Se un tempo il calcio era considerato un gioco, i derby non lo sono mai stati. Sotto la superficie della rivalità sportiva che caratterizza ogni stracittadina si agita un vasto microcosmo in cui si intrecciano elementi politici, religiosi e socio-culturali. L’avversario diventa un nemico, l’appartenenza assume i connotati della fede, il fair play è un’oscura parola scritta su una pagina che qualcuno ha strappato dal vocabolario. E’ così ovunque; sotto la pioggia di Tòrshavn, isole Far Øer, per B36- HB, così come nella torrida Buenos Aires per Boca Juniors-River Plate. O in Catalogna per Barcellona-Espanyol.
Iniziamo il nostro viaggio proprio dal Sudamerica. A Rio de Janeiro c’è solo l’imbarazzo della scelta in tema di rivalità. Flamengo, Fluminense, Vasco Da Gama, Botafogo, America. Se non è tutti contro tutti, poco ci manca. Sicuramente tutti sono contro il Flamengo, il club che vanta il maggior numero di tifosi, oltre 25 milioni, in tutto il Brasile. Fama e successo aumentano tanto gli amici quanto i nemici. E questi ultimi non ti perdonano niente, come accadde a Felipe quando decise di cambiare casacca lasciando quella del Vasco Da Gama per abbracciare i colori della Rio rossonera. Conoscenti ed ex tifosi gli tolsero il saluto, nel vero senso della parola. Ulteriore sale alla rivalità tra cruzmaltinos e rubronegros (ma anche tra i primi e il Botafogo) lo regala il canottaggio; essendo delle polisportive modello Barcellona, nel loro periodo d’oro questi club arrivarono a giocarsi la supremazia in Brasile anche nella “regatta”. La componente razziale ha invece caratterizzato il passato del Fluminense, società di riferimento dell’elite bianca, che per lungo tempo non ha permesso l’utilizzo di giocatori di colore nella squadra. Diversi giocatori del Flu erano pertanto costretti a schiarirsi la faccia con della polvere di riso. Fu il Vasco negli anni Venti a rompere per primo il tabu schierando mulatti, neri e creoli. Le altre società cercarono di escluderlo dal campionato statale.
Dal Brasile alla Scozia, dalla segregazione al settarismo; benvenuti all’Old Firm, il derby di Glasgow. Protagonisti Celtic e Rangers, diversi in tutto: religione, origini sociali, collocazione geografica, colori societari. I primi sono cattolici, provengono dai ceti più poveri dell’East End cittadino e indossano il verde dell’Irlanda, secolare oppositore dell’impero britannico; i secondi per contro sono protestanti e lealisti, nascono tra i lavoratori e la borghesia benestante del West End e vestono il blu, il bianco e il rosso, i colori della Union Jack. Differenze oggi sfumate dai cambiamenti socio-culturali, che vanno dalla crescita di un ceto medio-alto di origini irlandesi (quindi pro Celtic) a Mo Johnston il primo giocatore cattolico dei Rangers. I quali vantano il maggior numero di titoli scozzesi (52), ma devono inchinarsi di fronte alla Coppa dei Campioni messa in bacheca nel 1967 dagli arci-rivali.
Derby assai tirato è anche quello di Siviglia, dove la supremazia cittadina è contrastata dal Betis. Negli ultimi anni il Siviglia ha accumulato coppe e prestigio in quantità industriali, ma i curricula sono quasi equivalenti. Non sempre però le stracittadine sono sfide alla pari, o quasi. Ad esempio quello tra Valencia e Levante, sempre in Spagna. Sei titoli di Liga, sette coppe del Re per il primo, cinque campionati di prima divisione per il secondo. In Germania Bayern Monaco-Monaco 1860 raramente regala sorprese. Troppo netto il divario che separa le due contendenti. E pensare che quando nacque la Bundesliga vennero scelti i Löwen quale società più rappresentativa di Monaco (ogni città poteva iscrivere un solo club). Anche a Rotterdam le gerarchie sono ben definite; Feyenoord capofila, Sparta nobile decaduta (sei titoli vinti, ma l’ultimo datato 1959), Excelsior vaso di argilla sballottato tra prima e seconda divisione. Solco profondo pure a Manchester, dove United vs City può essere sintetizzato in un episodio avvenuto nel maggio del 1999; mentre lo United conquistava all’ultimo respiro la Champions League battendo il Bayern Monaco, altrettanto rocambolescamente il City si guadagnava, ai rigori, il ritorno nella serie cadetta inglese. Due feste uguali per due successi di dimensioni notevolmente diverse. Non c’è da stupirsi se poi il Colin Shindler di turno pubblichi il libro “La mia vita rovinata dal Manchester United”. Forse però tra qualche anno i soldi degli sceicchi ci racconteranno una storia diversa.
Fonte: Guerin Sportivo
venerdì 5 febbraio 2010
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