giovedì 5 agosto 2010

Neri di rabbia

L’utilizzo della nazionale di calcio quale strumento di propaganda di un regime è una storia vecchia quanto il pallone stesso. Dall’Italia di Mussolini nel mondiale del 1934 alla Germania di Hitler quattro anni più tardi, dalla DDR nel 1974 sul suolo “nemico” dei vicini dell’Ovest fino alla madre di tutte le farse calcistiche, la coppa del mondo 1978 nell’Argentina della Junta Militar. Anche la storia della prima compagine dell’Africa subsahariana presente alla fase finale di un mondiale, lo Zaire nel 1974, non può che partire da questa letale commistione tra sport e dittatura. In questo caso, dall’efferato Joseph-Désiré Mobutu, maresciallo-presidente dello Zaire, oggi Repubblica Democratica del Congo, dal 1965 al 1997.

In quello sterminato crogiuolo di mondi e culture definito per comodità Africa, la prima nazionale ad affacciarsi sul palcoscenico mondiale fu l’Egitto nel 1934, seguito dal Marocco nel 1970; compagini entrambe appartenenti alla macro-regione del Nordafrica. Nel 1974 arriva invece il turno di una squadra proveniente da quella che una volta veniva definita, piuttosto impropriamente, Africa nera. La qualificazione dello Zaire è però tutt’altro che una sorpresa, dal momento che sin dalla fine degli anni Sessanta l’ex colonia belga si era imposta quale una delle potenze calcistiche del continente, vincendo due Coppe d’Africa (nel 1968, alla prima partecipazione in assoluto, e nel 1974) e dominando nelle competizioni continentali per club (tre Coppe Campioni africane vinte tra il ’67 e il ’73). Informazioni che nemmeno giunsero in Germania al momento dello sbarco dei giocatori, vittime designate di ironie e pregiudizi. Nulla comunque a confronto di ciò che sarebbe successo loro se fossero tornati in patria senza aver difeso “l’orgoglio e la dignità del paese”, come chiesto espressamente dal presidente Mobutu.

Una volta instauratosi al potere, grazie al sostanzioso contributo offerto dagli Stati Uniti, Mobutu aveva inaugurato una radicale politica di “africanizzazione” del paese. I cittadini furono obbligati ad adottare nomi africani, negli uffici pubblici vennero imposti abiti tradizionali, le città furono rinominate (Leopoldville, ad esempio, divenne Kinshasa). Lo stesso Mobutu cambiò il proprio nome in Mobutu Sese Seko Koko Ngbendu Wa Zabanga, ovvero “Mobutu il guerriero che va di vittoria in vittoria senza che alcuno possa fermarlo”. Ai giocatori della nazionale in partenza per l’Europa non chiese però vittorie, bensì dignità. Promise loro un auto e una casa. L’importante era non coprire di ridicolo il paese. Cioè lui. Il quale ovviamente, in pieno delirio di onnipotenza, era convinto di non aver bisogno di un allenatore per guidare la nazionale del suo paese. Purtroppo però c’erano dei regolamenti da rispettare.

I rapporti tra Mobutu e il ct dello Zaire, lo slavo Blagoje Vidinic, non erano mai stati facili. In Germania Ovest peggiorano ulteriormente, nonostante il debutto dei Leopardi, schierati con un aggressivo 4-2-4, si conclude con una onorevole sconfitta per 2-0 a Dortmund contro la Scozia. Ma per il guerriero abituato solo alla vittoria tutto ciò non è sufficiente. Immediata la decisione: niente stipendi e niente premi. Lo spogliatoio non ci sta, i giocatori si dichiarano pronti a scioperare. Nel 2004 alla BBC il terzino destro della squadra Mwepu Ilunga ricorda così la fine di un sogno. “Prima di partire per il mondiale, Mobutu per noi era come un padre. Credevamo alle sue parole. Al termine della partita d’esordio lasciammo lo stadio in BMW. Pensavamo tutti che saremmo tornati a casa milionari. Invece non vedemmo il becco di un quattrino. Io sono finito a vivere in miseria”.

Ore di trattative convincono i giocatori dello Zaire a scendere nel secondo match, in programma contro la Jugoslavia. Qualcosa però si è rotto. Dopo tredici minuti sono già sotto di 3 reti. Vidinic sostituisce immediatamente Muamba Kazadi, il portiere dei Leopardi, che lascia il campo in lacrime. Al suo posto Tubilandu, costretto in poco più di un’ora a raccogliere altri sei palloni in fondo al sacco. Jugoslavia-Zaire 9-0 eguaglia il primato della peggior sconfitta in un mondiale. La bufera vera e propria si scatena però quando Mobutu irrompe negli spogliatoi affiancato dalle sue guardie personali. Vidinic viene accusato di aver spifferato le tattiche della squadra ai suoi connazionali slavi. I giocatori vengono minacciati. Inequivocabile il messaggio: “Perdete 4-0, o peggio, contro il Brasile e nessuno di voi tornerà più a casa”.

Lo stato d’animo con il quale i Leopardi scendono in campo il 22 giugno a Gelsenkirchen per affrontare i campioni del mondo in carica del Brasile è facilmente immaginabile. Il divario abissale tra le due compagini promette una partita a senso unico. Come puntualmente si avvera, anche se il Brasile non spinge sull’acceleratore. Tre reti (a zero) e pratica chiusa. Eppure proprio questo incontro così privo di appeal è destinato a passare alla storia. Accade durante un calcio punizione fischiato al Brasile. Sono tre i giocatori verdeoro sulla palla. Prima del fischio dell’arbitro però dalla barriera dello Zaire si stacca Ilunga, che colpisce con forza il pallone e poi allarga le braccia con espressione innocente. “Cosa ho fatto di male?”, sembra chiedere con espressione innocente all’arbitro che gli sta sventolando davanti un cartellino giallo. Nel 2004 il suo exploit si classificherà al 17esimo posto nella classifica riguardante i “100 migliori momenti della coppa del mondo”, stilata dall’emittente inglese Channel 4.

Per anni il gesto di Ilunga è stato oggetto di scherno, in quanto percepito come il simbolo di un calcio africano considerato infantile e approssimativo, che si presentava ai mondiali con giocatori i quali nemmeno conoscevano il regolamento. Difficile però che l’allora 25enne Mwepu Ilunga, terzino del TP Englebert (oggi TP Mazembe), una delle squadre più forti dell’intero continente (nel 1967 centrò addirittura un treble di mourinhiana memoria vincendo campionato, coppa nazionale e Coppa Campioni), nonché successivamente inserito nella top-11 africana più forte di tutti i tempi, ignorasse le regole di base del calcio. Il suo fu un piccolo atto di ribellione. Contro chi derideva quei colored in maglia verde con righine gialle; contro i brasiliani che facevano accademia senza infierire, e nemmeno così i Leopardi riuscivano a combinare qualcosa di buono; ma soprattutto contro Mobutu, le sue promesse da marinaio, il clima intimidatorio che aveva creato all’interno della squadra, la frustrazione di vedere il sogno di una vita agiata sgretolarsi in pochi giorni sotto il peso della menzogna e della prevaricazione. Ilunga gridò il suo “basta!” in mondovisione.

Nel 1997 Mobutu è fuggito in Marocco trovando riparo nel presidio militare di Rabat, dove poco dopo è deceduto per un cancro alla prostata. Lasciava uno Zaire al collasso economico, in conflitto con i paesi vicini ed in guerra civile al proprio interno. Ogni tanto qualcuno si ricorda di Mwepu Ilunga. “Ero orgoglioso di rappresentare l’Africa nera ad un mondiale, e lo sono tuttora”. Nessun cenno invece al gesto che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Non serve. Chi doveva (e voleva) capire, ha capito.

Fonte: Guerin Sportivo

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