che la Juventus, vincitrice del Torneo di Viareggio per il secondo anno consecutivo, farebbe bene a non ignorare.

Fonte: Il Giornale

domenica 14 febbraio 2010

Momenti di gloria: Servette

La Svizzera lava più bianco, denunciava in una sua opera il sociologo Jean Ziegler, docente all’Università di Ginevra e membro del parlamento elvetico, puntando il dito contro il riciclaggio di denaro sporco. La Svizzera però è anche dotata di sistemi regolamentativi tanto rigidi quanto efficaci, quasi un’utopia per la stragrande maggioranza dei paesi europei. Il calcio può esserne un valido esempio. Applicare i criteri svizzeri di iscrizione ai campionati alla Serie A significherebbe, con tutta probabilità, vedere lottare per lo scudetto Sampdoria e Chievo. Niente concessioni al blasone, né a millantati “meriti sportivi”; contano solo i numeri dei libri contabili. E’ così che nel giro di pochi anni sono fallite quattro società storiche del calcio rossocrociato: Losanna, Lugano, Servette e, proprio nel 2009, Chaux-de-Fonds. Sommando i titoli nazionali in bacheca si arriva a quota trenta, diciassette dei quali appannaggio dei granata di Ginevra del Servette. Ieri potenza di Svizzera che ospitava tra le proprie fila giocatori del calibro di Karl-Heinz Rummenigge, Bernard Genghini, Oliver Neuville, Igor Dobrowolski, Sonny Anderson, Christian Karembeu, Martin Petrov, Alex Frei e Philippe Senderos, oggi comprimaria in Challenge League, la serie cadetta rossocrociata, costretta a sfidare Vaduz, Thun e Locarno.
Un robusto difensore viennese e un allampanato ragazzotto di Basilea che indossava grandi occhiali con lenti infrangibili sono i principali artefici del primo importante momento di gloria del Servette. Accade agli inizi degli anni Trenta, quando comunque nella bacheca del club c’erano già sei titoli nazionali, una coppa di Svizzera e uno dei primissimi trofei internazionali disputati sul suolo europeo, ovvero il Torneo Internazionale Stampa Sportiva. Con Karl Rappan e Leopold “Poldi” Kielholz arriva però il momento della maturità. Nella stagione 1933-34 la Federcalcio svizzera inaugura il primo campionato a girone unico del paese, che vede ai blocchi di partenza 16 squadre. Lo vince il Servette staccando di tre lunghezze il Grasshopper e chiudendo con uno score di 100 reti realizzate in 30 partite. Cifra tonda quindi, grazie al sostanzioso contributo di “Poldi” Kielholz, che grazie anche all’aiuto del compagno di reparto Ignaz Tax, abilissimo nell’aprirgli varchi e nel servirgli assist a ripetizione, si laurea capocannoniere con 40 gol, un record tutt’ora imbattuto nel calcio svizzero. Kielholz conclude il suo anno magico siglando la prima rete della Svizzera in un Mondiale di calcio, quello italiano del ’34, aprendo le danze nel sorprendente 3-2 con il quale gli elvetici eliminano la favorita Olanda. Chiuderà la manifestazione con tre marcature. Ma il Servette campione era soprattutto il laboratorio tattico di Karl Rappan, allenatore-giocatore nel periodo dei due titoli consecutivi (33-34) e futuro maestro di calcio a cui si dovrà l’invenzione del “verrou”, antenato del catenaccio. Rappan focalizza l’approccio alla partita sulla fase difensiva e su un modulo sufficientemente elastico da permettere alla squadra di dipendere il meno possibile dai giocatori di talento. Introduce la difesa a quattro, con marcature miste a zona e a uomo, e l’utilizzo del libero. Da ct della Svizzera disputerà tre Mondiali, da allenatore di club vincerà otto campionati (tre con il Servette, l’ultimo dei quali nel 1950, e cinque con il Grasshopper).
L’ungherese Peter Pazmandy non è neanche lontanamente paragonabile a Rappan, eppure proprio durante la sua gestione il Servette vive l’annata perfetta, centrando lo storico pokerissimo campionato-coppa di Svizzera-coppa di Lega-coppa delle Alpi. Guidati dalle invenzioni di Umberto Barberis, figlio di un ex calciatore professionista italiano, e di Claude “Didi” Andrey, i granata chiudono la stagione 78-79 con alle spalle oltre 80 partite disputate, delle quali solo 3 terminate con la sconfitta. Anche l’unico torneo che quell’anno il Servette non riesce a vincere, la Coppa delle Coppe, viene chiuso senza perdere un incontro, dal momento che dopo aver eliminato Paok Salonicco e il Nancy di un giovanissimo Michel Platini, i ginevrini sono costretti ad arrendersi alla regola del gol in trasferta che premia il Fortuna Düsseldorf. 0-0 in Germania, 1-1 in Svizzera, con il rammarico di un traversa colpita proprio nelle battute finali. Gli elvetici propongono un 4-3-3 che prevede addirittura due playmaker a centrocampo, i già citati Barberis e Andrey, supportati dall’inesauribile Schnyder, quindi difesa a quattro con la linea Guyot-Valentini-Dutoit-Bizzini davanti all’estremo difensore Engel (alternatosi nel corso della stagione con Milani), e tridente con gli esterni Pfister e Coutaz in appoggio alla punta Piet Hamberg, capocannoniere del campionato con 11 reti in coabitazione con altri quattro giocatori. Hamberg però è soprattutto bomber di coppa; doppietta al Neuchatel Xamax in semifinale di coppa Svizzera (finirà 3-2, nonostante a quattro minuti dalla fine i castellani conducevano per 2-1), rete decisiva nel replay della finale al gremito (35mila spettatori) Wankdorf di Berna, vinta dal Servette 3-2 contro i padroni di casa dello Young Boys.
Nel 1994 il trio Sonny Anderson (11 reti e 6 assist), Oliver Neuville (16 reti) e Josè Sinval (7 gol e 11 assist) porta il granata per la penultima volta sul gradino più alto del podio. I bagliori finali arrivano nel 1999 (titolo nazionale) e nel 2001(coppa di Svizzera, con un 3-0 all’Yverdon in cui va a segno anche un giovanissimo Alex Frei). Tre anni dopo, contro gli ungheresi dell’Ujpest, il Servette disputa la sua 95esima e ultima partita in una coppa europea. Pochi mesi dopo il club, esposto con i creditori per oltre dieci milioni di franchi svizzeri, dichiara bancarotta ed è costretto a ripartire dalla Prima Lega, la serie C elvetica. Era l’unica squadra che, a partire dal 1890, aveva sempre giocato nella massima divisione.

Palmares
Campionato svizzero (17): 1907, 1918, 1922, 1925, 1926, 1930, 1933, 1934, 1940, 1946, 1950, 1961, 1962, 1979, 1985, 1994, 1999.
Coppa di Svizzera (7): 1928, 1949, 1971, 1978, 1979, 1984, 2001.
Coppa di Lega (3): 1977, 1979, 1980

sabato 13 febbraio 2010

Il tulipano nero(azzurro)

“Ma il cielo di Bruges è sempre così grigio?”. “No, a volte è anche nero”. Una pennellata di umorismo fiammingo captata lungo l’Olympialaan, la strada che porta al Jan Breydelstadion, tana del K.V. Club Brugge, o Fc Bruges che dir si voglia. Grigio, come il colore delle ultime stagioni disputate dai blauw-zwart, a digiuno del titolo nazionale da ormai quattro anni. Nero, come l’umore dei propri supporters, che hanno visto i propri beniamini scivolare al terzo posto nella gerarchia del calcio belga, ben lontani da Standard Liegi e Anderlecht sotto ogni punto di vista: gioco, risultati, talenti valorizzati. Per riconquistare terreno urgeva una vigorosa sterzata, che è arrivata sotto forma di un nuovo assetto societario e di un’altrettanto rinnovata guida tecnica. Quasi immutato invece il parco giocatori a disposizione. Ma la svolta ai piani alti è stata sufficiente per trasformare un gruppo senz’anima nella più accreditata antagonista dell’Anderlecht per la conquista della Jupiler League belga.
Il nuovo corso è iniziato con la nomina di Pol Jonckheere quale presidente del club. 50 anni, architetto di professione, Jonckheere è nei ranghi societari del club fiammingo dal lontano 1986, quando ricevette come primo incarico la conduzione delle trattative per la cessione di Jean-Pierre Papin, poi venduto al Marsiglia. Piglio deciso alla De Laurentiis, con il quale condivide l’amore per microfoni e telecamere senza però gli eccessi vulcanici del patron del Napoli, una delle prime mosse del neo-presidente è stata la scelta di un nuovo allenatore: via il deludente Jacky Mathijssen, ecco l’olandese Adrie Koster. “I belgi non se la prendano”, ha dichiarato Jonckheere, “ma la storia del Club Brugge è stata fatta da tecnici stranieri; Henk Houwaart, Georg Kessler, Ernst Happel e Trond Sollied”. Una decisione personale che non aveva riscosso consensi, soprattutto alla luce del non esaltante curriculum vitae di Koster, che era tornato a guidare le giovanili dell’Ajax dopo la modesta esperienza della stagione 2007-2008 quale tecnico ad interim (in sostituzione del dimissionario Henk Ten Cate) della prima squadra.
Koster si è presentato in Belgio parlando di rivoluzione culturale, ma dopo una serie di risultati negativi nel pre-campionato, ai quali si sono aggiunte due soffertissime qualificazioni nei preliminari di Europa League contro Lahti e Lech Poznan, è diventato più realista del re, abbandonando il 4-3-3 per passare ad un più accorto 4-4-2. Il nuovo modulo ha permesso alla squadra di ingranare la marcia giusta e di riscoprirsi quale più credibile antagonista dell’Anderlecht. La musica è cambiata in Europa: umiliato 4-1 dallo Shaktar Donetsk all’esordio nei gironi di Europa League, il “vecchio” Club Brugge, ha lasciato campo ad una squadra capace di imporsi su Tolosa e Partizan Belgrado centrando il passaggio alla fase successiva della competizione. “Tutti sottovalutano i talenti che circolano attorno a Brugge”, ha esultato un raggiante Jonckheere. Il grande merito di Koster è stato proprio quello di mettere questi interessanti prospetti nelle condizioni di esprimersi al meglio.
Vediamoli allora, i talenti del club fiammingo. Davanti alla difesa giostra Vadis Odjidja-Ofoe (classe 89), nazionale belga under 21 uscito dalle giovanili dell’Anderlecht con la nomea di “nuovo Kompany”, ma bruscamente ridimensionatosi la scorsa stagione dopo un flop nell’Amburgo. Forte fisicamente, buona visione di gioco e un destro capace di far male, nel Club Brugge Odjidja-Ofoe ha mostrato di possedere il carattere giusto per ripartire, finendo nel mirino di Valencia e Tottenham. Accanto a questo piccolo leader di soli 20 anni gioca Ivan Perisic (89), altro enfant prodige dalla carriera mai realmente decollata. La scorsa stagione si mise in mostra segnando una rete con la maglia del Roeselare, dove si trovava in prestito dal Sochaux, che eliminò dalla Coppa di Belgio proprio il Club Brugge; l’exploit gli è valso l’interesse dei fiamminghi, ripagati da questa mezzala di spiccate propensioni offensive con un inizio sprint a suon di gol (particolarmente pesanti quelle in Europa League). Perisic sta confermando l’ottima tradizione dei giocatori croati (Mario Stanic, Robert Spehar, Tomislav Butina, Bosko Balaban) in maglia nerazzurra.
Al marocchino Nabil Dirar (86) e al venezuelano Ronald Vargas (86) Koster demanda fantasia e creatività, mentre al nigeriano Joseph Akpala (86) spetta il compito di finalizzare. Origini diverse, storia comune: alla vigilia della stagione 2008-2009 tutte le aspettative per il rilancio del Club Brugge gravavano sulle spalle di questi tre elementi, che però fallirono causa rendimento troppo altalenante, costringendo la vecchia volpe Wesley Sonck a cantare ed a portare la croce. Oggi la musica è cambiata; Akpala, esplosivo nel breve, fisico tignoso, qualche lacuna tecnica su cui lavorare ancora, sta tornando ad essere il cecchino impalcabile conosciuto a Charleroi (capocannoniere del campionato belga 07/08 con 18 gol), uscendo definitivamente dall’ingombrante ombra di Sonck. Quanto a Dirar ed a Vargas (miglior giocatore venezuelano del 2008), i due hanno mostrato grande duttilità tattica alternandosi nei ruoli di esterno di centrocampo (destro e sinistro) o di seconda punta, sempre con buon profitto. Tecnica e velocità al servizio della squadra. E il cielo sopra Brugge ha improvvisamente smesso di essere solo grigio e nero.

martedì 9 febbraio 2010

McClaren in riserva

Da almeno un mese la banda McClaren appariva in riserva. Due 0-0 consecutivi in campionato, la sofferta vittoria della scorsa settimana contro il Roda (un 2-0 maturato negli ultimi venti minuti), tralicci di tensione in allenamento. I nodi sono definitivamente venuti al pettine all’Amsterdam Arena: Ajax-Twente 3-0. La prima sconfitta dei Tukkers in Eredivisie ha fatto rumore. Una debacle netta che pone gli uomini di McClaren di fronte ad uno dei più insidiosi banchi di prova per le squadre di provincia che aspirano a diventare top club: la capacità di rialzarsi e di riprendere la marcia dopo una caduta. Viaggiare sull’onda dell’entusiasmo a volte funziona solamente fino a quando non ci si imbatte in un brusco stop. La grande squadra sa reagire e ripartire. Il Twente possiede tutte le qualità per farlo, perché la vetta della Eredivisie, occupata fino a qualche settimana fa, non è certo arrivata per caso.
Rispetto al Psv Eindhoven capolista, ancora imbattuto in campionato ed in Europa, gli uomini di McClaren possiedono però un vantaggio in meno: la scarsa intercambiabilità dell’undici titolare. Il club di Eindhoven può scegliere in attacco tra Koevermans, Toivonen, Lazovic, Reis (se rientrerà nelle grazie del tecnico) e Dzsudzsak, il Twente non può derogare dal trio Ruiz-Nkufo-Stoch, perché nessuna delle numerose riserve (da Osei a Parker a Luuk de Jong) si è finora dimostrata una valida alternativa; i primi possono permettersi di lasciare in panchina Simons, Engelaar e Marcellis (tre nazionali), i secondi devono sperare che Douglas, Perez e Brama non prendano nemmeno un raffreddore. A stagione inoltrata, con i Tukkers ancora impegnati su tre fronti, una rosa con poche alternative può rappresentare un problema. E il costaricano Ruiz, anche all’Amsterdam Arena il migliore dei suoi grazie a due assist sciupati in maniera sciagurata da Perez, non può sempre togliere le castagne dal fuoco.
L’Ajax ha sconfitto il Twente sotto tutti i profili: tattico, atletico, organizzativo. Van der Wiel ha annullato Stoch, Anita ha limitato Ruiz, Vertonghen ha giganteggiato in difesa, Suarez ha fatto impazzire il pur dignitoso Tiendalli, Siem de Jong non ha fatto rimpiangere Aissati, pur non possedendone gli spunti. Persino Oleguer ha disputato una discreta partita, mentre l’unico sottotono è apparso Lindgren, poco efficace nel contrastare le scorribande di Perez. Un peccato veniale. E’ fuor di dubbio che il tecnico Martin Jol sta riuscendo dove tutti i suoi ultimi predecessori (Blind, Ten Cate, Koster, Van Basten) avevano fallito: far diventare l’Ajax un corpo omogeneo capace di prescindere dal singolo spunto del giocatore. Oggi il club di Amsterdam è una squadra organizzata e coerente. Ciò non significa che sia anche perfetta, come dimostrano i nove punti di svantaggio dal Psv ed i sei dal Twente. Avere però limitato al minimo l’umoralità della compagine biancorossa, anche grazie ad un mercato finalmente intelligente che ha regalato quel leader (De Zeeuw, 6 gol e 7 assist in 21 partite) che mancava dalla cessione di Sneijder, rappresenta un grande merito di Jol. E con una prima punta degna di questo nome come il serbo Pantelic, che garantisce reti e permette maggiore libertà di movimento ad un sempre più estroso Suarez, le basi per tornare a vincere il campionato ci sono tutte. Una vittoria che non avverrà in questa stagione, visto il cospicuo distacco dalla vetta, ma che rimette in gioco gli ajacidi almeno in ottica Champions League. Soprattutto perché il futuro prossimo del Twente è tutto da decifrare.

sabato 6 febbraio 2010

Un mondo diviso a metà. I derby (2)

Il denaro cambia prospettive e rapporti di forza. Vedi Londra, città dei derby per eccellenza grazie ai 14 club cittadini sparsi nelle prime quattro divisioni. Il nuovo millennio ha portato Roman Abramovich e il Chelsea al comando del calcio nella capitale. La sfida per eccellenza rimane però quella tra Arsenal (la squadra londinese più titolata) e Tottenham Hotspur, rivalità nata nel 1919 a causa di una controversa decisione della Football League la quale, dopo aver deciso di ampliare la massima divisione da 20 a 22 squadre, non ripescò gli Spurs ultimi classificati optando invece per la promozione dei Gunners terminati quinti in Second Division. Si scoprì in seguito che alla base di questa e di altre decisioni c’era un cospicuo giro di bustarelle.
Partite truccate e manipolazioni di vario genere non erano una rarità nella Mosca sovietica. Calcio e potere non erano scindibili. Il CSKA era legato all’Armata Rossa, la Dinamo al Commissariato degli Interni, la Lokomotiv al Ministero dei Trasporti. In un simile contesto lo Spartak era l’unica squadra a godere di un autentico seguito popolare, tanto che quando l’URSS crollò, il club dei fratelli Starostin divenne l’elemento unificante per tutte le popolazioni di etnia russa, con fan club spuntati in tutto il territorio. Se nell’odierno calcio globalizzato ha ancora senso parlare di “squadra del popolo”, questa è sicuramente lo Spartak Mosca. Contesto completamente diverso ma rapporto di osmosi squadra-nazione simile per il Benfica. L’epoca di Eusebio contribuì a costruire il Mito, che esportò in Europa il calcio lusitano prima (e meglio) della nazionale. Per questo motivo il Benefica è la squadra dei portoghesi (anche più del Porto), mentre lo Sporting è solo quella di Lisbona.
Assieme a Boca-River, la stracittadina di Istanbul tra Galatasaray e Fenerbahce si divide la palma di derby più infuocato del mondo. Una rivalità puramente sportiva, costruita e sedimentata su decine e decine di scontri che il tempo ha reso sempre più feroci. Niente radici religiose, etniche, politiche o sociali. Solo sport; ma anche molto di più. Il Galatasaray è stato fondato nel 1905 da un gruppo di studenti del Galatalyceum, istituto che può essere considerato la versione ottomana del rinomato collegio inglese di Eton. In quel luogo studiavano i figli delle classi abbienti della società turca, quelle che guardavano all’Europa e facevano riferimento ad usi e costumi occidentali. Il Fenerbahce invece nasce due anni dopo nella parte di Istanbul collocata a est del Bosforo, e affonda la proprie radici nella piccola borghesia mercantile che volgeva il proprio sguardo a Oriente, ai commerci con l’Asia. Il nuovo millennio ha cancellato ogni differenza economica. Oggi le due società sono potenze economiche possono permettersi Frank de Boer, Milan Baros, Harry Kewell, il Frank Rijkaard allenatore, Abdul Kader Keita, Elano (il Galatasaray), Haim Revivo, Nicholas Anelka, Pierre Van Hooijdonk, Ariel Ortega, Roberto Carlos, Daniel Guiza e l’allenatore campione d’Europa Luis Aragones (il Fenerbahce).
Esistono anche i derby decaduti, quelli sbiaditi dallo scorrere del tempo e dal declino di un movimento calcistico. Vienna, ad esempio, e il calcio danubiano. “L’Austria Vienna è Herbert Prohaska, elegante, a testa alta, con i baffi in ordine. Il Rapid è Johan Katnkl, forza bruta, testa bassa, scarpe grosse”. Wilfrid Mayr, console commerciale d’Austria a Milano, non avrebbe potuto fornire descrizione migliore. Infine esiste l’eccezione che conferma la regola. Può una rivale soccorrere l’altra? La risposta, affermativa, proviene da Eindhoven, dove il Psv, la squadra della Philips, ha cancellato i debiti contratti nei suoi confronti dall’Fc, la squadra cittadina sempre più in odor di fallimento. La Juventus farebbe lo stesso con il Torino?

Fonte: Guerin Sportivo

Take me to the angels where I belong



Orizzonte a Nordkapp...

venerdì 5 febbraio 2010

Un mondo diviso a metà. I derby (1)

Se un tempo il calcio era considerato un gioco, i derby non lo sono mai stati. Sotto la superficie della rivalità sportiva che caratterizza ogni stracittadina si agita un vasto microcosmo in cui si intrecciano elementi politici, religiosi e socio-culturali. L’avversario diventa un nemico, l’appartenenza assume i connotati della fede, il fair play è un’oscura parola scritta su una pagina che qualcuno ha strappato dal vocabolario. E’ così ovunque; sotto la pioggia di Tòrshavn, isole Far Øer, per B36- HB, così come nella torrida Buenos Aires per Boca Juniors-River Plate. O in Catalogna per Barcellona-Espanyol.
Iniziamo il nostro viaggio proprio dal Sudamerica. A Rio de Janeiro c’è solo l’imbarazzo della scelta in tema di rivalità. Flamengo, Fluminense, Vasco Da Gama, Botafogo, America. Se non è tutti contro tutti, poco ci manca. Sicuramente tutti sono contro il Flamengo, il club che vanta il maggior numero di tifosi, oltre 25 milioni, in tutto il Brasile. Fama e successo aumentano tanto gli amici quanto i nemici. E questi ultimi non ti perdonano niente, come accadde a Felipe quando decise di cambiare casacca lasciando quella del Vasco Da Gama per abbracciare i colori della Rio rossonera. Conoscenti ed ex tifosi gli tolsero il saluto, nel vero senso della parola. Ulteriore sale alla rivalità tra cruzmaltinos e rubronegros (ma anche tra i primi e il Botafogo) lo regala il canottaggio; essendo delle polisportive modello Barcellona, nel loro periodo d’oro questi club arrivarono a giocarsi la supremazia in Brasile anche nella “regatta”. La componente razziale ha invece caratterizzato il passato del Fluminense, società di riferimento dell’elite bianca, che per lungo tempo non ha permesso l’utilizzo di giocatori di colore nella squadra. Diversi giocatori del Flu erano pertanto costretti a schiarirsi la faccia con della polvere di riso. Fu il Vasco negli anni Venti a rompere per primo il tabu schierando mulatti, neri e creoli. Le altre società cercarono di escluderlo dal campionato statale.
Dal Brasile alla Scozia, dalla segregazione al settarismo; benvenuti all’Old Firm, il derby di Glasgow. Protagonisti Celtic e Rangers, diversi in tutto: religione, origini sociali, collocazione geografica, colori societari. I primi sono cattolici, provengono dai ceti più poveri dell’East End cittadino e indossano il verde dell’Irlanda, secolare oppositore dell’impero britannico; i secondi per contro sono protestanti e lealisti, nascono tra i lavoratori e la borghesia benestante del West End e vestono il blu, il bianco e il rosso, i colori della Union Jack. Differenze oggi sfumate dai cambiamenti socio-culturali, che vanno dalla crescita di un ceto medio-alto di origini irlandesi (quindi pro Celtic) a Mo Johnston il primo giocatore cattolico dei Rangers. I quali vantano il maggior numero di titoli scozzesi (52), ma devono inchinarsi di fronte alla Coppa dei Campioni messa in bacheca nel 1967 dagli arci-rivali.
Derby assai tirato è anche quello di Siviglia, dove la supremazia cittadina è contrastata dal Betis. Negli ultimi anni il Siviglia ha accumulato coppe e prestigio in quantità industriali, ma i curricula sono quasi equivalenti. Non sempre però le stracittadine sono sfide alla pari, o quasi. Ad esempio quello tra Valencia e Levante, sempre in Spagna. Sei titoli di Liga, sette coppe del Re per il primo, cinque campionati di prima divisione per il secondo. In Germania Bayern Monaco-Monaco 1860 raramente regala sorprese. Troppo netto il divario che separa le due contendenti. E pensare che quando nacque la Bundesliga vennero scelti i Löwen quale società più rappresentativa di Monaco (ogni città poteva iscrivere un solo club). Anche a Rotterdam le gerarchie sono ben definite; Feyenoord capofila, Sparta nobile decaduta (sei titoli vinti, ma l’ultimo datato 1959), Excelsior vaso di argilla sballottato tra prima e seconda divisione. Solco profondo pure a Manchester, dove United vs City può essere sintetizzato in un episodio avvenuto nel maggio del 1999; mentre lo United conquistava all’ultimo respiro la Champions League battendo il Bayern Monaco, altrettanto rocambolescamente il City si guadagnava, ai rigori, il ritorno nella serie cadetta inglese. Due feste uguali per due successi di dimensioni notevolmente diverse. Non c’è da stupirsi se poi il Colin Shindler di turno pubblichi il libro “La mia vita rovinata dal Manchester United”. Forse però tra qualche anno i soldi degli sceicchi ci racconteranno una storia diversa.

Fonte: Guerin Sportivo

mercoledì 3 febbraio 2010

Il mito di Kick Smit

Se chiedeste ad un olandese che seguiva il calcio negli anni Cinquanta chi fosse Kick Wilstra, detto anche “de wondermidvoor” (il centravanti delle meraviglie), questo con tutta probabilità vi risponderebbe: “il miglior giocatore che l’Olanda abbia mai avuto”. Qualcuno un po’ avanti con gli anni potrebbe rispondervi in questo modo anche oggi, magari con un sorriso sulle labbra. Nato nella prima metà degli anni Trenta, Kick Wilstra è stato un’attaccante dall’innato senso del gol e dalla carriera piena di trionfi spesa tra Olanda (VV Veendorpse e Victoria), Inghilterra (Malton Rovers) e Italia (Titan), ma non affannatevi a cercare né lui né le squadre in cui ha militato negli almanacchi, perché non trovereste nulla. Troppo perfetto per essere vero, Kick Wilstra è infatti un fumetto creato dal disegnatore olandese Henk Sprenger, uno dei primi fumettisti in Olanda ad introdurre nelle vignette i balloon al posto delle didascalie, e pubblicato negli anni Cinquanta su periodici quali il “Ketelbinkie Krant” e l’”Het Parool”, riscuotendo uno straordinario successo. Capelli biondi (con tanto di ciuffo a banana stile Elvis), fisico prestante, grandi qualità tecniche e un innato amore per la giustizia e la lealtà sportiva, in un’Olanda alle prese con i problemi della ricostruzione postbellica Wilstra è entrato nell’immaginario collettivo di molti giovani, tanto che il suo motto “sempre avanti” è diventato lo slogan di un’intera generazione.
Il nome, ma anche le caratteristiche, del personaggio derivano da tre vere e proprie leggende (queste sì reali) del calcio olandese: Kick Smit, Faas Wilkes e Abe Lenstra.



Johannes Chrihostomos Smit, detto Kick, è il più vecchio del terzetto, essendo nato il 3 novembre del 1911 in un appartamento a pochi passi dallo stadio dell’HFC Haarlem, una delle squadre della sua vita nonché quella alla quale sono legati gli anni migliori della sua carriera; Smit è stato infatti l’architetto del primo e unico titolo conquistato (nel 1946) dai rossoblu nella loro storia, tanto da venire eletto miglior giocatore dell’Haarlem di sempre. In Kick Smit la tecnica sopraffina, la visione di gioco, la facilità di corsa e la grande resistenza si amalgamano con l’innata capacità di “lettura” della partita derivante dal suo eccellente senso della posizione, rendendolo un giocatore capace di fare praticamente di tutto; attaccare, difendere, impostare l’azione, fornire assist, segnare. Oltre a quelle più prettamente calcistiche non bisogna dimenticare le qualità umane del personaggio; fervente cattolico, Smit viene ricordato anche per la correttezza e il rispetto mostrati in campo nei confronti di compagni ed avversari.
Calcisticamente cresciuto in due club cattolici di Haarlem, Geel-Wit e SVOG, all’età di 21 anni si trasferisce all’RCH di Heemstede (piccola città nei pressi di Haarlem), dove però soffre il fatto di essere l’unico cattolico in una squadra di calvinisti. L’anno seguente passa all’HFC Haarlem, ed il 7 gennaio del 1934 debutta in prima squadra. Due mesi dopo arriva la prima convocazione e l’esordio in nazionale (11 marzo 1934, Olanda-Belgio 9-3), dove ci giocherà fino a 1946 totalizzando 29 presenze e 26 reti (settimo marcatore di sempre della nazionale olandese). Dopo aver lasciato l’HFC nel 1940 per l’HBC Haarlem, una squadra cattolica che non partecipava al campionato ufficiale della Federcalcio olandese, Smit esce dal giro del “grande calcio” per rientrarvi nel 1946 all’età di 33 anni, sempre tra le fila del suo amato HFC Haarlem che, come già detto, conduce al titolo nazionale, segnando oltretutto i due gol che permettono all’HFC di espugnare clamorosamente l’Olympisch Stadion di Amsterdam e di sopravanzare così l’Ajax nella classifica finale. Un trionfo che può sembrare la degna conclusione di una carriera, la quale è invece ben lungi dall’essere conclusa. Dopo essere infatti passato sulla panchina dell’HFC, il divieto imposto dalla KNVB di allenare e contemporaneamente di giocare nella stessa squadra lo costringono a ritornare in campo, cosa che avviene il 31 ottobre del 1954 (HFC Haarlem-VSV 2-2) alla venerabile età di 43 anni.
La grande delusione nella straordinaria carriera di Kick Smit è rappresentata dal suo mancato trasferimento nel campionato inglese. Lo avevano cercato Wolverhampton, Norwich City e Charlton, ed un contratto di 36mila fiorini era già pronto nella sede dei Wolves; a quei tempi però un giocatore straniero che voleva trasferirsi in Inghilterra andava incontro a diversi problemi, primo tra tutti quel permesso di lavoro che la Federazione inglese concedeva piuttosto difficilmente. In Olanda inoltre un giocatore che intendeva trasferirsi in una squadra straniera veniva considerato un traditore del proprio paese, una cosa che Kick Smit, molto sensibile riguardo a certi argomenti, non avrebbe mai potuto sopportare. In aggiunta a ciò la stessa Federazione olandese aveva invitato il giocatore a desistere promettendogli una carriera di funzionario al proprio interno una volta appese le scarpe al chiodo. Promessa mai mantenuta, tanto che pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel 1974, lo stesso giorno in cui l’Olanda disputava la finale di Coppa del Mondo in Germania) Smit aveva dichiarato che “non andare il Inghilterra è stato il più grande errore della mia vita”.

Con Gedo

Più esperti del Ghana, più tecnici dell’Algeria, più strutturati di Nigeria e Camerun, più umili della Costa d’Avorio. L’Egitto campione d’Africa per la terza volta consecutiva, la settima in totale, ha vinto sotto tutti i punti di vista. La miglior squadra, dotata del maggior numero di giocatori capaci di costituire per il collettivo un valore aggiunto. Quello che i vari Eto’o, Drogba e Obi Mikel non sono riusciti a fare. Il tecnico dei Faraoni Hassan Shehata ha compiuto l’ennesimo capolavoro, reso ancora più difficile questa volta dall’assenza di due pezzi da novanta della sua nazionale quali Zaki e, soprattutto, Aboutrika, entrambi infortunati. In copertina ci è finito Gedo con i suoi 5 gol (l’ultimo dei quali ha deciso la finale), tutti realizzati da subentrato. Ma la palma del miglior giocatore del torneo la merita Ahmed Hassan, splendido 34enne dalle lucide geometrie, alle quali unisce corsa, grinta e tanto carisma. Giunto con tutta probabilità all’ultimo atto della sua carriera con l’Egitto, Hassan, interno destro nella mediana a cinque di Shehata, aveva rischiato di chiudere la sua avventura nel peggiore dei modi quando, nei quarti di finale, una sua autorete di testa aveva portato in vantaggio il Camerun. Ma è stato proprio lui a pareggiare i conti con una botta dalla distanza, per poi ripetersi nei supplementari e fissare, grazie anche a Gedo, il punteggio sul definitivo 3-1.
Equilibrio, organizzazione, varietà di soluzioni: queste le armi dell’Egitto. Senza il bulldozer Zaki davanti si sono alternati, in fase realizzativa, Meteeb e Zidan; meglio il primo nella fase a gironi, uscito alla distanza il talento dell’Amburgo, un solo gol, però splendido, in semifinale contro l’Algeria. In difesa Gomaa e Said hanno fatto valere tutta la loro esperienza, permettendo al numero uno El-Hadary di non ripetere le prestazioni monstre del 2008. Non le ha ripetute nemmeno uno stranamente spento Hosny, due anni fa miglior giocatore della manifestazione e oggi tra i meno brillanti della compagine. L’Egitto ha sofferto le squadre chiuse e impostate ad agire di rimessa; l’Algeria della prima mezz’ora in semifinale (vinta 4-0, ma è stato necessario un rigore generosissimo per sbrogliare la matassa), il Ghana finalista. I Faraoni però sono sempre riusciti ad imporsi con il cinismo della grande squadra.
Capitolo Ghana. Gli uomini di Rajevac meritano solo applausi. Si sono presentati ai blocchi di partenza falcidiati dalle defezioni, hanno perso subito il loro elemento migliore (Essien) eppure si sono guadagnati la finale con prestazioni di rara maturità ed efficacia, pur se esteticamente tutt’altro che esaltanti. Ma per una squadra imbottita, nell’undici titolare, di giocatori classe 88, 89 e 90, questo basta e avanza. I migliori sono stati proprio i baby: Agyemang Badu davanti alla difesa, Kwadwo Asamoah a cavallo tra la mediana e l’attacco, Samuel Inkoom sull’out destro, Andrè Ayew qualche metro più avanti. Asamoah Gyan ha invece messo più di una pezza sulla mancanza di un bomber da area di rigore del Ghana, un difetto ormai cronico pagato a caro prezzo in finale. Evidentemente né Adiyiah né Osei, a differenza di alcuni loro coetanei, sono ritenuti pronti dal ct a vestire la maglia da titolare. Se ne riparlerà in Sudafrica.
Uscendo dalla cerchia delle finaliste, Angola 2010 si farà ricordare per l’eccellente Peter Odemwingie (Nigeria), una seconda punta coi fiocchi; per le accelerazioni di Christopher e Felix Katongo, il cui Zambia ha dovuto arrendersi immeritatamente alla Nigeria nei quarti solo dopo i rigori; per l’ottimo Gabon messo in campo da Alain Giresse nell’esordio contro il Camerun (una lezione di tattica al connazionale Paul Le Guen); per il muro difensivo dell’Algeria, squadra ad una sola dimensione, sufficiente però per arrivare in semifinale pur priva di una punta degna di questo nome (quale, senza scomodare nomi di primissimo piano, l’angolano Flavio o lo zambiano Jacob Mulenga); per l’emozionante rimonta del Mali contro l’Angola, da 0-4 a 4-4 negli ultimi dodici minuti; per l’approccio mostrato dal Mozambico del tecnico olandese Nooij, coraggioso nell’affrontare un torneo al di sopra delle proprie possibilità giocando un calcio veloce fatto di sovrapposizioni, verticalizzazioni e tanta circolazione di palla. La difesa imbarazzante e la tecnica approssimativa degli interpreti erano però limiti invalicabili.