Negli anni Trenta la J. & C. A. Schneider di Francoforte era la più grande produttrice di scarpe e pantofole al mondo. Tra la manodopera impiegata dall’azienda c’era anche una dozzina di persone che preferivano giocare a pallone piuttosto che andare a lavorare in fabbrica. Ma al titolare Walter Neumann andava bene così. Del resto si era occupato personalmente della loro assunzione. In realtà Neumann era il principale finanziatore di uno dei club cittadini, l’Eintracht Francoforte, e non potendo pagare direttamente i giocatori, li assumeva fittiziamente nella propria ditta. Questo uomo d’affari di origini ebree coltivava un sogno: condurre l’Eintracht Francoforte sul tetto della Germania calcistica. Il 12 giugno 1932, otto anni dopo l’inizio del legame tra Neumann e il club, il momento sembra arrivato. L’Eintracht si trova di fronte il Bayern Monaco nella finale del campionato tedesco, all’epoca strutturato in divisioni a base regionale e con play-off tra i rispettivi vincitori per il titolo di campione nazionale. I bavaresi però sono più forti e si impongono 2-0, senza per questo impedire ai giocatori dell’Eintracht di rientrare a casa tra gli applausi dei propri tifosi per l’ottima stagione disputata. Lo stesso Neumann può consolarsi; la squadra, composta da alcuni ottimi elementi quali l’attaccante Hugo Mantel e il centrocampista Rudi Gramlich, ha tutte le carte in regola per riprovarci l’anno successivo. Non aveva però fatto i conti con l’uomo nuovo della politica tedesca: Adolf Hitler.
Per una società gestita e finanziata da ebrei come l’Eintracht Francoforte, l’ascesa al potere del NSDAP (il partito nazista), favorita dalla catastrofica condizione economica nella Germania della Repubblica di Weimar, configura il peggiore degli scenari possibili. Il 30 gennaio 1933 il presidente Paul von Hindenburg nomina Hitler Cancelliere della Germania. A luglio il paese è già un regime monopartitico e, riguardo agli ebrei, dalla propaganda antisemita si passa alle persecuzioni vere e proprie. Il processo di “nazificazione” investe tutti i settori della società, sport compreso. Non sono più ammessi ebrei nelle società calcistiche, né in campo, tanto meno tra i quadri dirigenziali.
La ristrutturazione del calcio incontra inizialmente delle resistenze. Eccezion fatta per tre club, Stoccarda, Monaco 1860 e Werder Brema, le cui dirigenze fin da subito si mostrano particolarmente zelanti nell’applicare le nuove direttive razziste, le società tedesche applicano una sorta di resistenza passiva, con piccoli ma simbolici gesti di ribellione. Come quello dei giocatori del Bayern Monaco, che nel corso di un amichevole in Svizzera contro il Servette rendono pubblico omaggio al loro ex-presidente Kurt Landauer, rimosso dalla carica perché ebreo. Anche l’Eintracht gioca un piccolo scherzo ai nazisti attraverso Julius Lehmann. Il difensore, nonostante la discendenza ebrea, rimane in squadra fino al 1937 perché nessuno si accorge delle sue origini. Da un lato lo aiuta il possedere le tipiche fattezze ariane – occhi azzurri e capelli biondi; dall’altro il presidente Egon Graf von Beroldigen, capace di custodire il segreto fino alla propria morte, avvenuta a inizio del 1934, e di farlo così bene che nemmeno il suo successore Hans Söhngen arriverà mai a sospettare alcunché, nonostante sia una dei capi partito del NSDAP nonché un comandante delle SA. Lehmann verrà scoperto solamente per un errore del fratello Max, pizzicato nel 1937 in possesso di un piano di fuga dalla Germania. Immediatamente espulso dalla squadra, il giocatore non sopravvivrà al campo di concentramento di Majdanek, nella Polonia Orientale.
La politica di “arianizzazione” dello sport toglie all’Eintracht la propria fonte di sostentamento principale. Nel 1934 Neumann è costretto a vendere la sua ditta, prossima al collasso finanziario. Il bilancio in rosso è la logica conseguenza di una legge del Reich che impedisce ai tedeschi di acquistare beni da aziende gestite da ebrei. L’uomo d’affari trova rifugio ad Amsterdam. Sceglie invece l’Italia il tesoriere Hugo Reiss, almeno fino a quando non vengono promulgate le famigerate leggi a difesa della razza, costringendolo ad emigrare in Sud America. Le loro tracce vengono cancellate da tutti i documenti ufficiali del club, tanto che una pubblicazione del 1939 dedicata al 40° anniversario dell’Eintracht cita la J. & C. A. Schneider esclusivamente come riuscito esempio di azienda “arianizzata”. Eppure l’Eintracht che si laurea campione della propria Gauliga (così erano state ribattezzate le divisioni regionali dai nazisti) nella stagione 37-38, dopo essere arrivato secondo l’anno prima, deve moltissimo all’operato della coppia Neumann-Reiss, che a partire dalla metà degli anni Venti aveva gettato le basi per la costruzione di quella che era diventata una delle migliori squadre del calcio tedesco. Ne sono un esempio i citati Mantel e Gramlich, due tra i migliori calciatori tedeschi dell’epoca. Stesso talento, destini opposti.
Mantel, 200 partite con l’Eintracht, 5 presenze in nazionale, un tentativo fallito di giocare in Italia (nel 1934 si era trasferito all’Ambrosiana-Inter, ma non ottenne il permesso di scendere in campo in quanto straniero), perde la vita al fronte in Russia nel 1942. Gramlich invece si salva dalla furia della guerra, non senza qualche ombra mai del tutto dissipata. Centrocampista elegante soprannominato “il gentiluomo con la palla” per la squisita tecnica con la quale accarezzava il pallone, Gramlich aveva partecipato ai Mondiali italiani del 1934 e – da capitano – alle Olimpiadi di Berlino del 1936. Due anni dopo, quando il terribile presidente dell’Eintracht Söhngen era caduto in disgrazia presso il partito a causa di una relazione omosessuale, Gramlich aveva preso il suo posto. Sotto la sua direzione viene pubblicato il famigerato libro celebrativo “depurato” dai nomi ebrei, e l’appartenenza alle SS gli consente di mantenere la carica fino alla caduta del Reich. L’Eintracht a conduzione nazista muore simbolicamente il 4 ottobre 1943, giorno in cui iniziano su Francoforte i bombardamenti che distruggeranno il 70% della città, tra cui il Riederwald stadion. Ma quando il club ricomincia la propria attività nella Germania liberata (la richiesta viene inoltrata agli americani da Emanuel Rothschild, ebreo scampato al campo di sterminio di Dachau e da sempre tifoso dell’Eintracht), Gramlich ricompare sulla scena. Nel processo a suo carico si discolpa definendosi soggetto passivo all’interno della macchina nazista, nonché membro delle SS solamente in qualità di semplice insegnante di ginnastica. La tesi del mero esecutore di ordini perché “non si poteva fare altrimenti” viene accolta. Il 19 luglio 1948 Gramlich viene ufficialmente reintegrato nei ranghi dell’Eintracht Francoforte. Sette anni dopo diventa presidente. Sotto la sua gestione il club scriverà la pagina più importante della sua storia, vincendo nel 1959 il suo primo – e finora unico – titolo nazionale, e raggiungendo l’anno seguente la finale di Coppa dei Campioni, persa 7-3 contro il Real Madrid in una delle partite di calcio più belle di sempre.
Fonte: Guierin Sportivo
domenica 4 dicembre 2011
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