mercoledì 18 agosto 2010

Schans per capire il mondo (parte prima).

Da un campo militare sulle vette dell’Himalaya, passando da un’arancia pagata tre milioni di dollari nello Zimbabwe, fino alla brina delle sperdute pianure nel grande nulla che divide la Cina dalla Corea del Nord. Il mondo chiuso in una valigia, tra lo spazzolino da denti e un manuale di tattica calcistica; e il pallone come occasione di viaggio, di incontro, di arricchimento.

L’olandese Arie Schans è il globetrotter estremo del calcio. Un moderno esploratore travestito da maestro di calcio. Da oltre un decennio è in viaggio ai margini dell’impero, mosso dal desiderio di rimpinguare il proprio bagaglio umano piuttosto che il conto in banca. Zero tituli? Non importa. Arie è un tipo a cui piace sfatare luoghi comuni, seminando terreni a prima vista senza speranza. Bhutan, Mozambico, Namibia, campionato cinese. Subito una smentita. Schans non è la versione oranje di Bora Milutinovic, lo slavo giramondo che seduce nazionali esotiche alla vigilia del Mondiale, per poi salpare verso altri lidi appena terminato il grande ballo. Schans possiede un’altra filosofia: «Molti allenatori attratti dal fascino dell’esotico si muovono come elefanti in cristalleria. Quando entro in contatto con una nuova cultura non mi pongo mai sul piedistallo; vado per insegnare, certo, ma anche per imparare. E per capire». In poche parole, la differenza che passa tra un colonizzatore e un esploratore.

La sua finale mondiale Arie Schans l’ha disputata nel 2002, quando la FIFA ebbe l’idea di organizzare un incontro tra le due peggiori nazionali del mondo, Bhutan e Montserrat. Una sfida tra i fanalini di coda (posizione numero 203 e 204) del ranking FIFA, ribattezzata romanticamente The Other Final, disputata in concomitanza con la finale del mondiale nippo-coreano tra Brasile e Germania. Per preparare la partita della vita di una selezione reduce da uno 0-20 contro l’Arabia Saudita, nel Gennaio del 2002 era sbarcato ai piedi dell’Himalaya uno smunto olandese. L'aspetto da impiegato di banca, prossimo alla pensione. Sceso da uno dei due aeroplani che compongono la flotta della compagnia aerea nazionale del Bhutan, e allontanatosi dalla lingua di asfalto che qualcuno si ostinava a chiamare pista di atterraggio, il mister si era trovato di fronte ad un campo di allenamento ricavato in un vecchio presidio militare; la caserma come spogliatoio, e una distesa di terra sabbiosa indurita dal gelo, e costellata di buche, come terreno di gioco. Su un tavolo di legno giaceva un foglio stropicciato con il programma di allenamento predisposto dal precedente tecnico, un coreano del sud. C’era scritto: “Ripetute e corsa in montagna -intesa come Himalaya, ndr- al mattino e al pomeriggio”. «Ma questi ragazzi non devono fare la maratona!», commentò stupito il neo Ct del Bhutan.

Ma come ci era arrivato, in quella terra dimenticata dagli Dei del calcio? La risposta va cercata a Zeist, dove sorge il quartier generale della Koninklijke Nederland Voetbalbond (Regia Federazione Calcio Olandese), che vanta anche un’efficiente accademia per allenatori. Ogni richiesta che arriva da Federazioni straniere può essere accolta: la Kvnb forma professori di calcio pronti a fare le valigie ed andare a lavorare all'estero in qualsiasi momento, in qualità di allenatori, consulenti o semplici insegnati per tecnici locali. Una sorta di Sos Tata per commissari tecnici, insomma. La carriera di Schans è cominciata molto presto. A diciannove anni era assistente di Fritz Korbach all’Fc Wageningen, club professionistico olandese che sarebbe successivamente fallito. Dopo anni di peregrinazioni nel sottobosco del calcio dilettantistico oranje, aveva accettato di andare a insegnare in Giappone, guidando per cinque anni la squadra universitaria del Nittai Dai. La figlia finirà per sposare uno dei giocatori del club, Keji Aikawa. Uno che non riuscirà a sfondare in Giappone e nemmeno in Olanda, una volta emigrato, ma che non può certo ritenere sfortunato l'incontro con il tecnico di Veenendaal.

Duemila giorni ad Oriente valgono la proposta per la panchina del Buthan, il passaporto per l’inedita, e attesissima, The Other Final. «Giocammo a Thimphu, la capitale, e battemmo Montserrat 4-0. C’erano dodicimila persone ad assistere all’incontro ed erano dappertutto. Sugli alberi, sui tetti, ovunque. A fine gara iniziarono i festeggiamenti, e il Ministro degli Interni mi disse che non mi avrebbe mai lasciato andar via. “Ordinerò a tutti gli aerei di non decollare” sentenziò. Accettai di guidare ancora la squadra in un torneo amichevole a Calcutta. La raggiungemmo dopo un viaggio di 36 ore, scalo a Bangkok incluso. I giocatori rimasero stupiti dal nostro hotel, una struttura di 36 piani. Dal momento che in Bhutan una legge emanata dal re vieta la costruzione di palazzi con più di quattro piani, nessuno di loro aveva mai visto una cosa simile. Non si fidavamo a salire sull’ascensore. Le sorprese continuarono quando la Federcalcio tailandese ci regalò delle cravatte. Dovetti ordinare ai ragazzi di disporsi in cerchio per insegnargli come si faceva ad annodarne una. Del resto, chi ha bisogno di accessori in Bhutan?».

(fine prima parte)

1 commento:

  1. Grazie mille Alec per questa storia.Da oggi ho un nuovo idolo in quanto quest'uomo non solo fa lo stesso mestiere che anche da grande pure io voglio svolgere ma addirittura lo fa pure con la medesima mentalità che mi sono dempre prefisso...

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