In Inghilterra ci sono le Wags, viziato e capriccioso gruppo composto dalle fidanzate e dalle mogli dei calciatori della nazionale in perenne ricerca di un posto i riflettori. In Olanda invece Wags si declina al singolare. Una sola vrouw al comando, capace però di occupare le prime pagine dei giornali come nemmeno la nazionale guidata da Bert van Marwijk, tra le più serie candidate alla vittoria del mondiale. Perchè ogni volta che si parla di Yolanthe Cabau van Kasbergen, la compagna di Wesley Sneijder, l’Olanda si spacca, tanto da far arrivare un giornalista a chiedere in conferenza stampa al ct Van Marwijk: “Yolanthe ha annunciato che arriverà presto in Sudafrica, è proccupato?”
Ma chi è la signorina Yolanthe? Di tutto e di più, come la Rai. Modella, attrice, presentatrice, madrina del Giro d’Italia. Nata 25 anni fa a Ibizia da padre spagnolo e madre olandese, studia da diva ed è un’assidua frequentratrice delle cronache rosa. Nella primavera 2009 fece scalpore un bacio con Sneijder ripreso dalla telecamera di un parcheggio sottorraneo quando lei era ancora legata a Jan Smit, popolarissimo cantante olandese. I due rappresentavano i perfetti fidanzati d’Olanda, tanto che quando venne annunciata la loro rottura intervenne addirittura il primo ministro Jan Peter Balkenende per dichiarare il proprio rammarico.
Il ciclone-Yolanthe ha raggiunto il suo picco di massima intensità proprio alla vigilia degli ottavi di finale, portando lo scompiglio nel finora tranquillo ambiente dei tulipani. La miccia è stata accesa dal giornalista Johan Derksen, una delle penne più affilate di tutta l’Olanda. “Yolanthe può farci vincere il Mondiale”, ha scritto. “Da quando Sneijder sta con lei, il suo rendimento in campo si è letteralmente impennato. Se decisse di concedersi anche agli altri dieci della squadra, non ci fermerebbe più nessuno”.
L’accenno alla presunta facilità di costumi della futura signora Sneijder, già definita in passato da alcuni media “Yoko Ono in salsa oranje” e “starfucker” (non servono traduzioni), ha ovviamente scatenato una bufera, e la replica del giocatoe dell’Inter non si è fatta attendere. Sneijder in patria sta vivendo una situazione decisamente schizofrenica: gli stessi giornali che da un lato lo esaltano per le strepitose performance in campo, dall’altro ne criticano la deriva mondana, l’atteggiamento fin troppo pieno di sé e la sovra-esposizione mediatica. Interviste ai giornali rosa, servizi sul loro attico a Milano, reportage sul loro shopping pre-matrimoniale. Gli Sneijder in formato prezzemolo. Non più calcio, ma gossip totale.
Fonte: Il Giornale
lunedì 28 giugno 2010
Olanda-Slovacchia 2-1: le pagelle
La cronaca dell'incontro è disponibile sul blog Mondiali di calcio 2010
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 7 – Bravo sul destro di Stoch, decisivo su Vittek presentatosi tutto solo davanti a lui. Il numero uno oranje c’è.
Van der Wiel 5 – Una prestazione inutile, da ragazzino timoroso anche della propria ombra. Praticamente mai oltre la metà campo.
Heitinga 5.5 – La chance capitata a Vittek lo trova fuori posizione. Pasticcia un po’ nel finale.
Mathijsen 6.5 – Dalle sue parti passa ben poco. Stilisticamente non bello a vedersi, ma efficace.
Van Bronckhorst 5 – Una sua sovrapposizione permette a Kuijt di accentrarsi e di calciare pericolosamente a rete. Peccato che arrivi ad una manciata di minuti dalla fine, dopo una prestazione scialba e con parecchie imprecisioni.
Nigel de Jong 6.5 – Lottatore instancabile in mediana, non concede nulla. Sarebbe meglio però evitare i colpi di tacco nella propria area piccola.
Van Bommel 6 – A depotenziare Hamsik ci pensa il ct Weiss con un atteggiamento tattico fin troppo guardingo. Lui vigila.
Robben 7 – Il gol dell’1-0 è un piccolo gioiello, l’ennesimo. Fa quasi sempre la stessa giocata, eppure nessuno riesce a fermarlo. Perché è un autentico campione.
(Elia 6 – E’ bravo, sa di esserlo e vuole dimostrarlo a tutti. Ma ogni tanto dovrebbe prendere esempio da Kuijt)
Sneijder 6.5 – Entra in entrambe le reti oranje. Avvia il contropiede poi finalizzato da Robben, quindi piazza la rete del raddoppio. E’ l’unico della squadra che verticalizza.
(Afellay sv)
Kuijt 6.5 – Cresce alla distanza dopo un inizio in sordina. Nell’assist a Sneijder per il 2-0 c’è tutto il meglio di questo giocatore. Un altro attaccante avrebbe egoisticamente calciato in porta, lui alza la testa a passa la palla al compagno. Sempre al servizio della squadra.
Van Persie 5 – Ennesima prestazione deludente, con un solo tiro – fiacco – nello specchio della porta. Sta esaurendo il bonus.
(Huntelaar sv).
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 7 – Bravo sul destro di Stoch, decisivo su Vittek presentatosi tutto solo davanti a lui. Il numero uno oranje c’è.
Van der Wiel 5 – Una prestazione inutile, da ragazzino timoroso anche della propria ombra. Praticamente mai oltre la metà campo.
Heitinga 5.5 – La chance capitata a Vittek lo trova fuori posizione. Pasticcia un po’ nel finale.
Mathijsen 6.5 – Dalle sue parti passa ben poco. Stilisticamente non bello a vedersi, ma efficace.
Van Bronckhorst 5 – Una sua sovrapposizione permette a Kuijt di accentrarsi e di calciare pericolosamente a rete. Peccato che arrivi ad una manciata di minuti dalla fine, dopo una prestazione scialba e con parecchie imprecisioni.
Nigel de Jong 6.5 – Lottatore instancabile in mediana, non concede nulla. Sarebbe meglio però evitare i colpi di tacco nella propria area piccola.
Van Bommel 6 – A depotenziare Hamsik ci pensa il ct Weiss con un atteggiamento tattico fin troppo guardingo. Lui vigila.
Robben 7 – Il gol dell’1-0 è un piccolo gioiello, l’ennesimo. Fa quasi sempre la stessa giocata, eppure nessuno riesce a fermarlo. Perché è un autentico campione.
(Elia 6 – E’ bravo, sa di esserlo e vuole dimostrarlo a tutti. Ma ogni tanto dovrebbe prendere esempio da Kuijt)
Sneijder 6.5 – Entra in entrambe le reti oranje. Avvia il contropiede poi finalizzato da Robben, quindi piazza la rete del raddoppio. E’ l’unico della squadra che verticalizza.
(Afellay sv)
Kuijt 6.5 – Cresce alla distanza dopo un inizio in sordina. Nell’assist a Sneijder per il 2-0 c’è tutto il meglio di questo giocatore. Un altro attaccante avrebbe egoisticamente calciato in porta, lui alza la testa a passa la palla al compagno. Sempre al servizio della squadra.
Van Persie 5 – Ennesima prestazione deludente, con un solo tiro – fiacco – nello specchio della porta. Sta esaurendo il bonus.
(Huntelaar sv).
venerdì 25 giugno 2010
Ripensando a quelli che...."Grazie Marcello"
Pubblichiamo l'opinione del collega svizzero Paolo Galli, che condividiamo in toto.
Ricordo i giornalisti italiani durante i Mondiali tedeschi, tutti prostrati di fronte all’intoccabile Lippi. Ricordo i loro “Grazie Marcello”. Poi ripenso a quando li ho incontrati pure nel ritiro di “Casa Azzurri” nei dintorni di Vienna, agli Europei, sprezzanti nel dirigere le loro domande piccanti a Roberto Donadoni. Nessun “Grazie Roberto”, nessuna prostrazione, solo un immotivato rancore, una sorta di consentita superiorità nei suoi confronti.
Poi è tornato il “Colonnello” e ha ripristinato le sue regole, le sue discussioni a senso unico, le sue arrabbiature estemporanee. Ha provato anche a ricreare il regime del terrore verso l’esterno, a cominciare dal rapporto con la stampa, sottomessa, come quattro anni or sono, in modo da creare una tensione e una pressione altrimenti inesistenti.
Questa squadra, rispetto a quella della prima “era Lippi” non è mai stata realmente una squadra. Senza Pirlo si è ritrovata privata del suo unico progetto tattico: nessuna alternativa, nessun palliativo, nessuno schema offensivo degno di questo nome, nessuna qualità. E poi è mancata l’unità di intenti.
Quell’Italia, quella del “cielo è azzurro sopra Berlino”, era come una roccia rotolante, una rolling stone pericolosissima, una mina vagante. Era viva e aveva fame. Lo si percepiva anche nelle comunque esistenti difficoltà del momento. Questa non aveva luce, spenta e imbolsita, già sazia. Sembrava un lento elefante di un circo, un elefante in pensione, buono solo per le foto con i bambini. Qualche polaroid con i monumenti che furono Cannavaro e Buffon, Gilardino e Gattuso. E poi ciao, addio Italia di Lippi. Addio Lippi. Non ti criticheranno neppure oggi. Perché comunque rimarrai “Grazie Marcello” per sempre.
Fonte: Il Giornale del Popolo, 25/06/2010
Ricordo i giornalisti italiani durante i Mondiali tedeschi, tutti prostrati di fronte all’intoccabile Lippi. Ricordo i loro “Grazie Marcello”. Poi ripenso a quando li ho incontrati pure nel ritiro di “Casa Azzurri” nei dintorni di Vienna, agli Europei, sprezzanti nel dirigere le loro domande piccanti a Roberto Donadoni. Nessun “Grazie Roberto”, nessuna prostrazione, solo un immotivato rancore, una sorta di consentita superiorità nei suoi confronti.
Poi è tornato il “Colonnello” e ha ripristinato le sue regole, le sue discussioni a senso unico, le sue arrabbiature estemporanee. Ha provato anche a ricreare il regime del terrore verso l’esterno, a cominciare dal rapporto con la stampa, sottomessa, come quattro anni or sono, in modo da creare una tensione e una pressione altrimenti inesistenti.
Questa squadra, rispetto a quella della prima “era Lippi” non è mai stata realmente una squadra. Senza Pirlo si è ritrovata privata del suo unico progetto tattico: nessuna alternativa, nessun palliativo, nessuno schema offensivo degno di questo nome, nessuna qualità. E poi è mancata l’unità di intenti.
Quell’Italia, quella del “cielo è azzurro sopra Berlino”, era come una roccia rotolante, una rolling stone pericolosissima, una mina vagante. Era viva e aveva fame. Lo si percepiva anche nelle comunque esistenti difficoltà del momento. Questa non aveva luce, spenta e imbolsita, già sazia. Sembrava un lento elefante di un circo, un elefante in pensione, buono solo per le foto con i bambini. Qualche polaroid con i monumenti che furono Cannavaro e Buffon, Gilardino e Gattuso. E poi ciao, addio Italia di Lippi. Addio Lippi. Non ti criticheranno neppure oggi. Perché comunque rimarrai “Grazie Marcello” per sempre.
Fonte: Il Giornale del Popolo, 25/06/2010
Olanda-Camerun 2-1: le pagelle
La cronaca dell'incontro è disponibile sul blog Mondiali di calcio 2010
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 6.5. E’ l’uomo che fornisce maggior sicurezza al reparto arretrato. Mai un’indecisione, ed è sulla traiettoria anche del rigore (imprendibile) di Eto’o. Chi avrebbe immaginato questa solidità solamente un paio di stagioni fa?
Boulharouz 6. Preferito a Van der Wiel, si limita a fare ciò che è nelle sue corde, ovvero difendere. Il brillante esterno sinistro Bong non lo lascia inoperoso.
Heitinga 6. Il Camerun è offensivamente più vivo rispetto a Danimarca e Giappone, lui non si scompone e gioca la solita partita attenta.
Mathijsen 6. Lotta su ogni pallone, senza sbavature né meriti particolari.
Van Bronckhorst 6.5. Passo avanti rispetto alle ultime opache prestazioni. Finalmente sfrutta tutta la corsia sinistra, attaccando lo spazio e proponendosi per la sovrapposizione.
De Jong 6.5. Nonostante la stagione intensa con il Manchester City, appare uno dei giocatori più tonici di tutta la squadra. Sfiora anche il gol nella ripresa.
Van Bommel 7. Decine di palloni rubati, l’azione fatta ripartire sempre con lucidità. Attualmente nel suo ruolo ha pochi eguali.
Kuijt 7. Partita a tutto campo: sfiora il gol con un rasoterra dalla destra dell’area di rigore, e poco dopo lo si ritrova in copertura a dare man forte a Boulharouz. Il simbolo del giocatore al servizio della squadra.
(Elia 6. Le maglie larghe di un Camerun proteso in attacco nella ripresa rappresentavano il terreno ideale per le sue volate. Che invece sono arrivate con il contagocce).
Sneijder 6.5. Il Camerun gli concede maggiore libertà di movimento, lui e’ vivo e ispirato. Partita positiva anche senza palla, un paio di suoi inserimenti al centro non vengono premiati dai compagni, che lo ignorano (Van der Vaart) o non lo vedono (Van Persie).
Van der Vaart 6. La solita cronica tendenza ad accentrarsi ed a “rubare” lo spazio a Sneijder questa volta non inficia la sua prova. Pregevole l’assist per l’1-0 di Van Persie, ingenuo il fallo di mano del rigore.
(Robben 6.5. Non punta l’uomo, fisicamente sembra al 50%. Eppure nasce da lui la rete del raddoppio, grazie al suo ormai classico sinistro a giro che si stampa sul palo prima del tap-in di Huntelaar).
Van Persie 6.5. Netto miglioramento rispetto alle prime due uscite. Alcuni movimenti da prima punta devono ancora essere affinati, ma il feeling con i compagni è buono.
(Huntelaar 6. Gol facile facile, ma lui c’è, al posto giusto nel momento giusto).
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 6.5. E’ l’uomo che fornisce maggior sicurezza al reparto arretrato. Mai un’indecisione, ed è sulla traiettoria anche del rigore (imprendibile) di Eto’o. Chi avrebbe immaginato questa solidità solamente un paio di stagioni fa?
Boulharouz 6. Preferito a Van der Wiel, si limita a fare ciò che è nelle sue corde, ovvero difendere. Il brillante esterno sinistro Bong non lo lascia inoperoso.
Heitinga 6. Il Camerun è offensivamente più vivo rispetto a Danimarca e Giappone, lui non si scompone e gioca la solita partita attenta.
Mathijsen 6. Lotta su ogni pallone, senza sbavature né meriti particolari.
Van Bronckhorst 6.5. Passo avanti rispetto alle ultime opache prestazioni. Finalmente sfrutta tutta la corsia sinistra, attaccando lo spazio e proponendosi per la sovrapposizione.
De Jong 6.5. Nonostante la stagione intensa con il Manchester City, appare uno dei giocatori più tonici di tutta la squadra. Sfiora anche il gol nella ripresa.
Van Bommel 7. Decine di palloni rubati, l’azione fatta ripartire sempre con lucidità. Attualmente nel suo ruolo ha pochi eguali.
Kuijt 7. Partita a tutto campo: sfiora il gol con un rasoterra dalla destra dell’area di rigore, e poco dopo lo si ritrova in copertura a dare man forte a Boulharouz. Il simbolo del giocatore al servizio della squadra.
(Elia 6. Le maglie larghe di un Camerun proteso in attacco nella ripresa rappresentavano il terreno ideale per le sue volate. Che invece sono arrivate con il contagocce).
Sneijder 6.5. Il Camerun gli concede maggiore libertà di movimento, lui e’ vivo e ispirato. Partita positiva anche senza palla, un paio di suoi inserimenti al centro non vengono premiati dai compagni, che lo ignorano (Van der Vaart) o non lo vedono (Van Persie).
Van der Vaart 6. La solita cronica tendenza ad accentrarsi ed a “rubare” lo spazio a Sneijder questa volta non inficia la sua prova. Pregevole l’assist per l’1-0 di Van Persie, ingenuo il fallo di mano del rigore.
(Robben 6.5. Non punta l’uomo, fisicamente sembra al 50%. Eppure nasce da lui la rete del raddoppio, grazie al suo ormai classico sinistro a giro che si stampa sul palo prima del tap-in di Huntelaar).
Van Persie 6.5. Netto miglioramento rispetto alle prime due uscite. Alcuni movimenti da prima punta devono ancora essere affinati, ma il feeling con i compagni è buono.
(Huntelaar 6. Gol facile facile, ma lui c’è, al posto giusto nel momento giusto).
giovedì 24 giugno 2010
Dutch worry over dull Oranje displays
The sight of Holland playing unspectacular football, as they have for their first two World Cup games, is perhaps as strange as seeing snow fall on the Sahara desert. Despite qualifying for the last 16 with two wins and without conceding a single goal, there have been few reasons for the Dutch to cheer the quality of football they have seen.
Sections of Holland’s press are loading their guns, ready to fire in anger over this less exuberant approach, but coach Bert van Marwijk is spending little time worrying about these grumbles. “Two years ago I said Holland had to learn how to win ugly games”, said van Marwijk. “Now I could say we’ve taken a step forward. I’m more confident about our strength now.”
From total football to boring football, the Orange’s new style of play is seemingly trying to shed a reputation which has seen them labelled as a “pretty” side, but one which has not, in recent times, threatened to win a major tournament. Even when Holland were undisputedly the best team on show, as in the 1974 World Cup, they failed to take top honours.
Against Denmark and Japan, in their opening two games of this World Cup, Holland looked solid and the clean sheets garnered were welcome. Up front, however, none of their attacking weapons impressed and the Dutch are becoming increasingly vocal about the fact that this side misses the fluid passing moves which have always been their trademark.
Van Marwijk’s 4-2-3-1 system needs wingers on the flanks, but while Arjen Robben is still recovering from the hamstring injury he suffered in the pre-tournament friendly against Hungary, Eljero Elia and Ryan Babel – Robben’s natural replacements – have been confined to the bench. Elia and Babel have had to watch ‘fish out of water’ Rafael van der Vaart on the left and an exhausted Dirk Kuyt on the right, grab their spots. Central striker Robin van Persie has struggled to catch fire too.
Another problem the coach must face is the lack of ideas within the side. Creative midfielder Wesley Sneijder has shown only glimpses of his extraordinary footballing brain, in part due to the ultra defensive approach taken by both Denmark and Japan, who deployed three men in the centre of midfield with a 4-5-1 system.
“There are countries here with nothing to lose”, bemoaned an exasperated Kuyt. “They play the matches of their lives to show off their play on the biggest stage and their main aim is a goalless draw.”
The Dutch have though, grabbed two wins from two, down to a Daniel Agger own goal and a mistake by Japanese keeper Eiji Kawashima. “At this level it is extremely difficult to win a match in ten minutes”, said Van Marwijk. “We produced performances that were perhaps not as attractive as our previous games, but we took very few risks and didn’t concede almost any goalscoring chances to our opponents. The critics? Well, it’s impossible to have everyone on your side.”
Swapping good football for pragmatism to win matches seems to be Holland’s new philosophy. Van Marwijk had made a radical, if unpopular, choice, and the coach knows he cannot afford to fail. The land of total football will not quickly forgive him if he is seen to have wasted an abundance of talent in the search for glory that never arrives.
Fonte: Inside Futbol
Sections of Holland’s press are loading their guns, ready to fire in anger over this less exuberant approach, but coach Bert van Marwijk is spending little time worrying about these grumbles. “Two years ago I said Holland had to learn how to win ugly games”, said van Marwijk. “Now I could say we’ve taken a step forward. I’m more confident about our strength now.”
From total football to boring football, the Orange’s new style of play is seemingly trying to shed a reputation which has seen them labelled as a “pretty” side, but one which has not, in recent times, threatened to win a major tournament. Even when Holland were undisputedly the best team on show, as in the 1974 World Cup, they failed to take top honours.
Against Denmark and Japan, in their opening two games of this World Cup, Holland looked solid and the clean sheets garnered were welcome. Up front, however, none of their attacking weapons impressed and the Dutch are becoming increasingly vocal about the fact that this side misses the fluid passing moves which have always been their trademark.
Van Marwijk’s 4-2-3-1 system needs wingers on the flanks, but while Arjen Robben is still recovering from the hamstring injury he suffered in the pre-tournament friendly against Hungary, Eljero Elia and Ryan Babel – Robben’s natural replacements – have been confined to the bench. Elia and Babel have had to watch ‘fish out of water’ Rafael van der Vaart on the left and an exhausted Dirk Kuyt on the right, grab their spots. Central striker Robin van Persie has struggled to catch fire too.
Another problem the coach must face is the lack of ideas within the side. Creative midfielder Wesley Sneijder has shown only glimpses of his extraordinary footballing brain, in part due to the ultra defensive approach taken by both Denmark and Japan, who deployed three men in the centre of midfield with a 4-5-1 system.
“There are countries here with nothing to lose”, bemoaned an exasperated Kuyt. “They play the matches of their lives to show off their play on the biggest stage and their main aim is a goalless draw.”
The Dutch have though, grabbed two wins from two, down to a Daniel Agger own goal and a mistake by Japanese keeper Eiji Kawashima. “At this level it is extremely difficult to win a match in ten minutes”, said Van Marwijk. “We produced performances that were perhaps not as attractive as our previous games, but we took very few risks and didn’t concede almost any goalscoring chances to our opponents. The critics? Well, it’s impossible to have everyone on your side.”
Swapping good football for pragmatism to win matches seems to be Holland’s new philosophy. Van Marwijk had made a radical, if unpopular, choice, and the coach knows he cannot afford to fail. The land of total football will not quickly forgive him if he is seen to have wasted an abundance of talent in the search for glory that never arrives.
Fonte: Inside Futbol
domenica 20 giugno 2010
Preview Italia-Nuova Zelanda: Terry Maddaford
Adesso ci credono proprio. Da Christchurch a Wellington, mai come ora i neozelandesi si sono scoperti intimamente All Whites. I campioni del mondo non fanno paura. Non più. Il colpo di testa vincente di Reid contro la Slovacchia ha regalato alla Nuova Zelanda il suo primo punto in un mondiale e una solida certezza. “Siamo competitivi ai più alti livelli”. Così Terry Maddaford, giornalista sportivo del New Zealand Herald, ex addetto stampa della nazionale, una carriera trentennale dedicata al calcio nella terra dei kiwi. “La squadra ha imparato a gestire la pressione. Abbiamo superato il Bahrein ai play-off mondiali, quindi abbiamo battuto la Serbia, numero 15nel ranking FIFA, in amichevole. E’ cambiata la mentalità. Rispetto per l’avversario, ma nessun timore riverenziale. Anche contro i campioni del mondo”.
Un’Italia già affrontata e messa in difficoltà lo scorso anno.
Per tre volte andammo in vantaggio, prima di perdere 4-3. Ma eravamo privi di Ryan Nelsen, Winston Reid e Tommy Smith in difesa. Oggi il nostro reparto arretrato è decisamente più preparato. E dopo l’esperimento vincente della difesa a tre contro la Slovacchia, dove abbiamo subito un solo gol, peraltro in fuorigioco, coach Herbert confermerà il 3-4-3.
Il miglior attacco è la difesa?
Nel nostro caso assolutamente si. Ryan Nelsen, il nostro capitano, è fondamentale per noi tanto quanto Fabio Cannavaro lo è per l’Italia. Non è solo una questione di capacità atletiche o tecniche, ma di leadership. La mentalità è il grande punto di forza della Nuova Zelanda oggi. Solo quando i ragazzi smetteranno di credere che possono davvero stupire ancora, allora subentrerà il timore dell’avversario e tutti i difetti verranno a galla.
Da dove nasce tutto questo ottimismo?
Fino ad ora il Mondiale ha dimostrato che i cosiddetti underdogs, gli sfavoriti, sono in grado di dire la loro. Non esistono più partite facili, anche se da parte delle grandi squadre credo esisterà sempre un certo approccio più rilassato, dal punto di vista della concentrazione, a questo tipo di incontri. E’ un aspetto, quello della sottovalutazione, che dobbiamo sfruttare a nostro favore. L’altro elemento chiave sarà la freschezza atletica. La nostra è una selezione mediamente giovane, sicuramente più di quella dell’Italia. Corsa e fisicità dovranno aiutarci a colmare l’indiscutibile gap tecnico e di esperienza che ci separa dagli Azzurri.
In Italia si dice: attenzione a Shane Smeltz, il bomber delle qualificazioni.
Negli ultimi tempi Smeltz non sta segnando secondo le aspettative, anche se contro la Slovacchia ha rivestito un ruolo importante fornendo l’assist per il gol di Reid. In attacco lui, Chris Killen e Rory Fallon, nessuno dei tre alto meno di 1.85, possono garantire una forza d’urto notevole. Ma, lo ripeto, la Nuova Zelanda non sarebbe nemmeno in Sudafrica senza il suo capitano, Nelsen. Lui è un esempio per tutti.
Già da ora comunque l’esperienza della Nuova Zelanda è più positiva rispetto a Spagna ’82.
La nazionale del 1982 era composta pressoché esclusivamente da dilettanti. Ad eccezione del giovane Wynton Rufer, che giocava in Europa, tutti avevano un altro lavoro e il calcio era solo una passione part-time. Oggi nella rosa abbiamo elementi che giocano in Europa, nella A-League australiana e negli Stati Uniti. La qualità è indubbiamente diversa.
Firmerebbe per un pareggio?
No. E voi?
Un’Italia già affrontata e messa in difficoltà lo scorso anno.
Per tre volte andammo in vantaggio, prima di perdere 4-3. Ma eravamo privi di Ryan Nelsen, Winston Reid e Tommy Smith in difesa. Oggi il nostro reparto arretrato è decisamente più preparato. E dopo l’esperimento vincente della difesa a tre contro la Slovacchia, dove abbiamo subito un solo gol, peraltro in fuorigioco, coach Herbert confermerà il 3-4-3.
Il miglior attacco è la difesa?
Nel nostro caso assolutamente si. Ryan Nelsen, il nostro capitano, è fondamentale per noi tanto quanto Fabio Cannavaro lo è per l’Italia. Non è solo una questione di capacità atletiche o tecniche, ma di leadership. La mentalità è il grande punto di forza della Nuova Zelanda oggi. Solo quando i ragazzi smetteranno di credere che possono davvero stupire ancora, allora subentrerà il timore dell’avversario e tutti i difetti verranno a galla.
Da dove nasce tutto questo ottimismo?
Fino ad ora il Mondiale ha dimostrato che i cosiddetti underdogs, gli sfavoriti, sono in grado di dire la loro. Non esistono più partite facili, anche se da parte delle grandi squadre credo esisterà sempre un certo approccio più rilassato, dal punto di vista della concentrazione, a questo tipo di incontri. E’ un aspetto, quello della sottovalutazione, che dobbiamo sfruttare a nostro favore. L’altro elemento chiave sarà la freschezza atletica. La nostra è una selezione mediamente giovane, sicuramente più di quella dell’Italia. Corsa e fisicità dovranno aiutarci a colmare l’indiscutibile gap tecnico e di esperienza che ci separa dagli Azzurri.
In Italia si dice: attenzione a Shane Smeltz, il bomber delle qualificazioni.
Negli ultimi tempi Smeltz non sta segnando secondo le aspettative, anche se contro la Slovacchia ha rivestito un ruolo importante fornendo l’assist per il gol di Reid. In attacco lui, Chris Killen e Rory Fallon, nessuno dei tre alto meno di 1.85, possono garantire una forza d’urto notevole. Ma, lo ripeto, la Nuova Zelanda non sarebbe nemmeno in Sudafrica senza il suo capitano, Nelsen. Lui è un esempio per tutti.
Già da ora comunque l’esperienza della Nuova Zelanda è più positiva rispetto a Spagna ’82.
La nazionale del 1982 era composta pressoché esclusivamente da dilettanti. Ad eccezione del giovane Wynton Rufer, che giocava in Europa, tutti avevano un altro lavoro e il calcio era solo una passione part-time. Oggi nella rosa abbiamo elementi che giocano in Europa, nella A-League australiana e negli Stati Uniti. La qualità è indubbiamente diversa.
Firmerebbe per un pareggio?
No. E voi?
sabato 19 giugno 2010
Olanda-Giappone 1-0: le pagelle
La cronaca dell'incontro è disponibile sul blog Mondiali di calcio 2010
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 6 – Ordinaria amministrazione, nulla più. Il più pericoloso dei nipponici, Okubo, non riesce mai a centrare la porta.
Van der Wiel 6 – Partita attenta su Okubo, un paio di scorribande offensive senza particolare effetto. Continua a non essere il valore aggiunto che ci si aspettava..
Heitinga 6 – Pomeriggio di relax grazie all’atteggiamento ultra-difensivo del Giappone. Pochissimi interventi, da rivedere contro attaccanti veri (Honda, l’uomo più avanzato del Giappone, è un trequartista, non una punta).
Mathijsen 6 - vedi Heitinga.
Van Bronckhorst 5.5 – Potrebbe spingere sulla sinistra, dove l’Olanda non sfonda a causa del nulla proposto da Van der Vaart. Invece rimane bloccato, segnalandosi per qualche errore di troppo in fase di appoggio.
Nigel de Jong 6 – Sbuffa e lotta nel cuore della mediana. Non tocca certo a lui accendere la scintilla.
Van Bommel 6.5 – Il comandante è l’unico nel primo tempo a segnalarsi per dinamismo. Non è un fine dicitore, ma in interdizione conosce pochi eguali. Avesse anche senso geometrico sarebbe un fuoriclasse.
Kuijt 5.5 – La solita generosità questa volta non basta. In attacco non combina nulla, penalizzato dalla lentezza della manovra olandese. Servirebbe di più a centro area dove Van Persie di testa ne prende davvero poche.
Sneijder 6 – Sufficienza stiracchiata grazie al gol che decide l’incontro, pur con la generosa collaborazione di Kawashima. I giapponesi non lo lasciano respirare, e lui può fare poco se i compagni senza palla non sono reattivi.
(Afellay 6 – Due occasioni solo davanti al portiere, le spreca calciandogli addosso. Ma almeno è tonico e si propone nello spazio).
Van der Vaart 4 – Fuori ruolo, lo abbiamo detto anche l’altra volta, e completamente fuori partita. Il nulla assoluto. Con Sneijder c’è incomunicabilità. A questo punto diventa difficilmente comprensibile l’ostinazione di Van Marwijk nel puntare su di lui.
(Elia 5.5 – Questa volta non lascia il segno, segnalandosi solo per un paio di falli)
Van Persie 5 – Ancora male. Il movimento arriva sempre con un attimo di ritardo, non riesce a far salire la squadra, non tira in porta. Per ora è la delusione oranje più grande assieme a Van der Vaart, che però è ultrarecidivo.
(Huntelaar sv).
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 6 – Ordinaria amministrazione, nulla più. Il più pericoloso dei nipponici, Okubo, non riesce mai a centrare la porta.
Van der Wiel 6 – Partita attenta su Okubo, un paio di scorribande offensive senza particolare effetto. Continua a non essere il valore aggiunto che ci si aspettava..
Heitinga 6 – Pomeriggio di relax grazie all’atteggiamento ultra-difensivo del Giappone. Pochissimi interventi, da rivedere contro attaccanti veri (Honda, l’uomo più avanzato del Giappone, è un trequartista, non una punta).
Mathijsen 6 - vedi Heitinga.
Van Bronckhorst 5.5 – Potrebbe spingere sulla sinistra, dove l’Olanda non sfonda a causa del nulla proposto da Van der Vaart. Invece rimane bloccato, segnalandosi per qualche errore di troppo in fase di appoggio.
Nigel de Jong 6 – Sbuffa e lotta nel cuore della mediana. Non tocca certo a lui accendere la scintilla.
Van Bommel 6.5 – Il comandante è l’unico nel primo tempo a segnalarsi per dinamismo. Non è un fine dicitore, ma in interdizione conosce pochi eguali. Avesse anche senso geometrico sarebbe un fuoriclasse.
Kuijt 5.5 – La solita generosità questa volta non basta. In attacco non combina nulla, penalizzato dalla lentezza della manovra olandese. Servirebbe di più a centro area dove Van Persie di testa ne prende davvero poche.
Sneijder 6 – Sufficienza stiracchiata grazie al gol che decide l’incontro, pur con la generosa collaborazione di Kawashima. I giapponesi non lo lasciano respirare, e lui può fare poco se i compagni senza palla non sono reattivi.
(Afellay 6 – Due occasioni solo davanti al portiere, le spreca calciandogli addosso. Ma almeno è tonico e si propone nello spazio).
Van der Vaart 4 – Fuori ruolo, lo abbiamo detto anche l’altra volta, e completamente fuori partita. Il nulla assoluto. Con Sneijder c’è incomunicabilità. A questo punto diventa difficilmente comprensibile l’ostinazione di Van Marwijk nel puntare su di lui.
(Elia 5.5 – Questa volta non lascia il segno, segnalandosi solo per un paio di falli)
Van Persie 5 – Ancora male. Il movimento arriva sempre con un attimo di ritardo, non riesce a far salire la squadra, non tira in porta. Per ora è la delusione oranje più grande assieme a Van der Vaart, che però è ultrarecidivo.
(Huntelaar sv).
mercoledì 16 giugno 2010
Svizzera: il compitino e nulla più
Con la loro mania delle classifiche, gli inglesi sono riusciti ad irritare anche gli svizzeri. La pietra dello scandalo è stato un articolo pubblicato dal Daily Mail, in cui il quotidiano si divertiva a paragonare le 32 squadre mondiali ad un animale della savana. Agli elvetici è toccato l’Okapi, perché “nessuno ha idea di cosa ci facciano in Sudafrica”. Le repliche, piccate, non si sono fatte attendere, regalando un pizzico di pepe alla vigilia. Di pepe ne avrebbe invece bisogno la squadra di Ottmar Hitzfeld, talvolta un po’ troppo sugli allori a causa di giocatori che si limitano a svolgere il proprio compitino e nulla più. La Nati paga la mancanza di un fuoriclasse o di un leader carismatico capace di trascinare i compagni; non lo è Tranquillo Barnetta, l’elemento più dotato della selezione, né tantomeno Hakan Yakin, l’uomo di maggior fantasia, pur se a ritmi da moviola.
Negli ultimi quattro anni la Svizzera, fortissima a livello giovanile (vedi il Mondiale under 17 vinto lo scorso autunno), non è mai stata capace di rendere secondo le aspettative. Nel 2006 in Germania si è arresa agli ottavi di finale ai rigori contro un avversario, l’Ucraina, ampiamente alla portata, tornando a casa con il poco invidiabile record di essere stata eliminata senza aver subito un solo gol. Due anni dopo invece è stato un difetto nel timone, affidato all’ormai logoro ct Jakob Kuhn, a far sprecare ai rossocrociati la chance di un Europeo disputato tra le mura amiche.
Spesso priva di nerbo, la Svizzera sembra aver bisogno di una forte scossa per iniziare a carburare. Così è stato durante le qualificazioni, dove l’umiliante sconfitta casalinga contro il Lussemburgo ha fatto scattare la molla in Barnetta e compagni, alla fine vincitori del girone davanti alla Grecia, battuta due volte. La stagionata coppia d’attacco Nkufo-Frei, 65 anni in due, ha ricoperto un ruolo fondamentale nel viaggio verso il Sud Africa con 5 reti a testa. Buone nuove per il reparto avanzato elvetico sono però arrivate dalla Bundesliga, dove il giovane Eren Derdiyok si è dimostrato, con la maglia del Bayer Leverkusen, attaccante di valore. Decisamente maturato rispetto agli esordi nel Basilea, Derdiyok rappresenta per Hitzfeld una risorsa decisamente più importante di Albert Bunjaku, un'incognita in campo internazionale.
La Svizzera si schiera con il classico 4-4-2. In difesa le maggiori garanzie le offre Diego Benaglio, miglior portiere della Bundesliga 2008, campione di Germania 2009 con il Wolfsburg, più altalenante nell’attuale stagione. Ma con i colleghi Marco Wölfli e Johnny Leoni non c’è gara, specialmente per quanto riguarda l’esperienza internazionale. Il reparto arretrato appare vulnerabile soprattutto contro le squadre che prediligono i ritmi alti. I diligenti soldatini Lichtsteiner e Spycher sulle fasce, e la coppia centrale Grichting-Senderos, quest’ultimo in lieve ripresa rispetto all’annata-no nel Milan, non offrono particolari garanzie.
La mediana è solida (Inler, Huggel) ma poco creativa. In fase di costruzione sarà importante la qualità del già citato Barnetta e la vitalità di Valon Behrami, ben più efficaci di Gelson Fernandes, fin qui copia sbiadita di Vogel (avessi detto…) piuttosto che “il miglior giovane del calcio svizzero”, come incautamente dichiarato da Sven Goran Eriksson ai tempi del Manchester City. Il gioco troppo macchinoso è un problema serio per Hitzfeld; escluse le amichevoli pre-mondiali di giugno, negli ultimi otto mesi la Svizzera ha trovato la via del gol solamente su calcio piazzato. Urge una nuova scossa. Chissà se quella del Daily Mail sarà stata sufficiente.
Fonte: Guerin Sportivo
Negli ultimi quattro anni la Svizzera, fortissima a livello giovanile (vedi il Mondiale under 17 vinto lo scorso autunno), non è mai stata capace di rendere secondo le aspettative. Nel 2006 in Germania si è arresa agli ottavi di finale ai rigori contro un avversario, l’Ucraina, ampiamente alla portata, tornando a casa con il poco invidiabile record di essere stata eliminata senza aver subito un solo gol. Due anni dopo invece è stato un difetto nel timone, affidato all’ormai logoro ct Jakob Kuhn, a far sprecare ai rossocrociati la chance di un Europeo disputato tra le mura amiche.
Spesso priva di nerbo, la Svizzera sembra aver bisogno di una forte scossa per iniziare a carburare. Così è stato durante le qualificazioni, dove l’umiliante sconfitta casalinga contro il Lussemburgo ha fatto scattare la molla in Barnetta e compagni, alla fine vincitori del girone davanti alla Grecia, battuta due volte. La stagionata coppia d’attacco Nkufo-Frei, 65 anni in due, ha ricoperto un ruolo fondamentale nel viaggio verso il Sud Africa con 5 reti a testa. Buone nuove per il reparto avanzato elvetico sono però arrivate dalla Bundesliga, dove il giovane Eren Derdiyok si è dimostrato, con la maglia del Bayer Leverkusen, attaccante di valore. Decisamente maturato rispetto agli esordi nel Basilea, Derdiyok rappresenta per Hitzfeld una risorsa decisamente più importante di Albert Bunjaku, un'incognita in campo internazionale.
La Svizzera si schiera con il classico 4-4-2. In difesa le maggiori garanzie le offre Diego Benaglio, miglior portiere della Bundesliga 2008, campione di Germania 2009 con il Wolfsburg, più altalenante nell’attuale stagione. Ma con i colleghi Marco Wölfli e Johnny Leoni non c’è gara, specialmente per quanto riguarda l’esperienza internazionale. Il reparto arretrato appare vulnerabile soprattutto contro le squadre che prediligono i ritmi alti. I diligenti soldatini Lichtsteiner e Spycher sulle fasce, e la coppia centrale Grichting-Senderos, quest’ultimo in lieve ripresa rispetto all’annata-no nel Milan, non offrono particolari garanzie.
La mediana è solida (Inler, Huggel) ma poco creativa. In fase di costruzione sarà importante la qualità del già citato Barnetta e la vitalità di Valon Behrami, ben più efficaci di Gelson Fernandes, fin qui copia sbiadita di Vogel (avessi detto…) piuttosto che “il miglior giovane del calcio svizzero”, come incautamente dichiarato da Sven Goran Eriksson ai tempi del Manchester City. Il gioco troppo macchinoso è un problema serio per Hitzfeld; escluse le amichevoli pre-mondiali di giugno, negli ultimi otto mesi la Svizzera ha trovato la via del gol solamente su calcio piazzato. Urge una nuova scossa. Chissà se quella del Daily Mail sarà stata sufficiente.
Fonte: Guerin Sportivo
martedì 15 giugno 2010
Mistero poco buffo
Eccoli di nuovo, trentaquattro anni dopo. Dal finto dentista Doo-Ik Pak al “Rooney d’Asia” Tae-Se Jong. Il primo giustiziò l’Italia, il secondo proverà a ripetere l’impresa nientemeno che contro il Brasile. Cambiano gli interpreti, non il contesto. La Corea del Nord, ovvero lo stato più isolato del mondo. La nazionale nordcoreana, Chollima il suo soprannome, il grande mistero di questo Mondiale. Non sono più la “squadra di ridolini” (copyright Ferruccio Valcareggi) del 1966, ma della selezione attualmente guidata da Jong-Hun Kim si continua a sapere poco. E spesso quel poco sconfina nell’assurdo, in perfetta linea con una paese ai confini della realtà dove gli anni sono contati a partire dal concepimento del padre della nazione Kim Il-Sung, la domenica non circola nessun veicolo, la notte non c’è illuminazione, i telefoni cellulari vengono confiscati ai turisti all’aeroporto e restituiti all’uscita dal paese, la metropolitana è sepolta a 90 metri di profondità e funge da rifugio antiatomico, il sistema pubblico di distribuzione delle derrate alimentari è basato sulla fedeltà del singolo cittadino al regime e l’esercito è il quarto al mondo per armamenti, incluse quattromila tonnellate di armi biochimiche.
Una realtà di orwelliana memoria alla quale il calcio non può rimanere immune.
La Corea del Nord si è qualificata ai Mondiali mettendo in mostra un calcio ultra-difensivo basato su ferrea disciplina tattica e una resistenza fisica pressoché inesauribile. In campo, tante piccole formichine apparentemente dotate di un polmone supplementare, per una sorta di versione grezza dei nemici storici sudcoreani, il cui calcio si fonda sulle medesime caratteristiche di base, pur se sviluppate in maniera molto più offensiva. Intervistato dalla stampa, il portiere Myong-Guk Ri ha commentato così il miracolo della Corea del Nord: “Il nostro giocatore più importante è stato il Caro Leader Kim Jong-Il (l’attuale capo del paese, nda), che ha messo paura ai nostri avversari e ci ha infuso lo spirito giusto per formare una difesa forte quanto dieci milioni di uomini”.
Intanto in Sudafrica, alla luce del divieto pressoché totale per i nordcoreani di lasciare il proprio paese, sbarcheranno mille cinesi che il governo di Pyongyang ha “affittato”, pagandoli per tifare la Corea del Nord durante la competizione. Sicuramente la nazionale riceverà dal paese organizzatore un trattamento migliore di quanto fatto dall’Inghilterra nel 1966, quando vennero proibiti gli inni prima delle partite per evitare di suonare quello nordcoreano, la bandiera della Repubblica Popolare Democratica di Corea fu cancellata dal francobollo ufficiale dei Mondiali e la squadra venne spedito il più possibile lontano da Londra, nella città industriale di Middlesborough, estremo nord del paese.
Eppure anche un cittadino nordcoreano può essere libero. A patto però che non risieda nella terra del Caro Leader. E’ la storia del talentuoso Tae-Se Jong, uno dei pochissimi elementi della squadra a giocare all’estero, in Giappone nel Kawasaki Frontale. Nato nel Sol Levante da genitori coreani, Jong non ha mai vissuto in Corea del Nord. Gestisce un blog personale, canta pop song nei karaoke bar, è comparso in uno spot accanto al giocatore coreano più famoso al mondo, il centrocampista del Manchester United Ji-Sung Park. Soprattutto però Jong segna a raffica in nazionale: 15 gol in 22 partite. Forse è proprio per questo motivo che, nonostante i suoi comportamenti sono stati definiti “non rappresentativi dello stile e dell’indole del popolo nordcoreano”, a Pyongyang qualcuno ha deciso di chiudere un occhio.
Una realtà di orwelliana memoria alla quale il calcio non può rimanere immune.
La Corea del Nord si è qualificata ai Mondiali mettendo in mostra un calcio ultra-difensivo basato su ferrea disciplina tattica e una resistenza fisica pressoché inesauribile. In campo, tante piccole formichine apparentemente dotate di un polmone supplementare, per una sorta di versione grezza dei nemici storici sudcoreani, il cui calcio si fonda sulle medesime caratteristiche di base, pur se sviluppate in maniera molto più offensiva. Intervistato dalla stampa, il portiere Myong-Guk Ri ha commentato così il miracolo della Corea del Nord: “Il nostro giocatore più importante è stato il Caro Leader Kim Jong-Il (l’attuale capo del paese, nda), che ha messo paura ai nostri avversari e ci ha infuso lo spirito giusto per formare una difesa forte quanto dieci milioni di uomini”.
Intanto in Sudafrica, alla luce del divieto pressoché totale per i nordcoreani di lasciare il proprio paese, sbarcheranno mille cinesi che il governo di Pyongyang ha “affittato”, pagandoli per tifare la Corea del Nord durante la competizione. Sicuramente la nazionale riceverà dal paese organizzatore un trattamento migliore di quanto fatto dall’Inghilterra nel 1966, quando vennero proibiti gli inni prima delle partite per evitare di suonare quello nordcoreano, la bandiera della Repubblica Popolare Democratica di Corea fu cancellata dal francobollo ufficiale dei Mondiali e la squadra venne spedito il più possibile lontano da Londra, nella città industriale di Middlesborough, estremo nord del paese.
Eppure anche un cittadino nordcoreano può essere libero. A patto però che non risieda nella terra del Caro Leader. E’ la storia del talentuoso Tae-Se Jong, uno dei pochissimi elementi della squadra a giocare all’estero, in Giappone nel Kawasaki Frontale. Nato nel Sol Levante da genitori coreani, Jong non ha mai vissuto in Corea del Nord. Gestisce un blog personale, canta pop song nei karaoke bar, è comparso in uno spot accanto al giocatore coreano più famoso al mondo, il centrocampista del Manchester United Ji-Sung Park. Soprattutto però Jong segna a raffica in nazionale: 15 gol in 22 partite. Forse è proprio per questo motivo che, nonostante i suoi comportamenti sono stati definiti “non rappresentativi dello stile e dell’indole del popolo nordcoreano”, a Pyongyang qualcuno ha deciso di chiudere un occhio.
lunedì 14 giugno 2010
Olanda-Danimarca 2-0: le pagelle
La cronaca dell'incontro è disponibile sul blog Mondiali di calcio 2010
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 6 - Sicuro nel primo tempo quando viene chiamato in causa (su Rommedahl copre bene lo specchio, poi il danese calcia forte ma centrale), praticamente disoccupato nella ripresa.
Van der Wiel 5 - Bloccato sulla destra, non si sovrappone a Kuijt né aggredisce lo spazio. In questo modo non offre niente di più rispetto a Boulharouz.
Heitinga 5.5 - Le poche volte che la Danimarca cerca di affondare, la retroguardia oranje va in difficoltà. Bendtner gli sfugge un paio di volte.
Mathijsen 5.5 - vedi Heitinga. Nel primo tempo nessuno dei due centrali regala sicurezza al reparto, poi i danesi smettono di attaccare. Da rivedere contro avversari con più idee davanti.
Van Bronckhorst 5.5 - Con Van der Vaart fuori ruolo largo a sinistra, ci si aspetterebbe di vedere qualche discesa delle sue. Invece rimane a coltivare il suo orto, preoccupato da Rommedahl.
Nigel de Jong 6 - Sufficienza stiracchiata, offre un contributo puramente quantitativo alla squadra.
(De Zeeuw sv)
Van Bommel 6.5 - Gioca con più personalità rispetto al compagno di reparto De Jong, si propone anche in fase di costruzione. Annulla senza particolari problemi Jørgensen.
Kuijt 6.5 - Scolastico nel primo tempo, ma non tocca a lui accendere la luce in avanti. Il gol, facile facile, premia il consueto spirito di sacrificio misurabile nella quantità di chilometri macinati.
Sneijder 5 - Nelle ultime settimane ha alzato parecchio la cresta. Lo si vede in avvio, con un atteggiamento da primo della classe. Le ringhiate di Christian Poulsen lo riconducono alla realtà, facendolo girare lontano dalla trequarti. Avvia l’azione del secondo gol e si evita un debutto da 4.
Van der Vaart 5.5 – Fuori ruolo, un doppione di Sneijder (che spesso ignora) confinato sulla sinistra. Tende continuamente ad accentrarsi, finendo nell’imbuto danese. Un paio di tocchi pregevoli, ma da lui ci si aspetta ben altro.
(Elia 6.5 - Entra, punta l’uomo, crea la superiorità numerica sulla sinistra, poi propizia il raddoppio con un tiro sul palo. Fa insomma tutto ciò che dovrebbe fare un’attaccante esterno. Van Marwijk avrà preso nota?)
Van Persie 5 - Tra i più in forma nel pre-Mondiale, è stranamente poco tonico e ancora meno reattivo. Tiri fiacchi o sballati. Un bel mistero.
(Afellay 6 - Si posiziona sul centro destra con Kuijt prima punta, sfiora la rete del 3-0, appare volitivo).
Olanda (4-2-3-1)
Stekelenburg 6 - Sicuro nel primo tempo quando viene chiamato in causa (su Rommedahl copre bene lo specchio, poi il danese calcia forte ma centrale), praticamente disoccupato nella ripresa.
Van der Wiel 5 - Bloccato sulla destra, non si sovrappone a Kuijt né aggredisce lo spazio. In questo modo non offre niente di più rispetto a Boulharouz.
Heitinga 5.5 - Le poche volte che la Danimarca cerca di affondare, la retroguardia oranje va in difficoltà. Bendtner gli sfugge un paio di volte.
Mathijsen 5.5 - vedi Heitinga. Nel primo tempo nessuno dei due centrali regala sicurezza al reparto, poi i danesi smettono di attaccare. Da rivedere contro avversari con più idee davanti.
Van Bronckhorst 5.5 - Con Van der Vaart fuori ruolo largo a sinistra, ci si aspetterebbe di vedere qualche discesa delle sue. Invece rimane a coltivare il suo orto, preoccupato da Rommedahl.
Nigel de Jong 6 - Sufficienza stiracchiata, offre un contributo puramente quantitativo alla squadra.
(De Zeeuw sv)
Van Bommel 6.5 - Gioca con più personalità rispetto al compagno di reparto De Jong, si propone anche in fase di costruzione. Annulla senza particolari problemi Jørgensen.
Kuijt 6.5 - Scolastico nel primo tempo, ma non tocca a lui accendere la luce in avanti. Il gol, facile facile, premia il consueto spirito di sacrificio misurabile nella quantità di chilometri macinati.
Sneijder 5 - Nelle ultime settimane ha alzato parecchio la cresta. Lo si vede in avvio, con un atteggiamento da primo della classe. Le ringhiate di Christian Poulsen lo riconducono alla realtà, facendolo girare lontano dalla trequarti. Avvia l’azione del secondo gol e si evita un debutto da 4.
Van der Vaart 5.5 – Fuori ruolo, un doppione di Sneijder (che spesso ignora) confinato sulla sinistra. Tende continuamente ad accentrarsi, finendo nell’imbuto danese. Un paio di tocchi pregevoli, ma da lui ci si aspetta ben altro.
(Elia 6.5 - Entra, punta l’uomo, crea la superiorità numerica sulla sinistra, poi propizia il raddoppio con un tiro sul palo. Fa insomma tutto ciò che dovrebbe fare un’attaccante esterno. Van Marwijk avrà preso nota?)
Van Persie 5 - Tra i più in forma nel pre-Mondiale, è stranamente poco tonico e ancora meno reattivo. Tiri fiacchi o sballati. Un bel mistero.
(Afellay 6 - Si posiziona sul centro destra con Kuijt prima punta, sfiora la rete del 3-0, appare volitivo).
Danimarca: esame di maturità
Loro hanno Ibrahimovic, noi una squadra. Questo in estrema sintesi era il pensiero di una legittimamente soddisfatta stampa danese all’indomani della qualificazione in Sud Africa colta dalla loro nazionale proprio a scapito dei vicini di casa della Svezia. Senza dimenticare il Portogallo di Cristiano Ronaldo costretto a play-off. Danimarca, ovvero il fascino dell’età matura. Basta dare un’occhiata ai nomi, noti ormai da tempo sul palcoscenico del calcio internazionale: Jon Dahl Tomasson, Dennis Rommedahl, Thomas Sørensen, Christian Poulsen, Jesper Grønkjær, Martin Jørgensen. Gli stessi soggetti criticati in patria due anni fa per la mancata qualificazione a Euro 2008, in quanto accusati di scarso rendimento rispetto a quello offerto con i rispettivi club, costituiscono oggi buona parte delle struttura portante della selezione guidata dal tecnico Morten Olsen. Un altro che, in tema di esperienza, ha ben poco da invidiare a chicchessia.
Sarebbe però ingeneroso, oltre che fuorviante, catalogare la Danimarca come una compagine di dinosauri ormai prossimi all’estinzione. Tomasson è reduce da un discreto campionato con il Feyenoord dove, in qualità di numero 10 o di punta centrale, ha mostrato buona tenuta fisica, chiudendo oltretutto in doppia cifra; Rommedahl nell’Ajax, favorito dall’impiego part-time, si è segnalato come giocatore tutt’altro che in riserva di benzina; stesso discorso per Grønkjær, bicampione di Danimarca con il Køpenhagen; infine il tanto vituperato (in Italia) Christian Poulsen può tornare ad agire nel suo ambiente naturale, davanti alla difesa, dopo le tribolazioni e le incomprensioni juventine. Nella diga delle mediana farà coppia con l’omonimo Jakob, centrocampista di sostanza dell’Aarhus, fallimentare nella sua unica esperienza all’estero (in Olanda nell’Heerenveen), ma diventato uno dei cardini della nazionale una volta tornato in patria.
Non c’è però solo esperienza nella squadra scandinava. In difesa la coppia di centrali formata da Simon Kjær e Daniel Agger è una tra le meglio assortite di tutto il torneo, con il “palermitano” in crescita sempre costante, anche dal punto di vista della personalità, ed Agger tra i pochi a salvarsi nella tribolata stagione del Liverpool. I fari però sono tutti puntati su Niklas Bendtner, croce e delizia del reparto offensivo dell’Arsenal. Bomber stagionale di Champions dei Gunners, mai in doppia cifra in tre stagioni di Premier League, il 22enne attaccante ha finora sempre convinto di più con la maglia della Danimarca (3 reti nelle qualificazioni, 2 delle quali al Portogallo) che non con quella del club inglese. Le ragioni sono anche di natura tattica: l’approccio alla palla piuttosto grezzo lo rende infatti più efficace in qualità di boa che agisce da sponda nel 4-2-3-1 predisposto dal ct Olsen (con Tomasson alle spalle, Rommedahl ala destra e uno tra Grønkjær e il recuperato Thomas Kahlenberg a sinistra), rispetto al gioco palla a terra e al fraseggio veloce che rappresenta il marchio di fabbrica dell’Arsenal di Wenger.
Il 18enne Christian Eriksen, numero 10 a cui sono bastati 424 minuti disputati nell’Ajax per guadagnarsi il debutto nella nazionale maggiore, potrebbe rappresentare l’arma a sorpresa di Olsen, specialmente a partita in corso. Vecchio saggio del calcio danese, il ct viene ricordato per il campionato olandese vinto nel 1998 schierando un Ajax iper-offensivo come nemmeno il suo predecessore, Louis van Gaal. Oggi però lo stesso Olsen ammette che “nel calcio moderno la chiave di volta è la flessibilità”. Ecco pertanto spiegato il motivo dell’abbandono del 4-3-3 a favore del 4-2-3-1. “L’importante è che tutti i miei uomini rendano al loro massimo. Solo così potremmo sopravvivere al Mondiale”. Anche senza un Ibrahimovic danese.
Fonte: Guerin Sportivo
Sarebbe però ingeneroso, oltre che fuorviante, catalogare la Danimarca come una compagine di dinosauri ormai prossimi all’estinzione. Tomasson è reduce da un discreto campionato con il Feyenoord dove, in qualità di numero 10 o di punta centrale, ha mostrato buona tenuta fisica, chiudendo oltretutto in doppia cifra; Rommedahl nell’Ajax, favorito dall’impiego part-time, si è segnalato come giocatore tutt’altro che in riserva di benzina; stesso discorso per Grønkjær, bicampione di Danimarca con il Køpenhagen; infine il tanto vituperato (in Italia) Christian Poulsen può tornare ad agire nel suo ambiente naturale, davanti alla difesa, dopo le tribolazioni e le incomprensioni juventine. Nella diga delle mediana farà coppia con l’omonimo Jakob, centrocampista di sostanza dell’Aarhus, fallimentare nella sua unica esperienza all’estero (in Olanda nell’Heerenveen), ma diventato uno dei cardini della nazionale una volta tornato in patria.
Non c’è però solo esperienza nella squadra scandinava. In difesa la coppia di centrali formata da Simon Kjær e Daniel Agger è una tra le meglio assortite di tutto il torneo, con il “palermitano” in crescita sempre costante, anche dal punto di vista della personalità, ed Agger tra i pochi a salvarsi nella tribolata stagione del Liverpool. I fari però sono tutti puntati su Niklas Bendtner, croce e delizia del reparto offensivo dell’Arsenal. Bomber stagionale di Champions dei Gunners, mai in doppia cifra in tre stagioni di Premier League, il 22enne attaccante ha finora sempre convinto di più con la maglia della Danimarca (3 reti nelle qualificazioni, 2 delle quali al Portogallo) che non con quella del club inglese. Le ragioni sono anche di natura tattica: l’approccio alla palla piuttosto grezzo lo rende infatti più efficace in qualità di boa che agisce da sponda nel 4-2-3-1 predisposto dal ct Olsen (con Tomasson alle spalle, Rommedahl ala destra e uno tra Grønkjær e il recuperato Thomas Kahlenberg a sinistra), rispetto al gioco palla a terra e al fraseggio veloce che rappresenta il marchio di fabbrica dell’Arsenal di Wenger.
Il 18enne Christian Eriksen, numero 10 a cui sono bastati 424 minuti disputati nell’Ajax per guadagnarsi il debutto nella nazionale maggiore, potrebbe rappresentare l’arma a sorpresa di Olsen, specialmente a partita in corso. Vecchio saggio del calcio danese, il ct viene ricordato per il campionato olandese vinto nel 1998 schierando un Ajax iper-offensivo come nemmeno il suo predecessore, Louis van Gaal. Oggi però lo stesso Olsen ammette che “nel calcio moderno la chiave di volta è la flessibilità”. Ecco pertanto spiegato il motivo dell’abbandono del 4-3-3 a favore del 4-2-3-1. “L’importante è che tutti i miei uomini rendano al loro massimo. Solo così potremmo sopravvivere al Mondiale”. Anche senza un Ibrahimovic danese.
Fonte: Guerin Sportivo
domenica 13 giugno 2010
Shane Smeltz e la Nuova Zelanda
Calcisticamente parlando, gli italiani sono maestri in tante cose. Nel vincere i Mondiali, ad esempio, ma anche nel creare fenomeni di carta da agitare come spauracchio alla vigilia di ogni grande kermesse internazionale. Molti ricordano alla vigilia di Giappone/Corea 2002 il terzino destro dell’Ecuador Ulises De La Cruz, dipinto come una versione potenziata di Cafu. Oppure l’attaccante norvegese Tore Andre Flo a Francia 98, apparentemente un incrocio da Van Basten e Rummenigge, tanto da meritarsi (ma solo in Italia) il soprannome di “Flonaldo”. Oggi sembra essere arrivato il turno di Shane Smeltz, l’elemento di spicco della Nuova Zelanda che affronterà gli Azzurri il prossimo 20 giugno. Uno status che l’attaccante degli All Whites ha raggiunto dopo aver mandato ko la Serbia in un’amichevole disputata lo scorso 29 maggio. Anche la Nuova Zelanda insomma fa paura. Ma forse si sta esagerando un poco.
Il miglior giocatore dei Kiwi, alla seconda partecipazione alla fase finale di un Mondiale dopo Spagna 1982, è un attaccante che in Inghilterra non è riuscito ad andare oltre la Football League Two, ovvero la quarta divisione. Si chiama Shane Smeltz, un ragazzone di un metro e 85 nato a Göppingen, in Germania, e da un paio d’anni il bomber più temuto di tutta l’Oceania. In Europa Smeltz ha vissuto la sua stagione migliore quattro anni fa nell’AFC Wimbledon, dove ha chiuso l’annata da capocannoniere con 26 gol. Piccola ma doverosa precisazione: la squadra militava nella Isthmian League Premier Division, vale a dire il settimo livello del calcio inglese. Tornato nell’emisfero australe, l’attaccante ha vinto due volte consecutivamente la Scarpa d’Oro della A-League australiana quale bomber del torneo, ed è anche risultato il miglior marcatore della Nuova Zelanda durante le qualificazioni con 8 gol. Gli avversari però si chiamavano Isole Figi, Vanuatu e Nuova Caledonia, non certo Brasile e Italia, anche se agli uomini di Lippi Smeltz un golletto è comunque riuscito a realizzarlo lo scorso anno nel 4-3 con cui gli Azzurri hanno sconfitto la Nuova Zelanda in amichevole.
Quell’incontro fu il triste preludio al naufragio dell’Italia in Confederations Cup, competizione che per contro ha visto i neozelandesi tornare a casa soddisfatti dopo aver conquistato il loro primo punto in assoluto in una competizione ufficiale FIFA. Lo Special One dei Kiwi risponde al nome di Ricki Herbert, ex nazionale presente nell’82 in terra iberica, che è riuscito nell’impresa di restituire competitività ad una selezione che solamente nel 2006 si era vista scavalcare nel girone di qualificazione ai mondiali addirittura dalle Isole Salomone. In un paese dove il calcio è solamente il quarto sport più popolare dietro a rugby, cricket e vela, Herbert ha portato allo stadio 35mila persone, record assoluto in Nuova Zelanda, in occasione del play-off contro il Bahrein.
Il percorso degli All Whites verso il Sudafrica è stato ovviamente agevolato dalla migrazione dell’Australia nella federazione asiatica. Non è però in discussione la capacità di Herbert di aver saputo estrarre, grazie ad uno stile di gioco che mischia fisicità e atletismo con un kick’n run di stampo britannico molto anni Ottanta, il meglio da un gruppo di onesti operai del pallone che sbarcano il lunario sparsi tra Australia, Stati Uniti, Danimarca, Scozia e Inghilterra, in quest’ultimo caso spesso nelle divisioni inferiori (capitan Ryan Nelsen, difensore del Blackburn Rovers, rappresenta l’eccezione).
Il calcio delle stelle e dei lustrini non dunque è di casa ad Auckland e dintorni, dove l’unica squadra interamente professionista, il Wellington Phoenix, che regala cinque elementi alla rosa Mondiale, milita nel campionato australiano. Con buoni risultati, alla luce delle semifinali dei play-off raggiunti lo scorso anno, miglior risultato di sempre per un club neozelandese. Anche sulla loro panchina siede Ricki Herbert, che un libro di recente pubblicazione ha ribattezzato The Kiwi Football Great. Attenzione pertanto a lui ed a Smeltz. Anche se, onestamente, l’Italia ha conosciuto pericoli ben maggiori.
Fonte: Il Giornale
Il miglior giocatore dei Kiwi, alla seconda partecipazione alla fase finale di un Mondiale dopo Spagna 1982, è un attaccante che in Inghilterra non è riuscito ad andare oltre la Football League Two, ovvero la quarta divisione. Si chiama Shane Smeltz, un ragazzone di un metro e 85 nato a Göppingen, in Germania, e da un paio d’anni il bomber più temuto di tutta l’Oceania. In Europa Smeltz ha vissuto la sua stagione migliore quattro anni fa nell’AFC Wimbledon, dove ha chiuso l’annata da capocannoniere con 26 gol. Piccola ma doverosa precisazione: la squadra militava nella Isthmian League Premier Division, vale a dire il settimo livello del calcio inglese. Tornato nell’emisfero australe, l’attaccante ha vinto due volte consecutivamente la Scarpa d’Oro della A-League australiana quale bomber del torneo, ed è anche risultato il miglior marcatore della Nuova Zelanda durante le qualificazioni con 8 gol. Gli avversari però si chiamavano Isole Figi, Vanuatu e Nuova Caledonia, non certo Brasile e Italia, anche se agli uomini di Lippi Smeltz un golletto è comunque riuscito a realizzarlo lo scorso anno nel 4-3 con cui gli Azzurri hanno sconfitto la Nuova Zelanda in amichevole.
Quell’incontro fu il triste preludio al naufragio dell’Italia in Confederations Cup, competizione che per contro ha visto i neozelandesi tornare a casa soddisfatti dopo aver conquistato il loro primo punto in assoluto in una competizione ufficiale FIFA. Lo Special One dei Kiwi risponde al nome di Ricki Herbert, ex nazionale presente nell’82 in terra iberica, che è riuscito nell’impresa di restituire competitività ad una selezione che solamente nel 2006 si era vista scavalcare nel girone di qualificazione ai mondiali addirittura dalle Isole Salomone. In un paese dove il calcio è solamente il quarto sport più popolare dietro a rugby, cricket e vela, Herbert ha portato allo stadio 35mila persone, record assoluto in Nuova Zelanda, in occasione del play-off contro il Bahrein.
Il percorso degli All Whites verso il Sudafrica è stato ovviamente agevolato dalla migrazione dell’Australia nella federazione asiatica. Non è però in discussione la capacità di Herbert di aver saputo estrarre, grazie ad uno stile di gioco che mischia fisicità e atletismo con un kick’n run di stampo britannico molto anni Ottanta, il meglio da un gruppo di onesti operai del pallone che sbarcano il lunario sparsi tra Australia, Stati Uniti, Danimarca, Scozia e Inghilterra, in quest’ultimo caso spesso nelle divisioni inferiori (capitan Ryan Nelsen, difensore del Blackburn Rovers, rappresenta l’eccezione).
Il calcio delle stelle e dei lustrini non dunque è di casa ad Auckland e dintorni, dove l’unica squadra interamente professionista, il Wellington Phoenix, che regala cinque elementi alla rosa Mondiale, milita nel campionato australiano. Con buoni risultati, alla luce delle semifinali dei play-off raggiunti lo scorso anno, miglior risultato di sempre per un club neozelandese. Anche sulla loro panchina siede Ricki Herbert, che un libro di recente pubblicazione ha ribattezzato The Kiwi Football Great. Attenzione pertanto a lui ed a Smeltz. Anche se, onestamente, l’Italia ha conosciuto pericoli ben maggiori.
Fonte: Il Giornale
venerdì 11 giugno 2010
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Holland
The Oranjes’ worst enemy has always been themselves. The Dutch have produced outstanding players, but regularly failed to come up with a truly great team – except for the ‘74 World Cup. Dressing room turbulence has often veered them off course, with no better example than in 1990, when a team of stars such as van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkaard and Ronald Koeman were dumped out at the Round of 16 game without a single game won. If the Dutch can survive themselves, van Marwijk’s men have the quality to reach the semi-finals at least.
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Switzerland
Strong support at home might not be enough for Switzerland to qualify for the second round. Despite having topped their group, the team’s performances were often far from impressive and Ottmar Hitzfeld’s men seem to lack something. Goalscoring continues to be a problem and from September through until May the country only found the net through free-kicks and penalties. “To upset the favourites”, Hitzfeld commented, “we will have to improve.” The coach is right and it won’t be easy.
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Slovakia
Thanks to Weiss, Slovakia are a charming blend of veterans and young talents. The coach has shown he is willing to pick players from just about anywhere, calling up Slovaks from France to England, from Turkey to Poland and from Holland to Russia. Weiss has brought these together perfectly to form a team. As goalscorer Stanislav Sestak has said: “During the qualification process we played brilliantly as a team.” This is the reason why Slovakia will not be an easy opponent for anyone. The Round of 16 is not just a dream.
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The Oranjes’ worst enemy has always been themselves. The Dutch have produced outstanding players, but regularly failed to come up with a truly great team – except for the ‘74 World Cup. Dressing room turbulence has often veered them off course, with no better example than in 1990, when a team of stars such as van Basten, Ruud Gullit, Frank Rijkaard and Ronald Koeman were dumped out at the Round of 16 game without a single game won. If the Dutch can survive themselves, van Marwijk’s men have the quality to reach the semi-finals at least.
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Switzerland
Strong support at home might not be enough for Switzerland to qualify for the second round. Despite having topped their group, the team’s performances were often far from impressive and Ottmar Hitzfeld’s men seem to lack something. Goalscoring continues to be a problem and from September through until May the country only found the net through free-kicks and penalties. “To upset the favourites”, Hitzfeld commented, “we will have to improve.” The coach is right and it won’t be easy.
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Slovakia
Thanks to Weiss, Slovakia are a charming blend of veterans and young talents. The coach has shown he is willing to pick players from just about anywhere, calling up Slovaks from France to England, from Turkey to Poland and from Holland to Russia. Weiss has brought these together perfectly to form a team. As goalscorer Stanislav Sestak has said: “During the qualification process we played brilliantly as a team.” This is the reason why Slovakia will not be an easy opponent for anyone. The Round of 16 is not just a dream.
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giovedì 10 giugno 2010
Segreti e bugie. La Corea del Nord ai Mondiali del ‘66
Sport e politica, un binomio indissolubile, ieri come oggi; un connubio presente in dosi rilevanti anche nella storia dei Mondiali, da Italia 34 a Francia 38 (l’unico torneo a squadre dispari perché in una fredda mattina di marzo l’Austria sparì, inglobata dall’Anschluss nazista), da Germania 74 (la sfida tra le due nazionali tedesche) ad Argentina 78 fino all’attuale caso-Iran, ma di esempi ce ne sarebbero tanti altri. Un legame che a volte presenta tratti persino grotteschi, come accadde in Inghilterra nel 1966.
Tra gli stati qualificati alla fase finale c’era infatti la Corea del Nord, che aveva beneficiato del contemporaneo ritiro di sedici nazionali africane e asiatiche (in segno di protesta contro la decisione della Fifa di creare un unico gruppo afro-asiatico-oceanico per la qualificazione ai mondiali) e si era guadagnata l’accesso battendo l’Australia (6-1 e 3-1) in un doppio incontro disputato sul neutro di Phnom Pehn, in Cambogia. Ma il governo britannico non intendeva assolutamente ospitare il suo proprio suolo gli uomini guidati da Myung Rye Hun, dal momento che la Repubblica Popolare Democratica di Corea non era mai stata ufficialmente riconosciuta dall’Inghilterra, la quale era stata alleata (assieme a Stati Uniti e Australia) con i coreani del sud durante la sanguinosa guerra di Corea terminata tredici anni prima senza la firma di alcun trattato di pace (tecnicamente quindi le due coree sono tutt’oggi in guerra). Nacque così una strategia di vero e proprio mobbing ante-litteram, orchestrata dal Ministero degli Esteri inglese con la gentile collaborazione della FA (la Federcalcio britannica), del DES (il Dipartimento dell’Educazione e della Scienza) e dell’ambasciata sudcoreana, un boicottaggio strisciante venuto alla luce solamente in tempi recenti in seguito alla caduta del divieto di accesso per alcuni documenti contenuti nell’archivio del Foreign Office britannico.
Il governo inglese scelse inizialmente la soluzione più drastica: ai coreani sarebbero stati negati i visti d’ingresso. Un’ipotesi che la FIFA bocciò sonoramente, minacciando il ministro dello sport inglese, il laburista Harold Wilson, di revocare all’Inghilterra l’organizzazione della coppa del mondo e trasferirla altrove. Il rapido dietro-front del governo si concluse con la ferma intenzione di “minimizzare la presenza visiva della Corea del Nord, in maniera tale da evitare qualsiasi atto che potesse essere scambiato per un’accettazione diplomatica del suo regime comunista”. Tutto ciò si tradusse con il mancato invito dei rappresentanti del piccolo stato asiatico al sorteggio del 6 gennaio a Londra (gli inviti, si disse, andarono persi), con l’ordine che la squadra venisse chiamata Corea del Nord e mai Repubblica Popolare Democratica di Corea, come invece riconosciuto dalla FIFA, e con il divieto di suonare gli inni nazionali all’inizio delle partite, ad eccezione di quella di inaugurazione e della finale, un incontro quest’ultimo che i coreani, si presumeva, non avrebbero mai raggiunto. Venne inoltre cancellato il francobollo ufficiale dei Mondiali che riproduceva la bandiera della Corea del Nord, mentre non fu possibile impedire la diffusione di tali bandiere negli stadi, dal momento che la FA le aveva già ordinate e pagate. La nazionale coreana infine fu spedita il più lontano possibile da Wembley, precisamente nella città industriale di Middlesborough, estremo nord dell’Inghilterra, e come campo di allenamento gli venne assegnato un modesto impianto sportivo con vista su un impianto petrolchimico.
Ignari delle trame del proprio governo, i tifosi inglesi simpatizzarono all’istante con quei giocatori fisicamente gracili e tecnicamente acerbi, la cui principale arma tattica era rappresentata dalla velocità. La Corea del Nord divenne la squadra-mascotte del torneo tanto che, dopo essere stata surclassata all’esordio dall’URSS (0-3), quando riuscì a strappare un pareggio al Cile (1-1, rete a due minuti dalla fine di Pak Sung Yin), a fine partita molti tifosi inglesi scesero sul campo abbracciando i giocatori, che vennero poi ricevuti dal sindaco di Middlesborough per una vigorosa stretta di mano. Poi arrivò l’Italia, e i coreani entrarono nella storia. La pagina più nera nella storia degli Azzurri è un racconto ormai noto: la strage di palle-gol dell’Italia nei primi minuti di gioco, l’infortunio di Bulgarelli, la rete dell’insegnante di ginnastica nonché calciatore professionista (e non dentista come fu erroneamente scritto) Pak Doo Ik al 41esimo del primo tempo, le parate di Ri Chan Myong e la definitiva eclissi nella ripresa degli uomini guidati dal duo Fabbri-Valcareggi.
Passaggio del turno per la Corea e sudori freddi per qualche membro altolocato del Foreign Office, specialmente quando dopo ventiquattro minuti del quarto di finale contro il Portogallo Pak Sung Yin, Li Dong Woon e Yang Sung Guk portarono la Corea sul 3-0. Poi l’inesperienza dei coreani e la classe, immensa, di Eusebio ebbero la meglio; un poker del fuoriclasse lusitano e una rete di Augusto posero fine alla favola della squadra asiatica. I portoghesi vinsero 5-3 e sui coreani calò un sipario colmo di bugie. Si disse che al ritorno in patria finirono in un gulag per punizione contro una notte brava in terra inglese all’insegna dell’alcol e delle donne, si disse che furono costretti a cibarsi di insetti e che morirono tutti di fame e stenti. Falsità colossali, favorite da un regime dittatoriale chiuso in un isolamento politico ed economico pressoché totale e dal quale, in termini di notizie, usciva poco o nulla. In realtà i giocatori furono trattati come degli eroi una volta rientrati a casa, sette di loro sono ancora in vita e il famoso Pak Doo Ik è diventato anche allenatore della nazionale nordcoreana.
Nel 2002 due giornalisti inglesi hanno fatto un documentario su di loro, riuscendo anche a riportarli per qualche giorno in Inghilterra nei luoghi dove fecero l’impresa. “Tornammo in patria da vincitori”, ricorda Pak Doo Ik, “e ci coprirono di medaglie. Qualcuno di noi ottenne anche delle posizioni di responsabilità, e ancora oggi siamo ricordati come gli eroi del ’66. Sapevamo che gli inglesi avevano combattuto contro di noi nella guerra di Corea, e non ci aspettavamo un’accoglienza così calorosa da parte della gente. Avevano le nostre bandiere, ci applaudivano in continuazione; sono convinto che parte del merito del nostro grande mondiale vada assegnato al comportamento della gente di Middlesborough”. A volte lo sport riesce a vincere sulla politica.
(ha collaborato Christian Giordano)
Fonte: Guerin Sportivo
Tra gli stati qualificati alla fase finale c’era infatti la Corea del Nord, che aveva beneficiato del contemporaneo ritiro di sedici nazionali africane e asiatiche (in segno di protesta contro la decisione della Fifa di creare un unico gruppo afro-asiatico-oceanico per la qualificazione ai mondiali) e si era guadagnata l’accesso battendo l’Australia (6-1 e 3-1) in un doppio incontro disputato sul neutro di Phnom Pehn, in Cambogia. Ma il governo britannico non intendeva assolutamente ospitare il suo proprio suolo gli uomini guidati da Myung Rye Hun, dal momento che la Repubblica Popolare Democratica di Corea non era mai stata ufficialmente riconosciuta dall’Inghilterra, la quale era stata alleata (assieme a Stati Uniti e Australia) con i coreani del sud durante la sanguinosa guerra di Corea terminata tredici anni prima senza la firma di alcun trattato di pace (tecnicamente quindi le due coree sono tutt’oggi in guerra). Nacque così una strategia di vero e proprio mobbing ante-litteram, orchestrata dal Ministero degli Esteri inglese con la gentile collaborazione della FA (la Federcalcio britannica), del DES (il Dipartimento dell’Educazione e della Scienza) e dell’ambasciata sudcoreana, un boicottaggio strisciante venuto alla luce solamente in tempi recenti in seguito alla caduta del divieto di accesso per alcuni documenti contenuti nell’archivio del Foreign Office britannico.
Il governo inglese scelse inizialmente la soluzione più drastica: ai coreani sarebbero stati negati i visti d’ingresso. Un’ipotesi che la FIFA bocciò sonoramente, minacciando il ministro dello sport inglese, il laburista Harold Wilson, di revocare all’Inghilterra l’organizzazione della coppa del mondo e trasferirla altrove. Il rapido dietro-front del governo si concluse con la ferma intenzione di “minimizzare la presenza visiva della Corea del Nord, in maniera tale da evitare qualsiasi atto che potesse essere scambiato per un’accettazione diplomatica del suo regime comunista”. Tutto ciò si tradusse con il mancato invito dei rappresentanti del piccolo stato asiatico al sorteggio del 6 gennaio a Londra (gli inviti, si disse, andarono persi), con l’ordine che la squadra venisse chiamata Corea del Nord e mai Repubblica Popolare Democratica di Corea, come invece riconosciuto dalla FIFA, e con il divieto di suonare gli inni nazionali all’inizio delle partite, ad eccezione di quella di inaugurazione e della finale, un incontro quest’ultimo che i coreani, si presumeva, non avrebbero mai raggiunto. Venne inoltre cancellato il francobollo ufficiale dei Mondiali che riproduceva la bandiera della Corea del Nord, mentre non fu possibile impedire la diffusione di tali bandiere negli stadi, dal momento che la FA le aveva già ordinate e pagate. La nazionale coreana infine fu spedita il più lontano possibile da Wembley, precisamente nella città industriale di Middlesborough, estremo nord dell’Inghilterra, e come campo di allenamento gli venne assegnato un modesto impianto sportivo con vista su un impianto petrolchimico.
Ignari delle trame del proprio governo, i tifosi inglesi simpatizzarono all’istante con quei giocatori fisicamente gracili e tecnicamente acerbi, la cui principale arma tattica era rappresentata dalla velocità. La Corea del Nord divenne la squadra-mascotte del torneo tanto che, dopo essere stata surclassata all’esordio dall’URSS (0-3), quando riuscì a strappare un pareggio al Cile (1-1, rete a due minuti dalla fine di Pak Sung Yin), a fine partita molti tifosi inglesi scesero sul campo abbracciando i giocatori, che vennero poi ricevuti dal sindaco di Middlesborough per una vigorosa stretta di mano. Poi arrivò l’Italia, e i coreani entrarono nella storia. La pagina più nera nella storia degli Azzurri è un racconto ormai noto: la strage di palle-gol dell’Italia nei primi minuti di gioco, l’infortunio di Bulgarelli, la rete dell’insegnante di ginnastica nonché calciatore professionista (e non dentista come fu erroneamente scritto) Pak Doo Ik al 41esimo del primo tempo, le parate di Ri Chan Myong e la definitiva eclissi nella ripresa degli uomini guidati dal duo Fabbri-Valcareggi.
Passaggio del turno per la Corea e sudori freddi per qualche membro altolocato del Foreign Office, specialmente quando dopo ventiquattro minuti del quarto di finale contro il Portogallo Pak Sung Yin, Li Dong Woon e Yang Sung Guk portarono la Corea sul 3-0. Poi l’inesperienza dei coreani e la classe, immensa, di Eusebio ebbero la meglio; un poker del fuoriclasse lusitano e una rete di Augusto posero fine alla favola della squadra asiatica. I portoghesi vinsero 5-3 e sui coreani calò un sipario colmo di bugie. Si disse che al ritorno in patria finirono in un gulag per punizione contro una notte brava in terra inglese all’insegna dell’alcol e delle donne, si disse che furono costretti a cibarsi di insetti e che morirono tutti di fame e stenti. Falsità colossali, favorite da un regime dittatoriale chiuso in un isolamento politico ed economico pressoché totale e dal quale, in termini di notizie, usciva poco o nulla. In realtà i giocatori furono trattati come degli eroi una volta rientrati a casa, sette di loro sono ancora in vita e il famoso Pak Doo Ik è diventato anche allenatore della nazionale nordcoreana.
Nel 2002 due giornalisti inglesi hanno fatto un documentario su di loro, riuscendo anche a riportarli per qualche giorno in Inghilterra nei luoghi dove fecero l’impresa. “Tornammo in patria da vincitori”, ricorda Pak Doo Ik, “e ci coprirono di medaglie. Qualcuno di noi ottenne anche delle posizioni di responsabilità, e ancora oggi siamo ricordati come gli eroi del ’66. Sapevamo che gli inglesi avevano combattuto contro di noi nella guerra di Corea, e non ci aspettavamo un’accoglienza così calorosa da parte della gente. Avevano le nostre bandiere, ci applaudivano in continuazione; sono convinto che parte del merito del nostro grande mondiale vada assegnato al comportamento della gente di Middlesborough”. A volte lo sport riesce a vincere sulla politica.
(ha collaborato Christian Giordano)
Fonte: Guerin Sportivo
mercoledì 9 giugno 2010
Dutch Coach Bert van Marwijk Spoilt for Attacking Talent
A lack of quality up front is not a problem keeping Holland coach Bert van Marwijk up all night. However, what could give the coach a headache is choosing four from six attacking talents to make the starting eleven and fit into his preferred 4-2-3-1 system.
A hamstring injury to Arjen Robben has put his role in doubt, but Van Marwijk will still take the Bayern Munich star. Amongst the other names vying for a start are Robin van Persie, Rafael van der Vaart, Wesley Sneijder, Dirk Kuyt and Klaas-Jan Huntelaar. Van Marwijk though isn’t concerned about picking four from six. “I like to have this kind of choice, rather than not knowing who to pick because we have less quality.”
Van Marwijk already made a complicated situation a little easier by leaving Ruud van Nistelrooy out of his squad. The striker had retired from international football after Euro 2008, but an approaching World Cup caused him to reverse that decision. It was though, too late, and Van Marwijk, despite often stating “Van Nistelrooy is still an option”, never changed his mind. The coach did not want a seventh attacking star who would have put pressure on him to be a certain starter in South Africa. In the words of the Dutch press: “Nobody whose mind is not on vacation would have taken Van Nistelrooy to South Africa to leave him on the bench.”
In Holland the media hope to see the “Grote Vier” (the Big Four) on the pitch together, with Van Persie up front, Van der Vaart as the creative central midfielder, Robben on the right wing and Sneijder on the other flank. While this option would surely make the Oranje a nightmare for opposing defences, the recent injury picked up by Robben means it is still up in the air whether this devastating foursome will ever take to the pitch in South Africa.
The trouble with that attacking midfield is the vulnerablity it could leave in defence, making Dirk Kuyt a sensible choice. The Liverpool star could be deployed up front, or on the right flank, and none of the Big Four can match him for effort. Kuyt though, did not enjoy the best of seasons with Liverpool and already has 60 games under his belt, so is by no means fresh.
A boost for Holland came six weeks ago, as Robin van Persie recovered from an ankle injury picked up on 14th November 2009 in a friendly against Italy following a challenge from Giorgio Chiellini. “My physical therapist told me I had no idea how bad my inury was”, said the Arsenal striker. “Chiellini? He never called me, but that’s his problem, not mine.” Last season Van Persie saw himself often deployed as a central striker by Arsenal manager Arsene Wenger, and he took that role for the Oranje too in recent friendlies against Mexico and Ghana. The striker scored in both games and since Van Marwijk took over as Holland coach the Arsenal man has been his country’s top scorer. Given this, Van Marwijk plans to deploy Van Persie as high up the pitch as possible, hoping he can catch fire in front of goal.
Should Kuyt and Van Persie both find themselves together on the pitch then Robben (if fit) could move from the right to the left flank. Robben, who has been exceptional with Bayern Munich, and Wesley Sneijder, will both, fitness permitting, be guaranteed a starting spot. The Inter man, under Jose Mourinho, developed into a top class performer last season, playing a vital role with the Champions League winners. Van Marwijk has already presented Sneijder with the number 10 shirt, even if the coach is still pondering whether he or Van der Vaart should be the creative midfielder behind the striker.
Van der Vaart is not as versatile as Sneijder. The Real Madrid man can only really operate as an attacking midfielder, paying less attention to defensive duties than others might. Sneijder on the other hand can take a role on the left flank, even at a push as a defensive midfielder – as he once did with Real Madrid, but never has with Holland – while Van der Vaart is a fish out of water anywhere else. However, Van der Vaart has experience to draw upon to win his fight for a spot in the starting eleven, as he overcame the odds to do just that in Madrid. “Of course I want to be in the World Cup starting eleven”, he said. “You are never happy to be on the bench, but if the coach decides otherwise I’ll just have to work harder. One thing is for sure: I don’t give up easily.”
Last but not least in the attacking mix is Huntelaar. The AC Milan striker played regularly as a central striker for the first year of Van Marwijk’s reign before becoming the coach’s second option after Kuyt or Van Persie. Huntelaar’s first season in Italy wasn’t particularly impressive, even if it was not all his own fault: The striker saw chances to prove his worth relatively few and far between. In Seefeld, Holland’s Austrian training base before leaving for South Africa, Huntelaar said he felt like he had finally arrived home. Two years ago, at Euro 2008, the striker was forced to remain firmly in the shadows as Ruud van Nistelrooy took centre stage. Now that his rival is gone, Huntelaar does not want to miss his chance, especially considering he is the only pure centre forward in the Dutch squad.
Such an abundance of attacking talent won’t make Van Marwijk’s choice easy. And if he can get it right, there is no telling how far Holland could go.
Fonte: Inside Futbol
A hamstring injury to Arjen Robben has put his role in doubt, but Van Marwijk will still take the Bayern Munich star. Amongst the other names vying for a start are Robin van Persie, Rafael van der Vaart, Wesley Sneijder, Dirk Kuyt and Klaas-Jan Huntelaar. Van Marwijk though isn’t concerned about picking four from six. “I like to have this kind of choice, rather than not knowing who to pick because we have less quality.”
Van Marwijk already made a complicated situation a little easier by leaving Ruud van Nistelrooy out of his squad. The striker had retired from international football after Euro 2008, but an approaching World Cup caused him to reverse that decision. It was though, too late, and Van Marwijk, despite often stating “Van Nistelrooy is still an option”, never changed his mind. The coach did not want a seventh attacking star who would have put pressure on him to be a certain starter in South Africa. In the words of the Dutch press: “Nobody whose mind is not on vacation would have taken Van Nistelrooy to South Africa to leave him on the bench.”
In Holland the media hope to see the “Grote Vier” (the Big Four) on the pitch together, with Van Persie up front, Van der Vaart as the creative central midfielder, Robben on the right wing and Sneijder on the other flank. While this option would surely make the Oranje a nightmare for opposing defences, the recent injury picked up by Robben means it is still up in the air whether this devastating foursome will ever take to the pitch in South Africa.
The trouble with that attacking midfield is the vulnerablity it could leave in defence, making Dirk Kuyt a sensible choice. The Liverpool star could be deployed up front, or on the right flank, and none of the Big Four can match him for effort. Kuyt though, did not enjoy the best of seasons with Liverpool and already has 60 games under his belt, so is by no means fresh.
A boost for Holland came six weeks ago, as Robin van Persie recovered from an ankle injury picked up on 14th November 2009 in a friendly against Italy following a challenge from Giorgio Chiellini. “My physical therapist told me I had no idea how bad my inury was”, said the Arsenal striker. “Chiellini? He never called me, but that’s his problem, not mine.” Last season Van Persie saw himself often deployed as a central striker by Arsenal manager Arsene Wenger, and he took that role for the Oranje too in recent friendlies against Mexico and Ghana. The striker scored in both games and since Van Marwijk took over as Holland coach the Arsenal man has been his country’s top scorer. Given this, Van Marwijk plans to deploy Van Persie as high up the pitch as possible, hoping he can catch fire in front of goal.
Should Kuyt and Van Persie both find themselves together on the pitch then Robben (if fit) could move from the right to the left flank. Robben, who has been exceptional with Bayern Munich, and Wesley Sneijder, will both, fitness permitting, be guaranteed a starting spot. The Inter man, under Jose Mourinho, developed into a top class performer last season, playing a vital role with the Champions League winners. Van Marwijk has already presented Sneijder with the number 10 shirt, even if the coach is still pondering whether he or Van der Vaart should be the creative midfielder behind the striker.
Van der Vaart is not as versatile as Sneijder. The Real Madrid man can only really operate as an attacking midfielder, paying less attention to defensive duties than others might. Sneijder on the other hand can take a role on the left flank, even at a push as a defensive midfielder – as he once did with Real Madrid, but never has with Holland – while Van der Vaart is a fish out of water anywhere else. However, Van der Vaart has experience to draw upon to win his fight for a spot in the starting eleven, as he overcame the odds to do just that in Madrid. “Of course I want to be in the World Cup starting eleven”, he said. “You are never happy to be on the bench, but if the coach decides otherwise I’ll just have to work harder. One thing is for sure: I don’t give up easily.”
Last but not least in the attacking mix is Huntelaar. The AC Milan striker played regularly as a central striker for the first year of Van Marwijk’s reign before becoming the coach’s second option after Kuyt or Van Persie. Huntelaar’s first season in Italy wasn’t particularly impressive, even if it was not all his own fault: The striker saw chances to prove his worth relatively few and far between. In Seefeld, Holland’s Austrian training base before leaving for South Africa, Huntelaar said he felt like he had finally arrived home. Two years ago, at Euro 2008, the striker was forced to remain firmly in the shadows as Ruud van Nistelrooy took centre stage. Now that his rival is gone, Huntelaar does not want to miss his chance, especially considering he is the only pure centre forward in the Dutch squad.
Such an abundance of attacking talent won’t make Van Marwijk’s choice easy. And if he can get it right, there is no telling how far Holland could go.
Fonte: Inside Futbol
Kiwi Mondiali. L’avventura della Rufer generation a Spagna 82
Pelè, Johan Cruijff, George Weah, Hugo Sanchez, Bum-Kun Cha e Wynton Rufer. Una ragione per accomunare questi giocatori l’ha trovata l’International Federation of Football History and Statistics (IFHSS), l’istituto che si occupa di statistica e storia del calcio. In concomitanza con l’avvento del nuovo millennio, l’IFHSS aveva coinvolto numerosi addetti ai lavori di tutto il mondo chiedendo loro di votare il miglior giocatore del XX secolo di ciascuno dei sei continenti. E’ stato in questo modo che il neozelandese Wynton Rufer, nato a Wellington il 29 dicembre del 1962, si è trovato a dividere la ribalta con alcuni dei più grandi fuoriclasse di sempre. Non poteva pertanto essere che lui la stella della Nuova Zelanda che, nel 1982, si apprestava a debuttare nella fase finale di un Mondiale. Era infatti chiamata la Rufer generation la selezione degli All Whites (questo il soprannome della nazionale di calcio neozelandese, in contrapposizione agli All Blacks del rugby) che nel 1981 riuscì a centrare una storica quanto inaspettata qualificazione ai Mondiali di Spagna. Undici giocatori entrati nella storia del calcio dell’Oceania: Van Hattum, Dodds, Herbert, Malcolmson, Almond, Sumner, McKay, Creswell, Boath, Woodin e appunto Rufer, l’autore della rete decisiva nello spareggio contro la Cina (2-1 per la Nuova Zelanda), l’elemento di maggior classe della squadra nonché il primo giocatore neozelandese ad aver tentato la via del professionismo emigrando in Europa, e tutto questo a soli 19 anni di età e con alle spalle già un discreto numero di presenze con la nazionale maggiore (il suo esordio datava 16 ottobre 1980, avversario il Kuwait).
I neozelandesi avevano staccato il biglietto per la Spagna dopo un’autentica odissea a cavallo tra due continenti. 55mila erano state le miglia percorse dalla squadra, dall’Arabia Saudita alla Cina, dal Kuwait alle Isole Figi, per disputare 15 partite, segnare 44 reti, stabilire il proprio primato storico relativamente alla vittoria più rotonda in un match ufficiale (13-0 alle Figi) e mantenere la propria porta imbattuta per ben 921 minuti. Nessuna sorpresa pertanto che uno sport scarsamente considerato e spesso relegato sul fondo delle pagine dei quotidiani, era diventato in Nuova Zelanda, almeno per l’anno 1982, LO sport nazionale. Da zero a mito in una manciata di mesi; questo il destino di molti degli All Whites. Nella terra dei Kiwi tutti ricordavano il colpo di testa di Grant Turner che estromise i rivali di sempre dell’Australia dalle qualificazioni, o il pareggio all’ultimo minuto di Ricki Herbert a Wellington contro l’Arabia Saudita, o ancora la magia di Wynton Rufer a Singapore nello spareggio contro la Cina. Al Mondiale la Nuova Zelanda si trova di fronte Brasile, Unione Sovietica e Scozia. Una sfida improba per una squadra già all’epoca molto vintage, calcisticamente legata alla più classica tradizione britannica, ovvero quel kick’n run molto fisico fatto di corsa, lanci lunghi e palloni spioventi per la torre. Il risultato sono tre sconfitte, con due gol fatti (Steve Sumner e Steve Wooddin, a segno nel 2-5 contro la Scozia) e dodici subiti. Gli All Whites però il loro mondiale lo avevano vinto ancora prima di sbarcare in Spagna.
Ventotto anni dopo è arrivato il momento di ripetere l’avventura. Lo spareggio questa volta è stato vinto contro il Bahrein, il gioco è rimasto molto british old style, ma la rosa neozelandese è priva del nuovo Wynton Rufer. Il quale dopo il Mondiale è tornato in Europa per giocare prima in Svizzera (con Zurigo, Aarau e Grasshopper) e poi in Germania, dove con il Werder Brema ha vissuto i momenti migliori della sua carriera vincendo un titolo nazionale, due Coppe di Germania e una Coppa delle Coppe (2-0 in finale al Monaco di Gorge Weah e Rui Barros, allenatore Arsene Wenger), e totalizzando un bottino di 55 reti in 160 incontri. Una promozione in Bundesliga con il Kaiserslautern guidato da Otto Rehhagel rappresenta il congedo di Rufer dall’Europa. Oggi è titolare della Wynton Rufer Soccer School of Excellence, conosciuta anche come Wynrs, una moderna accademia calcistica pronta a sfornare i talenti di domani. “Per far crescere calcisticamente il nostro paese”, ha dichiarato Rufer, “bisogna concentrarsi sui ragazzi di età compresa tra i cinque e i dodici anni. Il futuro non lo si improvvisa, ma va costruito dalle fondamenta”. In attesa di una nuova Rufer generation.
Fonte: Calcio 2000
I neozelandesi avevano staccato il biglietto per la Spagna dopo un’autentica odissea a cavallo tra due continenti. 55mila erano state le miglia percorse dalla squadra, dall’Arabia Saudita alla Cina, dal Kuwait alle Isole Figi, per disputare 15 partite, segnare 44 reti, stabilire il proprio primato storico relativamente alla vittoria più rotonda in un match ufficiale (13-0 alle Figi) e mantenere la propria porta imbattuta per ben 921 minuti. Nessuna sorpresa pertanto che uno sport scarsamente considerato e spesso relegato sul fondo delle pagine dei quotidiani, era diventato in Nuova Zelanda, almeno per l’anno 1982, LO sport nazionale. Da zero a mito in una manciata di mesi; questo il destino di molti degli All Whites. Nella terra dei Kiwi tutti ricordavano il colpo di testa di Grant Turner che estromise i rivali di sempre dell’Australia dalle qualificazioni, o il pareggio all’ultimo minuto di Ricki Herbert a Wellington contro l’Arabia Saudita, o ancora la magia di Wynton Rufer a Singapore nello spareggio contro la Cina. Al Mondiale la Nuova Zelanda si trova di fronte Brasile, Unione Sovietica e Scozia. Una sfida improba per una squadra già all’epoca molto vintage, calcisticamente legata alla più classica tradizione britannica, ovvero quel kick’n run molto fisico fatto di corsa, lanci lunghi e palloni spioventi per la torre. Il risultato sono tre sconfitte, con due gol fatti (Steve Sumner e Steve Wooddin, a segno nel 2-5 contro la Scozia) e dodici subiti. Gli All Whites però il loro mondiale lo avevano vinto ancora prima di sbarcare in Spagna.
Ventotto anni dopo è arrivato il momento di ripetere l’avventura. Lo spareggio questa volta è stato vinto contro il Bahrein, il gioco è rimasto molto british old style, ma la rosa neozelandese è priva del nuovo Wynton Rufer. Il quale dopo il Mondiale è tornato in Europa per giocare prima in Svizzera (con Zurigo, Aarau e Grasshopper) e poi in Germania, dove con il Werder Brema ha vissuto i momenti migliori della sua carriera vincendo un titolo nazionale, due Coppe di Germania e una Coppa delle Coppe (2-0 in finale al Monaco di Gorge Weah e Rui Barros, allenatore Arsene Wenger), e totalizzando un bottino di 55 reti in 160 incontri. Una promozione in Bundesliga con il Kaiserslautern guidato da Otto Rehhagel rappresenta il congedo di Rufer dall’Europa. Oggi è titolare della Wynton Rufer Soccer School of Excellence, conosciuta anche come Wynrs, una moderna accademia calcistica pronta a sfornare i talenti di domani. “Per far crescere calcisticamente il nostro paese”, ha dichiarato Rufer, “bisogna concentrarsi sui ragazzi di età compresa tra i cinque e i dodici anni. Il futuro non lo si improvvisa, ma va costruito dalle fondamenta”. In attesa di una nuova Rufer generation.
Fonte: Calcio 2000
martedì 8 giugno 2010
Il danese volante
Irlanda-Danimarca programmata il 13 novembre 1985 può sancire la matematica qualificazione degli scandinavi a Messico ’86. Logico pertanto che debba essere affrontata con la miglior formazione possibile, che all’epoca, in casa danese, non poteva non includere la classe di Søren Lerby. Anche Bayern Monaco-Bochum, terzo turno di Coppa di Germania programmato nel medesimo giorno, è una partita importante nella stagione dei bavaresi. Ed è quindi altrettanto logico che il club contemporaneamente più amato e odiato di tutta la Germania debba scendere in campo schierando il proprio undici più forte, dal quale non poteva certo mancare la classe di Søren Lerby. Cuore o ragione/portafoglio? Un dilemma che si è posto a centinaia di calciatori sprovvisti del dono dell’ubiquità. Lerby ha scelto di…non scegliere. O meglio, è sceso in campo 58 minuti al Lansdowne Road di Dublino, è rientrato negli spogliatoi con la squadra in vantaggio 3-1, quindi rapida doccia, poi di corsa su un jet privato con destinazione Monaco di Baviera, fulmineo ingresso all’Olympiastadion ed eccolo in campo all’inizio della ripresa. 1-1 il risultato finale, bisogna rigiocare. E Lerby: “ho le gambe un po’ stanche, a Dublino il terreno era pesante”. Il Bayern vincerà partita e coppa. La Danimarca volerà in Messico dove batterà in successione Scozia, Uruguay e Germania Ovest, prima di arenarsi agli ottavi di finale contro la Spagna. Fine della favola vichinga, ma rimane l’impresa di Søren Lerby. L’unico giocatore ad aver disputato un incontro di coppa del mondo e uno con la propria squadra di club nello stesso giorno in due paesi differenti.
Senza scarpe non si gioca. Il Mondiale dell’India
Mentre i colpi sparati in sincrono da ventuno fucili salutavano l’ingresso in campo del Brasile, paese organizzatore del Mondiale 1950, per la partita inaugurale contro il Messico, l’India annunciava il proprio ritiro dalla manifestazione. Il motivo? La mancata concessione del permesso di poter disputare gli incontri scalzi. Come avevano del resto fatto due anni prima alle Olimpiadi di Londra, perdendo onorevolmente 2-1 a Wembley contro la Francia. Ma la Fifa non era il Comitato Olimpico. Così, dopo essersi qualificati al mondiale senza disputare un singolo incontro (Burma, Indonesia e le Filippine si erano tutte ritirate) ed aver effettuato la preparazione in una turnè tra Singapore, Sri Lanka, Malesia, i giocatori indiani incassano a malincuore la notizia del ritiro. Nel 2002, dalle pagine della rivista The Hindu Sportstar, l’allora centrocampista di quella squadra, T Shanmugham, ricorda: “Lo venimmo a sapere tardi e fu una delusione enorme. Eravamo tutti eccitati all’idea di andare in Brasile. Ci sentivamo anche pronti per fare la nostra dignitosa figura. Giocavamo con cinque attaccanti e avevamo un ottimo elemento in difesa, il nostro capitano Sailen Manna. Però non conoscevamo le regole. E forse questo è sempre stato il più grosso problema del calcio in India”. Dopo le Olimpiadi di Helsinki del 1952, la Federcalcio indiana ha autorizzato l’introduzione delle scarpe. Troppo tardi. L’India ai mondiali non ci è più arrivata.
Fonte: Calcio 2000
Fonte: Calcio 2000
lunedì 7 giugno 2010
Ti piace perdere facile? – Il peggio della coppa del mondo
Nel 2002 la FIFA decide di organizzare un incontro tra le due peggiori nazionali del mondo, Bhutan e Montserrat. Una sfida tra i fanalini di coda (posizione numero 203 e 204) del ranking FIFA, ribattezzata romanticamente The Other Final, e disputata in concomitanza con la finale del mondiale nippo-coreano tra Brasile e Germania. Si gioca a Thimphu e il Bhutan, guidato dall’olandese giramondo Arie Schans, si impone 4-0. Montserrat è ufficialmente il peggio del peggio delle nazionali. Quattro anni prima il non propriamente esaltante titolo era stato assegnato dal giornalista del Daily Telegraph Clive White alle Isole Maldive. Il motivo è facilmente intuibile già dalle premesse fatte da White. “I giocatori della nazionale delle Maldive risultano in media quindici centimetri più bassi rispetto agli avversari; molti di loro hanno imparato a giocare a calcio con una noce di cocco; trovare un campo da gioco degno di questo nome in questo arcipelago di isole il cui 99.6% del territorio è classificato come acqua, non è l’impresa più facile di questo mondo”. L’esordio fa registrare un punteggio di 0-17 contro l’Iran. I giocatori vogliono abbandonare la competizione, il loro tecnico, il boliviano Romulo Cortez, li dissuade. Le Maldive chiuderanno con zero punti in sei partite disputate, zero gol fatti e 59 subiti. Un primato, quest’ultimo, tutt’ora imbattuto. E’ invece stato superato dalle Samoa Americane quello del maggior numero di reti subite in una singola partita di qualificazione mondiale. L’11 aprile 2001 a Coffs Harbour Australia-Samoa Americane finisce 31-0. Tutti i palloni vengono raccolti dalla rete dallo stesso portiere, Nicky Salapu, che merita la citazione solo per il fatto essere rimasto in campo fino alla fine. Mattatore dell’incontro è l’attaccante Archie Thompson, autore di ben 13 reti (record mondiale). Guus Hiddink lo porterà in Olanda per giocare con il Psv Eindhoven, ma sarà un flop. Due presenze per un totale di sette minuti giocati, prima di tornare in Australia e cercarsi un altro Nicky Salapu.
Fonte: Calcio 2000
Fonte: Calcio 2000
domenica 6 giugno 2010
Un Mondiale di novanta minuti. L’avventura delle Indie Orientali Olandesi
Tan Mo Heng, Frans Hu Kom, Jack Samuels, Achmad Nawir, Frans Meeng, Anwar Sutan, Tan Hong Dijen, Suarte Soedarmadji, Hendrikus Zomers, Isaac Pattiwael, Hans Taihuttu. Ovvero l’unica squadra il cui Mondiale è durato solamente novanta minuti. Accade nel 1938 in Francia, allo Stade Velodrome Municipal di Reims, dove le Indie Orientali Olandesi scendono in campo contro l’Ungheria, subiscono sei reti (a zero), salutano e tornano a casa. Potenza di un torneo organizzato in sole partite ad eliminazione diretta. La loro battaglia gli asiatici l’avevano comunque vinta. Contro la FIFA, che aveva cercato in ogni modo di estrometterli dalla competizione per non inficiare “il livello delle squadre presenti alla coppa del mondo”. In Francia le Indie Orientali Olandesi (oggi Indonesia) ci erano arrivate dalle eliminatorie del gruppo asiatico, che in realtà era ridotto ad un play-off tra loro e il favoritissimo Giappone. L’inizio della seconda guerra sino-nipponica aveva però costretto la nazionale del Sol Levante a dare forfait, sgombrando il campo alle Indie Orientali Olandesi. La FIFA tentò di ostacolare la loro partecipazione imponendo uno spareggio con gli Stati Uniti ma, di fronte al rifiuto di questi ultimi, fu costretta ad alzare bandiera bianca. In Francia sbarca una rosa composta per buona da studenti, con nove giocatori alla loro prima presenza in nazionale. Il capitano portava gli occhiali, i difensori in un paio di occasioni si scontrarono tra loro. Una partita e poi tutti a casa.
Fonte: Calcio 2000
Fonte: Calcio 2000
sabato 5 giugno 2010
Calcio totale e sfortuna mondiale. Olanda contro Belgio, anno 1973.
Nessuna grande rivoluzione è avvenuta senza un briciolo, seppur minimo, di casualità. Quante volte, sentendo parlare di eventi, storie, miti e leggende, abbiamo udito la domanda “cosa sarebbe successo se…?”. Giocando a Sliding Doors con la storia dei Mondiali si potrebbero riempire centinaia di pagine. L’Olanda del Generale Michels finalista in Germania Ovest nel 1974, ad esempio. Jongbloed Suurbier Rijsbergen Haan Krol Jansen Neeskens Van Hanegem Rep Cruijff Rensenbrink. Un undici a leggere tutta d’un fiato, come fosse un’unica entità. Il 1974 segna la definitiva consacrazione del calcio totale, che vince anche se riesce a sollevare la coppa del mondo perché stecca all’ultimo atto. Ma per chi guarda la luna, e non il dito che la indica, poco importa. Il 1974 consacra il Mito. Alla cui genesi aveva contribuito, pur se in minima parte e in modo assolutamente inconsapevole, un arbitro russo di nome Khazakov, che il 18 novembre del 1973 all’Olympisch Stadion di Amsterdam aveva annullato, su segnalazione del proprio assistente di gara, un gol regolare del belga Jan Verheyen. Era l’ultima partita del girone di qualificazione per i Mondiali del 1974. Se il Belgio avesse battuto l’Olanda, avrebbe staccato il biglietto per la Germania Ovest lasciando a casa proprio i tulipani. Questa è la storia di due destini calcistici racchiusi in una bandierina alzata.
Il cecoslovacco Frantisek Fadrhonc era un tecnico poco amato dalla Federcalcio olandese ma molto dai giocatori, i quali non esitarono a dimostrare sul campo la propria stima nei confronti dell’allenatore salvandogli la panchina all’indomani della mancata qualificazione agli Europei del 1972. Era prevista un’amichevole contro la Grecia, per quello che si vociferava essere con tutta probabilità l’ultimo atto di Fadrhonc sulla panchina oranje. “Oggi giochiamo per Fadrhonc” è il messaggio lanciato da Cruijff ai propri compagni nello spogliatoio prima dell’inizio del match. Detto e fatto, l’Olanda in campo strapazza 5-0 la Grecia cogliendo, all’epoca, la terza vittoria più rotonda della sua storia dopo il 7-2 rifilato al Belgio nel 1958 ed il 6-1 alla Francia nel 1936. Panchina dunque salva, e Olanda che comincia a carburare. Il gruppo 3 della zona Europa per la qualificazione ai mondiali si presenta piuttosto morbido, con il solo Belgio avversario che può incutere qualche timore, mentre Norvegia e Islanda sono semplici pratiche da archiviare alla svelta. Missione che l’Olanda compie senza problemi (i norvegesi vengono demoliti 9-0), arrivando alla fatidica sera del 18 novembre 1973 con una migliore differenza reti rispetto ai Diavoli Rossi. I punti in classifica però erano i medesimi.
Il tecnico belga Raymond Goethals non era certo uno sprovveduto. Ben conscio dell’inferiorità tecnica dei propri uomini (tra i quali spiccava un Paul Van Himst, il miglior calciatore belga di sempre, ormai a fine carriera) rispetto agli olandesi, la sua filosofia di gioco era riassumibile in una frase: “Chi non concede gol non perde le partite”. E così faceva il suo Belgio, squadra tosta e rognosa, molto fisica. La filosofia del “primo non prenderle” pagava. Doppio 4-0 all’Islanda, doppio 2-0 alla Norvegia, 0-0 ad Anversa contro l’Olanda, fermata dalle barricate erette dai Diavoli Rossi e sostenute da 54.923 spettatori urlanti. Ed ecco il 18 novembre. Il biglietto da visita del Belgio sono 12 gol fatti e zero subiti. Un muro. Ma questa volta non basta. Di fronte ai 60.000 che affollano l’Olympisch Stadion bisogna vincere, perché gi tulipani hanno segnato più reti negli incontri precedenti, e pertanto possono accontentarsi del pari. E’ una partita maschia, con poco calcio. Belgio tatticamente perfetto, Olanda povera di ispirazione. Poi il lampo di Verheyen. La panchina belga esplode, ma c’è una bandierina alzata a raffreddare tutti gli entusiasmi. Il russo Khazakov sta indicando il cerchio di centrocampo. La rete è annullata. Olanda ai mondiali, per la prima volta dal 1938, e Belgio a casa.
Nel dopo partita Fadrhonc benedice la dea bendata che lo ha assistito. Gli servirà a poco, perché per guidare la squadra in Germania Ovest la Federcalcio olandese sceglierà di affidarsi al miglior allenatore disponibile sulla piazza in quel momento: Rinus Michels. Goethals invece mastica amaro. Zero sconfitte e zero reti subite non erano stati sufficienti per accedere alla fase finale della coppa del mondo. Un primato ineguagliato e, probabilmente, ineguagliabile. Il suo Belgio è la miglior squadra eliminata nella storia delle qualificazioni ai mondiali.
Fonte: Calcio 2000
Il cecoslovacco Frantisek Fadrhonc era un tecnico poco amato dalla Federcalcio olandese ma molto dai giocatori, i quali non esitarono a dimostrare sul campo la propria stima nei confronti dell’allenatore salvandogli la panchina all’indomani della mancata qualificazione agli Europei del 1972. Era prevista un’amichevole contro la Grecia, per quello che si vociferava essere con tutta probabilità l’ultimo atto di Fadrhonc sulla panchina oranje. “Oggi giochiamo per Fadrhonc” è il messaggio lanciato da Cruijff ai propri compagni nello spogliatoio prima dell’inizio del match. Detto e fatto, l’Olanda in campo strapazza 5-0 la Grecia cogliendo, all’epoca, la terza vittoria più rotonda della sua storia dopo il 7-2 rifilato al Belgio nel 1958 ed il 6-1 alla Francia nel 1936. Panchina dunque salva, e Olanda che comincia a carburare. Il gruppo 3 della zona Europa per la qualificazione ai mondiali si presenta piuttosto morbido, con il solo Belgio avversario che può incutere qualche timore, mentre Norvegia e Islanda sono semplici pratiche da archiviare alla svelta. Missione che l’Olanda compie senza problemi (i norvegesi vengono demoliti 9-0), arrivando alla fatidica sera del 18 novembre 1973 con una migliore differenza reti rispetto ai Diavoli Rossi. I punti in classifica però erano i medesimi.
Il tecnico belga Raymond Goethals non era certo uno sprovveduto. Ben conscio dell’inferiorità tecnica dei propri uomini (tra i quali spiccava un Paul Van Himst, il miglior calciatore belga di sempre, ormai a fine carriera) rispetto agli olandesi, la sua filosofia di gioco era riassumibile in una frase: “Chi non concede gol non perde le partite”. E così faceva il suo Belgio, squadra tosta e rognosa, molto fisica. La filosofia del “primo non prenderle” pagava. Doppio 4-0 all’Islanda, doppio 2-0 alla Norvegia, 0-0 ad Anversa contro l’Olanda, fermata dalle barricate erette dai Diavoli Rossi e sostenute da 54.923 spettatori urlanti. Ed ecco il 18 novembre. Il biglietto da visita del Belgio sono 12 gol fatti e zero subiti. Un muro. Ma questa volta non basta. Di fronte ai 60.000 che affollano l’Olympisch Stadion bisogna vincere, perché gi tulipani hanno segnato più reti negli incontri precedenti, e pertanto possono accontentarsi del pari. E’ una partita maschia, con poco calcio. Belgio tatticamente perfetto, Olanda povera di ispirazione. Poi il lampo di Verheyen. La panchina belga esplode, ma c’è una bandierina alzata a raffreddare tutti gli entusiasmi. Il russo Khazakov sta indicando il cerchio di centrocampo. La rete è annullata. Olanda ai mondiali, per la prima volta dal 1938, e Belgio a casa.
Nel dopo partita Fadrhonc benedice la dea bendata che lo ha assistito. Gli servirà a poco, perché per guidare la squadra in Germania Ovest la Federcalcio olandese sceglierà di affidarsi al miglior allenatore disponibile sulla piazza in quel momento: Rinus Michels. Goethals invece mastica amaro. Zero sconfitte e zero reti subite non erano stati sufficienti per accedere alla fase finale della coppa del mondo. Un primato ineguagliato e, probabilmente, ineguagliabile. Il suo Belgio è la miglior squadra eliminata nella storia delle qualificazioni ai mondiali.
Fonte: Calcio 2000
venerdì 4 giugno 2010
I 23 oranje: attacco
Ryan Babel. In nazionale più per ragioni di modulo (nel 4231 di Van Marwijk ci deve essere un buon ricambio di ali) che di rendimento. Mai davvero convincente nel Liverpool, offre spesso l’impressione di sentirsi già appagato di quanto ottenuto in carriera. Indiscutibili le qualità tecniche, ma le premesse a inizio carriera erano ben altre.
Eljero Elia. Un 2009 strepitoso a cavallo tra Twente e Amburgo, poi l’infortunio che ne ha bruscamente frenato la corsa. Primo cap oranje nel settembre 2009, settimo debuttante della gestione Van Marwijk. Ha vinto facilmente il ballottaggio con Jeremain Lens dell’Az. Può rappresentare l’arma a sorpresa dei tulipani per tentare di risolvere le gare difficili.
Dirk Kuijt. Stagione in tono minore a Liverpool, dove è stato coinvolto dal grigiore generale. Ma la sua duttilità in avanti, dove sa destreggiarsi come prima punta o da esterno destro, lo rende un elemento imprescindibile per l’Olanda. Un jolly per tutte le occasioni. 7 gol sotto la gestione Van Marwijk.
Klaas-Jan Huntelaar. Un Europeo 2008 all’ombra di Van Nistelrooy, l’ultima stagione con tanta panchina nel Milan. Ma ha sempre dimostrato di sapersi trovare pronto all’appuntamento con il gol. E’ l’unica prima punta di ruolo dell’Olanda. Un’occasione difficilmente ripetibile, nonostante la stampa prema per vedere in campo contemporaneamente i “Grote Vier” (Robben-Van der Vaart-Sneijder-Van Persie).
Robin van Persie. Talento purissimo, arriva in Sudafrica riposato dopo sei mesi di infermeria per un pestone ricevuto da Chiellini. Ultimamente è stato provato come attaccante centrale con interessanti risultati. Con 9 reti è il miglior marcatore oranje della gestione Van Marwijk. Un gol nel Mondiale 2006.
Arjen Robben. Al netto degli infortuni, un fuoriclasse. Stagione da incorniciare nel Bayern Monaco, da esterno/ala destra pur essendo completamente mancino (così per la prima volta con Juande Ramos nel Real Madrid). Quante opzioni per il ct sulle fasce: Robben-Sneijder; Robben-Elia; Kuijt-Robben; Van Persie-Robben. Un gol nel Mondiale 2006.
Eljero Elia. Un 2009 strepitoso a cavallo tra Twente e Amburgo, poi l’infortunio che ne ha bruscamente frenato la corsa. Primo cap oranje nel settembre 2009, settimo debuttante della gestione Van Marwijk. Ha vinto facilmente il ballottaggio con Jeremain Lens dell’Az. Può rappresentare l’arma a sorpresa dei tulipani per tentare di risolvere le gare difficili.
Dirk Kuijt. Stagione in tono minore a Liverpool, dove è stato coinvolto dal grigiore generale. Ma la sua duttilità in avanti, dove sa destreggiarsi come prima punta o da esterno destro, lo rende un elemento imprescindibile per l’Olanda. Un jolly per tutte le occasioni. 7 gol sotto la gestione Van Marwijk.
Klaas-Jan Huntelaar. Un Europeo 2008 all’ombra di Van Nistelrooy, l’ultima stagione con tanta panchina nel Milan. Ma ha sempre dimostrato di sapersi trovare pronto all’appuntamento con il gol. E’ l’unica prima punta di ruolo dell’Olanda. Un’occasione difficilmente ripetibile, nonostante la stampa prema per vedere in campo contemporaneamente i “Grote Vier” (Robben-Van der Vaart-Sneijder-Van Persie).
Robin van Persie. Talento purissimo, arriva in Sudafrica riposato dopo sei mesi di infermeria per un pestone ricevuto da Chiellini. Ultimamente è stato provato come attaccante centrale con interessanti risultati. Con 9 reti è il miglior marcatore oranje della gestione Van Marwijk. Un gol nel Mondiale 2006.
Arjen Robben. Al netto degli infortuni, un fuoriclasse. Stagione da incorniciare nel Bayern Monaco, da esterno/ala destra pur essendo completamente mancino (così per la prima volta con Juande Ramos nel Real Madrid). Quante opzioni per il ct sulle fasce: Robben-Sneijder; Robben-Elia; Kuijt-Robben; Van Persie-Robben. Un gol nel Mondiale 2006.
giovedì 3 giugno 2010
I 23 oranje: il centrocampo
Ibrahim Afellay. Secondo miglior giocatore della Eredivisie 2009/10 con il Psv Eindhoven, ma in nazionale non ha mai lasciato tracce. Su di lui permane sempre l’impressione di talento incompiuto. Specialmente quando lo si confronta con il suo gemello/rivale ai tempi delle giovanili oranje: Wesley Sneijder.
Mark van Bommel. Tornato in nazionale grazie al suocero Van Marwijk, rendimento e doti agonistiche fugano qualsiasi dubbio legato ad una qualsivoglia forma di nepotismo. Stagione di grande sostanza nel Bayern Monaco. Elemento fondamentale per l’equilibrio tattico dei tulipani.
Nigel de Jong. Recentemente ripreso dal ct per la ferocia di certi interventi, è il tipico giocatore la cui importanza si nota quando manca. Eccellente a Euro 2008, bene in Premier League nel Manchester City. Ormai limitate al minimo le sue percussioni in avanti, retaggio del suo passato da mezzala.
Stijn Schaars. Ha vinto il ballottaggio con Orlando Engelaar, che gli è superiore tecnicamente ma vale la metà dal punto di vista agonistico. Stagione di coraggio e personalità nella mediana di un Az in piena turbolenza. Il calvario della Champions League gli ha regalato scampoli di esperienza internazionale.
Wesley Sneijder. Ha trovato quest’anno ciò che gli mancava per diventare un campione assoluto: Josè Mourinho. Stagione strepitosa, protagonista in tutte le competizioni vinte dall’Inter. Ottimo a Euro 2008 da esterno sinistro, potrebbe essere riproposto in quel ruolo se Van Marwijk optasse per Van der Vaart titolare.
Rafael van der Vaart. Stagione dignitosa nel Real Madrid, da gregario più che da stella. Terribile però il curriculum in nazionale: flop a Euro 2004 e Germania 2006, insufficiente due anni fa in Svizzera/Austria. Non possiede le caratteristiche per giocare davanti alla difesa, come incautamente provato da Van Basten nel quarto di finale contro la Russia. Trequartista centrale, punto.
Demy de Zeeuw. Prima riserva di De Jong e Van Bommel, non è un incontrista puro ma sa leggere le situazioni di gioco meglio dei citati colleghi. In oranje non potrà usare una delle sue armi migliori, il calcio di punizione, di cui detiene l'esclusiva la ditta Sneijder-Van Persie. Grande stagione da play nell’Ajax.
Mark van Bommel. Tornato in nazionale grazie al suocero Van Marwijk, rendimento e doti agonistiche fugano qualsiasi dubbio legato ad una qualsivoglia forma di nepotismo. Stagione di grande sostanza nel Bayern Monaco. Elemento fondamentale per l’equilibrio tattico dei tulipani.
Nigel de Jong. Recentemente ripreso dal ct per la ferocia di certi interventi, è il tipico giocatore la cui importanza si nota quando manca. Eccellente a Euro 2008, bene in Premier League nel Manchester City. Ormai limitate al minimo le sue percussioni in avanti, retaggio del suo passato da mezzala.
Stijn Schaars. Ha vinto il ballottaggio con Orlando Engelaar, che gli è superiore tecnicamente ma vale la metà dal punto di vista agonistico. Stagione di coraggio e personalità nella mediana di un Az in piena turbolenza. Il calvario della Champions League gli ha regalato scampoli di esperienza internazionale.
Wesley Sneijder. Ha trovato quest’anno ciò che gli mancava per diventare un campione assoluto: Josè Mourinho. Stagione strepitosa, protagonista in tutte le competizioni vinte dall’Inter. Ottimo a Euro 2008 da esterno sinistro, potrebbe essere riproposto in quel ruolo se Van Marwijk optasse per Van der Vaart titolare.
Rafael van der Vaart. Stagione dignitosa nel Real Madrid, da gregario più che da stella. Terribile però il curriculum in nazionale: flop a Euro 2004 e Germania 2006, insufficiente due anni fa in Svizzera/Austria. Non possiede le caratteristiche per giocare davanti alla difesa, come incautamente provato da Van Basten nel quarto di finale contro la Russia. Trequartista centrale, punto.
Demy de Zeeuw. Prima riserva di De Jong e Van Bommel, non è un incontrista puro ma sa leggere le situazioni di gioco meglio dei citati colleghi. In oranje non potrà usare una delle sue armi migliori, il calcio di punizione, di cui detiene l'esclusiva la ditta Sneijder-Van Persie. Grande stagione da play nell’Ajax.
mercoledì 2 giugno 2010
I 23 oranje: la difesa
Sander Boschker. 39 anni, zero presenze in nazionale, ma l’annata magica nel Twente campione d’Olanda gli hanno permesso di vincere il ballottaggio con Piet Velthuizen, estremo del derelitto Vitesse. Il viaggio in Sudafrica come (meritato) premio alla carriera.
Maarten Stekelenburg. Titolare designato, nelle ultime stagioni ha limitato al minimo gli errori, mostrando evidenti segnali di miglioramento. Non sarà mai un nuovo Van der Sar, ma adesso è affidabile. Abile nel parare i rigori.
Michel Vorm. Rendimento stagionale alla mano, il terzo portiere della Eredivisie alla spalle di Velthuizen e Stekelenburg. In Europa League la prossima stagione con l’Utrecht, per merito anche suo. Debuttante in oranje con Van Marwijk nel novembre 2008.
Khalid Boulahrouz. Da quando ha lasciato l’Amburgo non è mai riuscito a disputare una stagione degna di nota, tra Chelsea, Siviglia e Stoccarda. In nazionale però raramente ha deluso. Tra i più positivi a Euro 2008, nonostante la perdita della figlia a torneo in corso. A destra oppure al centro, una roccia dal punto di vista fisico.
Edson Braafheid. Miglior terzino sinistro della Eredivisie 08/09 con il Twente, flop con il Bayern Monaco quest’anno, prima di migrare in Scozia. Van Marwijk, che lo ha lanciato in oranje nel febbraio 2009, lo ha tuttavia preferito al giovane Vurnon Anita.
Giovanni van Bronckhorst. Chiuderà in Sudafrica una carriera arancione iniziata nel 1996 e prossima alla tripla cifra (97 presenze a fine maggio). Nel Feyenoord ha dimostrato di avere ancora sufficiente benzina per spingere sulla fascia. A Euro 2008 contro l’Italia forse la sua miglior partita di sempre con l’Olanda.
John Heitinga. Promessa solo parzialmente mantenuta, in Inghilterra nell’Everton si è ripreso quel posto in nazionale che avrebbe sicuramente perso se fosse rimasto nell’Atletico Madrid, dove ha fallito completamente. In ballottaggio con Ooijer per una maglia da titolare accanto a Mathijsen.
Joris Mathijsen. Come Robocop, indistruttibile. Da tempo nell’Amburgo viaggia su una media di quaranta partite ufficiali all’anno. In oranje quasi un talismano: 54 caps, solo 6 sconfitte. Stranamente sotto tono a Euro 2008. Ma resta il miglior centrale olandese sulla piazza.
Andrè Ooijer. Ha nove anni in più di Heitinga ma quasi lo stesso numero di presenze. Per ulteriori spiegazioni prego rivolgersi ad un certo Jaap Stam. Il centrale del Psv Eindhoven non è reduce dalla sua migliore stagione, soprattutto a causa di qualche acciacco fisico di troppo. L’esperienza internazionale però lo ha fatto preferire a Ron Vlaar.
Gregory van der Wiel. Van Basten lo ha lanciato, Jol lo ha consacrato, Van Marwijk ha colto la palla al balzo. Ha debuttato in nazionale nel febbraio 2009 e non è più uscito dalla squadra. La fascia destra appartiene a lui. Anche grazie ad una stagione di altissimo livello nell’Ajax, dove non lo ha frenato nemmeno l’amore per la mondanità.
Maarten Stekelenburg. Titolare designato, nelle ultime stagioni ha limitato al minimo gli errori, mostrando evidenti segnali di miglioramento. Non sarà mai un nuovo Van der Sar, ma adesso è affidabile. Abile nel parare i rigori.
Michel Vorm. Rendimento stagionale alla mano, il terzo portiere della Eredivisie alla spalle di Velthuizen e Stekelenburg. In Europa League la prossima stagione con l’Utrecht, per merito anche suo. Debuttante in oranje con Van Marwijk nel novembre 2008.
Khalid Boulahrouz. Da quando ha lasciato l’Amburgo non è mai riuscito a disputare una stagione degna di nota, tra Chelsea, Siviglia e Stoccarda. In nazionale però raramente ha deluso. Tra i più positivi a Euro 2008, nonostante la perdita della figlia a torneo in corso. A destra oppure al centro, una roccia dal punto di vista fisico.
Edson Braafheid. Miglior terzino sinistro della Eredivisie 08/09 con il Twente, flop con il Bayern Monaco quest’anno, prima di migrare in Scozia. Van Marwijk, che lo ha lanciato in oranje nel febbraio 2009, lo ha tuttavia preferito al giovane Vurnon Anita.
Giovanni van Bronckhorst. Chiuderà in Sudafrica una carriera arancione iniziata nel 1996 e prossima alla tripla cifra (97 presenze a fine maggio). Nel Feyenoord ha dimostrato di avere ancora sufficiente benzina per spingere sulla fascia. A Euro 2008 contro l’Italia forse la sua miglior partita di sempre con l’Olanda.
John Heitinga. Promessa solo parzialmente mantenuta, in Inghilterra nell’Everton si è ripreso quel posto in nazionale che avrebbe sicuramente perso se fosse rimasto nell’Atletico Madrid, dove ha fallito completamente. In ballottaggio con Ooijer per una maglia da titolare accanto a Mathijsen.
Joris Mathijsen. Come Robocop, indistruttibile. Da tempo nell’Amburgo viaggia su una media di quaranta partite ufficiali all’anno. In oranje quasi un talismano: 54 caps, solo 6 sconfitte. Stranamente sotto tono a Euro 2008. Ma resta il miglior centrale olandese sulla piazza.
Andrè Ooijer. Ha nove anni in più di Heitinga ma quasi lo stesso numero di presenze. Per ulteriori spiegazioni prego rivolgersi ad un certo Jaap Stam. Il centrale del Psv Eindhoven non è reduce dalla sua migliore stagione, soprattutto a causa di qualche acciacco fisico di troppo. L’esperienza internazionale però lo ha fatto preferire a Ron Vlaar.
Gregory van der Wiel. Van Basten lo ha lanciato, Jol lo ha consacrato, Van Marwijk ha colto la palla al balzo. Ha debuttato in nazionale nel febbraio 2009 e non è più uscito dalla squadra. La fascia destra appartiene a lui. Anche grazie ad una stagione di altissimo livello nell’Ajax, dove non lo ha frenato nemmeno l’amore per la mondanità.