Lunedì 25 gennaio 2010 ha ufficialmente cessato di esistere nel calcio professionistico l’HFC Haarlem, il più antico club olandese (è stato fondato l’1 ottobre 1889) dopo lo Sparta Rotterdam. L’incontro di Eerste Divisie con l’Excelsior è stato l’ultimo atto di una società che rappresentava un piccolo pezzo di storia del calcio olandese. La crisi economica vigente però non fa sconti, né si abbandona a facili nostalgie. L’Haarlem chiude con una bacheca che include due coppe d’Olanda (1902 e 1912) e soprattutto un campionato nazionale, vinto nel 1946 quando vestiva la maglia rossoblu il nazionale olandese Kick Smit, il miglior giocatore di sempre del club, a cui in seguito è stata anche dedicata una tribuna dell’Haarlem Stadion. A lui dedicheremo il giusto tributo nel successivo post.
Nell’Haarlem, squadra dell’omonima città sita 20 chilometri a ovest di Amsterdam, ha mosso i primi passi nel professionismo Ruud Gullit, debuttando nella stagione 1978/79 nel ruolo di libero e retrocedendo a fine campionato. L’anno successo il Tulipano Nero è però fondamentale per la vittoria nella Eerste Divisie concludendo il torneo con 14 reti, un bottino confermato anche la stagione successiva in Eredivisie, dove l’Haarlem centra un ottimo quarto posto. Altri giocatori da ricordare sono il difensore Martin Haar e l’esterno sinistro Gerrie Kleton, entrambi protagonisti dell’avventura in Coppa Uefa della squadra nella stagione 82/83. Haar è inoltre stato il primo difensore ad essere premiato miglior giocatore della Eredivisie. Piet Keur è invece il miglior marcatore di sempre nella storia del club: 100 reti tonde in nove stagioni per questa punta potente dallo stile di gioco decisamente “teutonico”.
Nel 1982 una trasferta a Mosca per un incontro di Coppa Uefa finisce nel sangue; scoppia il panico in un settore dello stadio, diverse persone perdono la vita travolte dalla folla in un inferno di neve e ghiaccio. Fonti ufficiali parlano di 60 persone decedute, quelle ufficiose di 340. L’Haarlem lascia la Eredivisie per l’ultima volta nel 1990. Il nuovo millennio è un triste bivacco nella Eerste Divisie, dove nemmeno il rapporto di partnership con l’Ajax riesce a produrre un qualche risultato degno di nota, né per un club né per l’altro. Oggi è stato sufficiente un debito di due milioni di euro per sancire la fine dell’avventura.
domenica 31 gennaio 2010
sabato 30 gennaio 2010
Italia, fuga dagli stadi
Dall’esterno l’immagine è quella di uno scintillante cinema multisala che proietta film con cast di respiro internazionale. Poi però, una volta ammirata la munifica cornice e acquistato il biglietto, si scopre che le poltroncine sono scomode, i bagni sporchi, i pop-corn troppo salati e sullo schermo lo spettacolo non avvince, anche perché spesso a metà, se non prima, si è già indovinato il finale. Pertanto la gente preferisce un televisore e la comodità del salotto di casa propria. E’ questa l’impietosa immagine della Serie A che emerge da un’indagine condotta dalla società di consulenza Finance Football, che ha confrontato la capacità media degli stadi di quindici campionati europei, con la media spettatori presenti in ciascun torneo nella stagione 2009/2010. E’ stato quindi elaborato un coefficiente di “riempimento” che vede il campionato italiano all’undicesimo posto della graduatoria, alle spalle persino della Super League svizzera e della League One, ovvero la serie C inglese.
I numeri non lasciano spazio ad alcun dubbio: con una capacità media degli stadi di 42.904 posti, la seconda più alta in Europa dopo la Bundesliga tedesca (47.642), la Serie A si deve accontentare di 23.877 persone ad incontro, per una percentuale pari al 55.7%. Praticamente un seggiolino vuoto su due, perché per ogni derby di Milano che registra il tutto esaurito ci sono decine di partite, da Cagliari a Bologna, da Siena a Bari, dove buona parte delle gradinate risultano tristemente vuote. Non bastano Eto’o, Pato, Sneijder, Buffon, Totti, Ronaldinho e Mutu; la Serie A si è trasformata in uno sport televisivo. E non a caso gli introiti derivanti dai diritti tv incidono sulle entrate dei club italiani in una percentuale (compresa tra il 60% e il 70%) non paragonabile al resto d’Europa, che fa cassa soprattutto con la biglietteria, gli sponsor e il merchandising.
Inghilterra, Germania e Olanda sono i tre paesi nel quale il calcio è considerato uno sport da vivere live, un rito a cui assistere in diretta senza il diaframma di un qualsivoglia schermo. La Premier League riempie i suoi impianti per il 91.9%, la Bundesliga per l’89.9%, superando però gli inglesi nella media spettatori (42.833 contro 34.082). Notevole la performance della Eredivisie olandese (88.4%), che a fronte di una capacità degli impianti pari alla metà esatta di quella della Serie A, porta allo stadio solamente 4.500 spettatori in meno (19.251 contro 23.877). Eppure Groningen e Vvv Venlo non dovrebbero teoricamente offrire uno spettacolo superiore a Sampdoria e Catania.
Il principale fattore di differenza è ovviamente rappresentato dalla qualità degli impianti, dal comfort e dalla sicurezza che riescono ad offrire. L’Old Trafford e l’Emirates Stadium rendono rispettivamente a Manchester United e Arsenal una media di 120 milioni di euro l’anno, l’Allianz Arena ne frutta 70 al Bayern Monaco, mentre l’Inter ne ricava meno di 30 dal Giuseppe Meazza. Tralasciando per una volta gli ormai stranoti esempi di Inghilterra e Germania, è interessante rilevare come anche l’exploit dell’Olanda poggia le proprie basi su politiche gestionali lungimiranti. Negli ultimi quindici anni numerosi club, anche di dimensioni medio-piccole, hanno investito nella costruzione di impianti moderni. Così accanto alla rinomata Amsterdam Arena e al De Kuip (Rotterdam), entrambi stadi a cinque stelle Uefa, sono sorti i multifunzionali Euroborg (Groningen) e Rat Verlegh (Breda), l’avveniristico Gelredome (Arnhem), quindi l’Az Stadium di Alkmaar, il Grolsch Veste di Enschede, il Parkstad Limburg di Kerkrade e il Galgenwaard di Utrecht. Impianti che oscillano tra i 25mila e i 40mila posti, ma dagli standard qualitativi decisamente elevati.
Gli stadi rappresentano il problema principale, ma non l’unico. Un clima avvelenato e isterico attorno ai temi “caldi” del calcio (errori arbitrali, violenza, stagioni fallimentari di club titolati) crea un circolo vizioso che si riflette nei rapporti tra club, addetti ai lavori e tifosi, rendendo meno appetibile il “prodotto” offerto. E’ una questione, anche, di cultura sportiva. La capolista del campionato che, dopo aver mostrato la propria manifesta superiorità sulla diretta rivale, cede ai lamenti e alle teorie del complotto, rappresenta un chiaro segnale di come la strada da percorrere sia ancora lunga. Nel frattempo, lo scintillante multisala Italia è destinato a rimanere mezzo vuoto.
Fonte: Il Giornale
I numeri non lasciano spazio ad alcun dubbio: con una capacità media degli stadi di 42.904 posti, la seconda più alta in Europa dopo la Bundesliga tedesca (47.642), la Serie A si deve accontentare di 23.877 persone ad incontro, per una percentuale pari al 55.7%. Praticamente un seggiolino vuoto su due, perché per ogni derby di Milano che registra il tutto esaurito ci sono decine di partite, da Cagliari a Bologna, da Siena a Bari, dove buona parte delle gradinate risultano tristemente vuote. Non bastano Eto’o, Pato, Sneijder, Buffon, Totti, Ronaldinho e Mutu; la Serie A si è trasformata in uno sport televisivo. E non a caso gli introiti derivanti dai diritti tv incidono sulle entrate dei club italiani in una percentuale (compresa tra il 60% e il 70%) non paragonabile al resto d’Europa, che fa cassa soprattutto con la biglietteria, gli sponsor e il merchandising.
Inghilterra, Germania e Olanda sono i tre paesi nel quale il calcio è considerato uno sport da vivere live, un rito a cui assistere in diretta senza il diaframma di un qualsivoglia schermo. La Premier League riempie i suoi impianti per il 91.9%, la Bundesliga per l’89.9%, superando però gli inglesi nella media spettatori (42.833 contro 34.082). Notevole la performance della Eredivisie olandese (88.4%), che a fronte di una capacità degli impianti pari alla metà esatta di quella della Serie A, porta allo stadio solamente 4.500 spettatori in meno (19.251 contro 23.877). Eppure Groningen e Vvv Venlo non dovrebbero teoricamente offrire uno spettacolo superiore a Sampdoria e Catania.
Il principale fattore di differenza è ovviamente rappresentato dalla qualità degli impianti, dal comfort e dalla sicurezza che riescono ad offrire. L’Old Trafford e l’Emirates Stadium rendono rispettivamente a Manchester United e Arsenal una media di 120 milioni di euro l’anno, l’Allianz Arena ne frutta 70 al Bayern Monaco, mentre l’Inter ne ricava meno di 30 dal Giuseppe Meazza. Tralasciando per una volta gli ormai stranoti esempi di Inghilterra e Germania, è interessante rilevare come anche l’exploit dell’Olanda poggia le proprie basi su politiche gestionali lungimiranti. Negli ultimi quindici anni numerosi club, anche di dimensioni medio-piccole, hanno investito nella costruzione di impianti moderni. Così accanto alla rinomata Amsterdam Arena e al De Kuip (Rotterdam), entrambi stadi a cinque stelle Uefa, sono sorti i multifunzionali Euroborg (Groningen) e Rat Verlegh (Breda), l’avveniristico Gelredome (Arnhem), quindi l’Az Stadium di Alkmaar, il Grolsch Veste di Enschede, il Parkstad Limburg di Kerkrade e il Galgenwaard di Utrecht. Impianti che oscillano tra i 25mila e i 40mila posti, ma dagli standard qualitativi decisamente elevati.
Gli stadi rappresentano il problema principale, ma non l’unico. Un clima avvelenato e isterico attorno ai temi “caldi” del calcio (errori arbitrali, violenza, stagioni fallimentari di club titolati) crea un circolo vizioso che si riflette nei rapporti tra club, addetti ai lavori e tifosi, rendendo meno appetibile il “prodotto” offerto. E’ una questione, anche, di cultura sportiva. La capolista del campionato che, dopo aver mostrato la propria manifesta superiorità sulla diretta rivale, cede ai lamenti e alle teorie del complotto, rappresenta un chiaro segnale di come la strada da percorrere sia ancora lunga. Nel frattempo, lo scintillante multisala Italia è destinato a rimanere mezzo vuoto.
Fonte: Il Giornale
venerdì 29 gennaio 2010
Dal gol al gulag
La storia di Eduard Streltsov, il Pelè bianco vittima del regime sovietico.
Quando il 25 maggio del 1958 Eduard Streltsov varcò la soglia della dacia di Eduard Karakhanov, ufficiale militare da poco rientrato dalle lontane lande dell’Unione Sovietica orientale, tutto il mondo giaceva ai suoi piedi. Era alto, giovane, vigoroso, affascinante e soprattutto pieno di talento. Con una palla tra i piedi sapeva fare cose incredibili. Mai visto nessuno come lui su un campo da calcio dell’URSS, affermavano all’unanimità i commentatori sportivi; un’opinione, questa, diffusa anche nella parte di Europa sita a ovest della cortina di ferro, dal momento che nel 1957 il nome dell’allora 17enne Eduard Streltsov figurava al settimo posto nella graduatoria del Pallone d’Oro, assegnato quell’anno ad Alfredo Di Stefano. Pochi giorni dopo quella tiepida sera di maggio l’Unione Sovietica debuttava nella fase finale di un campionato mondiale pareggiando 2-2 contro l’Inghilterra. Streltsov però non era presente. Né in campo, tantomeno in panchina. Era rinchiuso in uno cella del Butirka, uno dei più duri carceri sovietici, in attesa di giudizio per un’accusa di stupro. Fu condannato a dodici anni e spedito in un gulag. Per un crimine che, a detta di molti, non aveva mai commesso.
Streltsov rappresentava uno squarcio di luce nel plumbeo cielo del calcio sovietico dei primi anni Cinquanta. Fino alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953, la pressione sulla nazionale dell’URSS era enorme. Il calcio era politica, e ogni sconfitta rappresentava “uno sfregio all’immagine dello stato sovietico”. Quando nel 1952 alle Olimpiadi di Helsinki l’URSS fu eliminata dalla Jugoslavia, un giornale di Belgrado titolò “Tito batte Stalin 3-1”. Furibondo, il dittatore georgiano colpì duramente il CDSA Mosca, la squadra dell’esercito (oggi CSKA) i cui giocatori costituivano l’ossatura principale della nazionale, smantellando il club e sospendendo a vita tre calciatori. La dipartita di Stalin aveva reso l’ambiente più respirabile; al resto di aveva pensato Streltsov, che aveva debuttato nel 1954 tra le fila della Torpedo Mosca (il quinto club della capitale, all’epoca legato alla ZIL, azienda produttrice di auto e camion) stabilendo subito un primato: a 16 anni, 8 mesi e 24 giorni era diventato il più giovane marcatore di sempre nella storia del campionato dell’Unione Sovietica. Subito cooptato dalla nazionale, aveva esordito rifilando una tripletta alla Svezia in un incontro amichevole. Ai giochi olimpici di Melbourne del 1956 era arrivato il suo capolavoro.
Era un’Unione Sovietica con i cerotti quella che stava cercando di resistere alla Bulgaria nelle semifinali delle Olimpiadi, dopo aver eliminato nei turni precedenti Germania Ovest (rete decisiva di Streltsov) e Indonesia. L’esterno destro Nikolay Tyschenko giocava con una clavicola rotta, mentre l’attaccante Valentin Ivanov zoppicava vistosamente. Non esistendo ancora i cambi, l’URSS giocava in nove uomini, pagando dazio nei primi minuti dei tempi supplementari: 1-0 per la Bulgaria, che però non aveva fatto i conti con Streltsov, a 18 anni già dotato di sufficiente classe e personalità per caricarsi sulle spalle la squadra e realizzare una doppietta nelle battute finali. I sovietici vinceranno l’oro olimpico, con Streltsov però relegato in panchina per scelta tecnica. Gavriil Kachalin, l’allenatore dell’URSS, voleva infatti che la coppia d’attacco fosse composta da giocatori dello stesso club, pertanto già affiatati. Fuori Ivanov per infortunio, automaticamente era scattata la panchina anche per Streltsov, che non ricevette nemmeno la medaglia (la politica dell’URSS prevedeva che questa venisse consegnata solo a chi effettivamente aveva disputato la finale). Nikita Simonyan, il sostituto di Streltsov durante l’ultimo atto, gli offrì la propria a fine incontro. “Non preoccuparti Nikita”, fu la risposta, “ne ho di tempo per vincere tanti altri trofei”. Forse sarebbe stato davvero così, se poco meno di due anni dopo Streltsov non si fosse imbattuto in Marina Lebedeva.
Torniamo alla famigerata sera del 25 maggio 1958 nella dacia di Karakhanov, dove la vodka scorre a fiumi e le belle donne non mancano. Streltsov non è mai stato insensibile né a Bacco né a Venere. La mattina seguente si sveglia accanto alla giovane Lebedeva. Poche ore dopo viene arrestato con l’accusa di averla stuprata. Durante l’interrogatorio un agente del KGB avvicina il prigioniero: “Fuori da qui ti aspettano i Mondiali in Svezia. Confessa e ti facciamo uscire”. Streltsov ci casca e accetta, firmando la propria condanna. Il suo futuro non sarà la sfida contro Pelè, oppure Hamrin, Rahn o Fontaine, bensì quella per la sopravvivenza in un campo di lavoro e di rieducazione. Colpevole o vittima di un complotto? E’ uno dei più grandi misteri del calcio russo. Debole appare la teoria che vuole Streltsov punito per aver rifiutato di trasferirsi dalla Torpedo alla Dinamo Mosca irritando i proprietari di quest’ultima, ovvero il KGB. Ben più fondata è invece l’ipotesi che tutta la vicenda fu una macchinazione ad opera di Yekaterina Furtseva, l’unica donna ad essere mai stata ammessa nel Politburo, l’organo esecutivo del PCUS, il Partito Comunista Sovietico. I due si erano conosciuti nell’atrio del Cremlino durante le celebrazioni per la vittoria olimpica; fu in quell’occasione che la Furtseva chiese a Streltsov di sposare la 16enne figlia Svetlana, ottenendo un secco rifiuto. “Sono già fidanzato e presto convolerò a nozze”, replicò il giocatore, che poco dopo, forse tradito dai fumi dell’alcol, calcò la mano con un gruppo di amici: “non sposerò mai quella scimmia”. Passano poche settimane, e sulla stampa inizia una alquanto sospetta campagna di denigrazione contro l’idolo indiscusso del calcio sovietico. “Questo non è un eroe”, titola a tutta pagina il Sovetsky Sport nell’aprile 1957 per commentare l’espulsione di Streltsov, per fallo di reazione, in una partita contro la Dinamo Minsk. Curioso rilevare come tra il 1954 e il 1958 nel campionato sovietico ci furono 45 espulsioni per gioco violento; la stampa ne riportò, dedicandogli un trafiletto, meno della metà. Streltsov fu l’unico ad avere il titolone in prima pagina.
Eduard Streltsov torna a casa nel 1963 dopo cinque anni di prigionia, ma la squalifica a vita comminatagli al momento della condanna gli viene revocata da Leonid Breznev, subentrato a Nikita Kruscev (il “protettore” politico della Furtseva) quale Primo Segretario del PCUS, nell’ottobre del 1964. Può così lasciare l’OTK, la squadra aziendale del Dipartimento di Supervisione Tecnica della ZIL, per la sua amata Torpedo Mosca. In campo scende un giocatore lento, appesantito, ma dalle qualità tecniche e balistiche ancora intatte; nel 1965 la Torpedo è campione nazionale, tre anni dopo arriva anche la coppa dell’URSS. Streltsov viene votato miglior calciatore sovietico nel 1967 e nel 1968, tornando anche a vestire la maglia della nazionale, con la quale totalizza 38 presenze e 24 reti. Il primo novembre 1966 è in campo a Milano contro l’Italia, irriconoscibile, con tanti chili in più e tanti capelli in meno. Gli azzurri vincono 1-0 grazie ad un gol di Guarneri. E’ la platonica rivincita della sconfitta subita a Sunderland qualche mese rima in occasione della Coppa Rimet disputata in Inghilterra. Poteva essere il terzo mondiale di Streltsov dopo quelli del 1958 e del 1962.
Eduard Streltsov muore nel 1990 a soli 53 anni per un cancro alla gola, causato con tutta probabilità dai lavori nelle miniere siberiane. Solo sul letto di morte rompe il silenzio che ha sempre mantenuto sulla vicenda, confessando ai famigliari la propria innocenza. Oggi lo stadio della Torpedo Mosca porta il suo nome. Secondo Axel Vartanyan, storico e archivista del calcio nell’era sovietica, “il valore simbolico di Streltsov è enorme. In un mondo di intrighi e oppressione di stato, lui era eroicamente indipendente”.
Fonte: Guerin Sportivo
Quando il 25 maggio del 1958 Eduard Streltsov varcò la soglia della dacia di Eduard Karakhanov, ufficiale militare da poco rientrato dalle lontane lande dell’Unione Sovietica orientale, tutto il mondo giaceva ai suoi piedi. Era alto, giovane, vigoroso, affascinante e soprattutto pieno di talento. Con una palla tra i piedi sapeva fare cose incredibili. Mai visto nessuno come lui su un campo da calcio dell’URSS, affermavano all’unanimità i commentatori sportivi; un’opinione, questa, diffusa anche nella parte di Europa sita a ovest della cortina di ferro, dal momento che nel 1957 il nome dell’allora 17enne Eduard Streltsov figurava al settimo posto nella graduatoria del Pallone d’Oro, assegnato quell’anno ad Alfredo Di Stefano. Pochi giorni dopo quella tiepida sera di maggio l’Unione Sovietica debuttava nella fase finale di un campionato mondiale pareggiando 2-2 contro l’Inghilterra. Streltsov però non era presente. Né in campo, tantomeno in panchina. Era rinchiuso in uno cella del Butirka, uno dei più duri carceri sovietici, in attesa di giudizio per un’accusa di stupro. Fu condannato a dodici anni e spedito in un gulag. Per un crimine che, a detta di molti, non aveva mai commesso.
Streltsov rappresentava uno squarcio di luce nel plumbeo cielo del calcio sovietico dei primi anni Cinquanta. Fino alla morte di Stalin, avvenuta nel 1953, la pressione sulla nazionale dell’URSS era enorme. Il calcio era politica, e ogni sconfitta rappresentava “uno sfregio all’immagine dello stato sovietico”. Quando nel 1952 alle Olimpiadi di Helsinki l’URSS fu eliminata dalla Jugoslavia, un giornale di Belgrado titolò “Tito batte Stalin 3-1”. Furibondo, il dittatore georgiano colpì duramente il CDSA Mosca, la squadra dell’esercito (oggi CSKA) i cui giocatori costituivano l’ossatura principale della nazionale, smantellando il club e sospendendo a vita tre calciatori. La dipartita di Stalin aveva reso l’ambiente più respirabile; al resto di aveva pensato Streltsov, che aveva debuttato nel 1954 tra le fila della Torpedo Mosca (il quinto club della capitale, all’epoca legato alla ZIL, azienda produttrice di auto e camion) stabilendo subito un primato: a 16 anni, 8 mesi e 24 giorni era diventato il più giovane marcatore di sempre nella storia del campionato dell’Unione Sovietica. Subito cooptato dalla nazionale, aveva esordito rifilando una tripletta alla Svezia in un incontro amichevole. Ai giochi olimpici di Melbourne del 1956 era arrivato il suo capolavoro.
Era un’Unione Sovietica con i cerotti quella che stava cercando di resistere alla Bulgaria nelle semifinali delle Olimpiadi, dopo aver eliminato nei turni precedenti Germania Ovest (rete decisiva di Streltsov) e Indonesia. L’esterno destro Nikolay Tyschenko giocava con una clavicola rotta, mentre l’attaccante Valentin Ivanov zoppicava vistosamente. Non esistendo ancora i cambi, l’URSS giocava in nove uomini, pagando dazio nei primi minuti dei tempi supplementari: 1-0 per la Bulgaria, che però non aveva fatto i conti con Streltsov, a 18 anni già dotato di sufficiente classe e personalità per caricarsi sulle spalle la squadra e realizzare una doppietta nelle battute finali. I sovietici vinceranno l’oro olimpico, con Streltsov però relegato in panchina per scelta tecnica. Gavriil Kachalin, l’allenatore dell’URSS, voleva infatti che la coppia d’attacco fosse composta da giocatori dello stesso club, pertanto già affiatati. Fuori Ivanov per infortunio, automaticamente era scattata la panchina anche per Streltsov, che non ricevette nemmeno la medaglia (la politica dell’URSS prevedeva che questa venisse consegnata solo a chi effettivamente aveva disputato la finale). Nikita Simonyan, il sostituto di Streltsov durante l’ultimo atto, gli offrì la propria a fine incontro. “Non preoccuparti Nikita”, fu la risposta, “ne ho di tempo per vincere tanti altri trofei”. Forse sarebbe stato davvero così, se poco meno di due anni dopo Streltsov non si fosse imbattuto in Marina Lebedeva.
Torniamo alla famigerata sera del 25 maggio 1958 nella dacia di Karakhanov, dove la vodka scorre a fiumi e le belle donne non mancano. Streltsov non è mai stato insensibile né a Bacco né a Venere. La mattina seguente si sveglia accanto alla giovane Lebedeva. Poche ore dopo viene arrestato con l’accusa di averla stuprata. Durante l’interrogatorio un agente del KGB avvicina il prigioniero: “Fuori da qui ti aspettano i Mondiali in Svezia. Confessa e ti facciamo uscire”. Streltsov ci casca e accetta, firmando la propria condanna. Il suo futuro non sarà la sfida contro Pelè, oppure Hamrin, Rahn o Fontaine, bensì quella per la sopravvivenza in un campo di lavoro e di rieducazione. Colpevole o vittima di un complotto? E’ uno dei più grandi misteri del calcio russo. Debole appare la teoria che vuole Streltsov punito per aver rifiutato di trasferirsi dalla Torpedo alla Dinamo Mosca irritando i proprietari di quest’ultima, ovvero il KGB. Ben più fondata è invece l’ipotesi che tutta la vicenda fu una macchinazione ad opera di Yekaterina Furtseva, l’unica donna ad essere mai stata ammessa nel Politburo, l’organo esecutivo del PCUS, il Partito Comunista Sovietico. I due si erano conosciuti nell’atrio del Cremlino durante le celebrazioni per la vittoria olimpica; fu in quell’occasione che la Furtseva chiese a Streltsov di sposare la 16enne figlia Svetlana, ottenendo un secco rifiuto. “Sono già fidanzato e presto convolerò a nozze”, replicò il giocatore, che poco dopo, forse tradito dai fumi dell’alcol, calcò la mano con un gruppo di amici: “non sposerò mai quella scimmia”. Passano poche settimane, e sulla stampa inizia una alquanto sospetta campagna di denigrazione contro l’idolo indiscusso del calcio sovietico. “Questo non è un eroe”, titola a tutta pagina il Sovetsky Sport nell’aprile 1957 per commentare l’espulsione di Streltsov, per fallo di reazione, in una partita contro la Dinamo Minsk. Curioso rilevare come tra il 1954 e il 1958 nel campionato sovietico ci furono 45 espulsioni per gioco violento; la stampa ne riportò, dedicandogli un trafiletto, meno della metà. Streltsov fu l’unico ad avere il titolone in prima pagina.
Eduard Streltsov torna a casa nel 1963 dopo cinque anni di prigionia, ma la squalifica a vita comminatagli al momento della condanna gli viene revocata da Leonid Breznev, subentrato a Nikita Kruscev (il “protettore” politico della Furtseva) quale Primo Segretario del PCUS, nell’ottobre del 1964. Può così lasciare l’OTK, la squadra aziendale del Dipartimento di Supervisione Tecnica della ZIL, per la sua amata Torpedo Mosca. In campo scende un giocatore lento, appesantito, ma dalle qualità tecniche e balistiche ancora intatte; nel 1965 la Torpedo è campione nazionale, tre anni dopo arriva anche la coppa dell’URSS. Streltsov viene votato miglior calciatore sovietico nel 1967 e nel 1968, tornando anche a vestire la maglia della nazionale, con la quale totalizza 38 presenze e 24 reti. Il primo novembre 1966 è in campo a Milano contro l’Italia, irriconoscibile, con tanti chili in più e tanti capelli in meno. Gli azzurri vincono 1-0 grazie ad un gol di Guarneri. E’ la platonica rivincita della sconfitta subita a Sunderland qualche mese rima in occasione della Coppa Rimet disputata in Inghilterra. Poteva essere il terzo mondiale di Streltsov dopo quelli del 1958 e del 1962.
Eduard Streltsov muore nel 1990 a soli 53 anni per un cancro alla gola, causato con tutta probabilità dai lavori nelle miniere siberiane. Solo sul letto di morte rompe il silenzio che ha sempre mantenuto sulla vicenda, confessando ai famigliari la propria innocenza. Oggi lo stadio della Torpedo Mosca porta il suo nome. Secondo Axel Vartanyan, storico e archivista del calcio nell’era sovietica, “il valore simbolico di Streltsov è enorme. In un mondo di intrighi e oppressione di stato, lui era eroicamente indipendente”.
Fonte: Guerin Sportivo
giovedì 28 gennaio 2010
Ho visto MaraDonny
Quarti di finale di Coppa d’Olanda con pronostici confermati a metà. Passano le favorite Ajax e Twente, ma anche Feyenoord e Go Ahead Eagles. Le Aquile regalano la più grande sorpresa della serata, andando ad espugnare il campo del Nac Breda grazie ad una doppietta del ripescato “Mara”Donny de Groot, fresco del rientro in Olanda dopo la negativa esperienza australiana con i Newcastle Jets. Entrato in campo nel secondo tempo, fa tutto lui: rete dell’1-0, rigore provocato su De Graaf per il momentaneo pareggio di Donny Gorter, guizzo decisivo su assist di Kurt Elshot. Al resto ci ha pensato il portiere del Go Ahead Eagles Remko Pasveer, già protagonista negli ottavi quando il club di Deventer eliminò un’altra squadra di Eredivisie, l’Heracles Almelo. Le ultime squadre di Eerste Divisie ad approdare alle semifinali di Coppa d’Olanda sono state l’Helmond Sport (stagione 96/97) e il Telstar (91/92). Nel 2002 ci riuscì invece lo Jong Ajax.
Difficilmente pronosticabile anche il successo del Feyenoord al Philips Stadion di Eindhoven. Un 3-0 che infligge al Psv la prima sconfitta in un incontro ufficiale dal marzo 2009. Con entrambe le squadre in formazione tipo, la differenza è stata fatta da errori e prodezze individuali. I primi sono stati commessi dal centrale messicano Francisco Rodriguez e dal subentrato Orlando Engelaar, che hanno permesso a Karim El Ahmadi di segnare rispettivamente la prima e la terza rete dell’incontro. Il 2-0 è invece arrivato grazie ad un perla di Giovanni van Bronckhorst, autore di un siluro da 25 metri che si è insaccato sotto l’incrocio dei pali della porta difesa dall’incolpevole Isaksson. Ola Toivonen e Ibrahim Afellay i più vivi nel Psv. Ma non era serata.
In semifinale il club di Rotterdam si troverà di fronte i nemici storici dell’Ajax, usciti vittoriosi dall’Amsterdam Arena tra mille difficoltà contro il Nec Nijmegen. Privi di Luis Suarez, gli ajacidi sono stati costretti ai tempi supplementari da un coriaceo e battagliero Nec, che ha concluso l’incontro in nove uomini. In cattedra il solito Demy de Zeeuw, autore della rete del vantaggio (dopo un bello spunto di Dennis Rommedahl sulla destra) e dei due assist su calcio piazzato che hanno mandato in gol Toby Alderweireld (al minuto 112) e Siem de Jong (al minuto 114). Nel frattempo il Nec, rimasto in dieci poco prima dell’intervallo, aveva pareggiato i conti con Bjorn Vleminckx, per poi portarsi in vantaggio con un colpo di testa di Rens van Eijden, servito da una punizione dell’ottimo Jeffrey Sarpong. Cartellino di proprietà dell’Ajax, Sarpong ha fatto di tutto per dimostrarsi degno di potere tornare, un domani, a indossare la casacca biancorossa. Nel finale però l’adrenalina lo ha tradito, regalandogli un cartellino rosso.
Tutto troppo facile infine per il Twente all’Het Kasteel di Rotterdam. Troppo tenero lo Sparta attuale, paurosamente involuto rispetto alla brillante squadra vista a cavallo tra ottobre e novembre, per creare qualche grattacapo agli uomini di McClaren, che sono tornati al gol dopo due pareggi consecutivi a reti bianche. Apertura di Kenneth Perez dopo 23 minuti di gioco, quindi è toccato a Blaise Nkufo beffare con un pallonetto un Aleksander Seliga assurdamente fuori dai pali. Lo Sparta attacca, il Twente continua a segnare; prima nuovamente con Nkufo, poi con il costaricano Bryan Ruiz. 4-0 e buonanotte.
Difficilmente pronosticabile anche il successo del Feyenoord al Philips Stadion di Eindhoven. Un 3-0 che infligge al Psv la prima sconfitta in un incontro ufficiale dal marzo 2009. Con entrambe le squadre in formazione tipo, la differenza è stata fatta da errori e prodezze individuali. I primi sono stati commessi dal centrale messicano Francisco Rodriguez e dal subentrato Orlando Engelaar, che hanno permesso a Karim El Ahmadi di segnare rispettivamente la prima e la terza rete dell’incontro. Il 2-0 è invece arrivato grazie ad un perla di Giovanni van Bronckhorst, autore di un siluro da 25 metri che si è insaccato sotto l’incrocio dei pali della porta difesa dall’incolpevole Isaksson. Ola Toivonen e Ibrahim Afellay i più vivi nel Psv. Ma non era serata.
In semifinale il club di Rotterdam si troverà di fronte i nemici storici dell’Ajax, usciti vittoriosi dall’Amsterdam Arena tra mille difficoltà contro il Nec Nijmegen. Privi di Luis Suarez, gli ajacidi sono stati costretti ai tempi supplementari da un coriaceo e battagliero Nec, che ha concluso l’incontro in nove uomini. In cattedra il solito Demy de Zeeuw, autore della rete del vantaggio (dopo un bello spunto di Dennis Rommedahl sulla destra) e dei due assist su calcio piazzato che hanno mandato in gol Toby Alderweireld (al minuto 112) e Siem de Jong (al minuto 114). Nel frattempo il Nec, rimasto in dieci poco prima dell’intervallo, aveva pareggiato i conti con Bjorn Vleminckx, per poi portarsi in vantaggio con un colpo di testa di Rens van Eijden, servito da una punizione dell’ottimo Jeffrey Sarpong. Cartellino di proprietà dell’Ajax, Sarpong ha fatto di tutto per dimostrarsi degno di potere tornare, un domani, a indossare la casacca biancorossa. Nel finale però l’adrenalina lo ha tradito, regalandogli un cartellino rosso.
Tutto troppo facile infine per il Twente all’Het Kasteel di Rotterdam. Troppo tenero lo Sparta attuale, paurosamente involuto rispetto alla brillante squadra vista a cavallo tra ottobre e novembre, per creare qualche grattacapo agli uomini di McClaren, che sono tornati al gol dopo due pareggi consecutivi a reti bianche. Apertura di Kenneth Perez dopo 23 minuti di gioco, quindi è toccato a Blaise Nkufo beffare con un pallonetto un Aleksander Seliga assurdamente fuori dai pali. Lo Sparta attacca, il Twente continua a segnare; prima nuovamente con Nkufo, poi con il costaricano Bryan Ruiz. 4-0 e buonanotte.
Tutti per Kuijt
Piccola curiosità. Il giocatore più prolifico del decennio in Eredivisie è Dirk Kuijt. Nelle sue stagioni con Utrecht e Feyenoord l’attaccante di Katwijk, attualmente al suo quarto campionato nel Liverpool, ha messo a segno la bellezza di 116 gol e 70 assist. Nessuno ha fatto meglio di lui, né come realizzatore, né come suggeritore.
Oltre a Kuijt, di palloni nelle reti avversarie ne hanno infilati tanti Blaise Nkufo (110, tutte con il Twente), Klaas-Jan Huntelaar (109 con Heerenveen e Ajax) e Jan Vennegoor of Hesselink (105 con Twente e Psv Eindhoven). Negli assist invece posizioni di eccellenza per Kenneth Perez (56 con Az Alkmaar, Psv Eindhoven, Ajax e Twente), Dennis Rommedahl (59 con Psv Eindhoven, Nec Nijmegen e Ajax) e Luis Suarez (44 con Ajax e Groningen).
Oltre a Kuijt, di palloni nelle reti avversarie ne hanno infilati tanti Blaise Nkufo (110, tutte con il Twente), Klaas-Jan Huntelaar (109 con Heerenveen e Ajax) e Jan Vennegoor of Hesselink (105 con Twente e Psv Eindhoven). Negli assist invece posizioni di eccellenza per Kenneth Perez (56 con Az Alkmaar, Psv Eindhoven, Ajax e Twente), Dennis Rommedahl (59 con Psv Eindhoven, Nec Nijmegen e Ajax) e Luis Suarez (44 con Ajax e Groningen).
martedì 26 gennaio 2010
Il giocatore della settimana: Ola Toivonen
Tre candidati per due posti. Uno ovviamente è di troppo, ma chi? Questo è stato il dilemma di Fred Rutten fin dall’inizio della stagione. Danny Koevermans, Jonathan Reis e Ola Toivonen. Esperienza il primo, sorpresa il secondo (ripescato da Rutten dopo un paio di stagioni buttate via nello Jong Psv a fare il fenomeno solo fuori dal campo), talento finora inespresso il terzo. Intanto il Psv macina risultati utili senza soluzione di continuità. La comoda vittoria (3-0) sul Nec Nijmegen è stata la 32esima partita ufficiale consecutiva, Europa League inclusa, senza sconfitta per il club di Eindhoven. E forse è stato anche il match che ha definitivamente stabilito le gerarchie nel reparto offensivo del Psv.
Reis, 8 reti quest’anno, si è pressoché auto-eliminato dalla contesa rientrando sei giorni in ritardo dalle vacanze in Brasile, e per di più decisamente sovrappeso. Rutten ha pertanto scelto: Koevermans prima punta, Danko Lazovic a destra, Balasz Dzsudzsak a sinistra e Toivonen numero 10. Il 23enne svedese ha infilato una doppietta, segnando prima con un colpo di testa e poi dopo uno spunto personale dopo aver saltato in dribbling due avversari. Meglio da prima punta o da numero 10? Il dibattito resta aperto.
Acquistato un anno fa dal Malmö per 4 milioni di euro, Toivonen ha finora alternato pause e spunti interessanti. Non lo hanno finora aiutato le sue caratteristiche ibride. Secondo Rutten le sue qualità tecniche possono essere sfruttate al meglio posizionandolo dietro una punta di ruolo, mentre lo svedese gradisce un impiego più vicino alla porta avversaria. Ne è nato un contrasto che, a cavallo tra ottobre e novembre, ha relegato il giocatore in panchina. Poi è arrivata la tregua, sancita da un Toivonen tornato decisivo sia da subentrato (sua la rete da tre punti contro l’AZ) che da titolare. Un giocatore convinto e, finalmente, convincente.
Reis, 8 reti quest’anno, si è pressoché auto-eliminato dalla contesa rientrando sei giorni in ritardo dalle vacanze in Brasile, e per di più decisamente sovrappeso. Rutten ha pertanto scelto: Koevermans prima punta, Danko Lazovic a destra, Balasz Dzsudzsak a sinistra e Toivonen numero 10. Il 23enne svedese ha infilato una doppietta, segnando prima con un colpo di testa e poi dopo uno spunto personale dopo aver saltato in dribbling due avversari. Meglio da prima punta o da numero 10? Il dibattito resta aperto.
Acquistato un anno fa dal Malmö per 4 milioni di euro, Toivonen ha finora alternato pause e spunti interessanti. Non lo hanno finora aiutato le sue caratteristiche ibride. Secondo Rutten le sue qualità tecniche possono essere sfruttate al meglio posizionandolo dietro una punta di ruolo, mentre lo svedese gradisce un impiego più vicino alla porta avversaria. Ne è nato un contrasto che, a cavallo tra ottobre e novembre, ha relegato il giocatore in panchina. Poi è arrivata la tregua, sancita da un Toivonen tornato decisivo sia da subentrato (sua la rete da tre punti contro l’AZ) che da titolare. Un giocatore convinto e, finalmente, convincente.
venerdì 22 gennaio 2010
Tutto Zambia
Un girone di raro equilibrio, il gruppo D, concluso con quattro squadre nel giro di un punto. Un po’ per merito di alcuni (Zambia, parzialmente Tunisia), un po’ per demerito di altri (Camerun, parzialmente Gabon). Gli spunti più interessanti li hanno regalati Zambia e Gabon, i primi vincitori del girone (a sorpresa), i secondi eliminati (con molti rimpianti). Due squadre molte diverse. Più impetuoso e aggressivo il calcio dello Zambia, più ragionato e calcolatore quello del Gabon. Il ct Alain Giresse ha compiuto un capolavoro tattico all’esordio imbrigliando il Camerun e colpendolo (con Cousin) nel suo ventre molle, la difesa, sciupando però il match ball contro la Tunisia (nonostante un vivace Pierre Aubameyang e un ottimo Eric Mouloungui). Poi la sfida-spareggio contro la Zambia è andata male. Uno Zambia la cui forza sono i ritmi alti, perfetti per la velocità di Jacob Mulenga (due reti finora) o le incursioni dei fratelli Katongo, Christopher (ottimo contro il Camerun) e Felix (tra i migliori contro il Gabon). E’ una squadra che gioca e lascia giocare, con tutti i pregi ed i difetti che questa filosofia comporta. Con loro si è qualificato il Camerun. I Leoni Indomabili di Paul Le Guen sono anarchia e istinto. Non li aiuta certamente il loro ct, che cambia più volte schema anche nel corso della stessa partita: 4231, 4141, 433. Troppa confusione, che finisce con il mandare fuori giri i vari Makoun, Song Billong, Emana e Tchoyi, sulle cui qualità c’è ben poco da sindacare. Samuel Eto’o, sempre generoso, timbra regolarmente il cartellino, ma con i compagni di reparto Webo e Idrissou l’affiatamento presenta ancora la scritta lavori in corso. Il totale espresso dalla squadra è insomma inferiore alla somma dei singoli, la difesa soffre tanto gli attacchi centrali (Gabon, Tunisia) che quelli dalla fasce (Zambia) e il migliore de Leoni Indomabili risulta essere un rigenerato Geremi, corsa ed esperienza sull’out destro. Senza un’inversione di rotta l’avventura durerà ancora per poco. Ultima la Tunisia, che lascia l’Angola senza sconfitte. Due scialbi pareggi iniziali, un terzo più vivace contro il Camerun, dove si è svegliato l’atteso attaccante Amine Chermiti. E fino ad una manciata di minuti dalla fine i tunisini avevano un piede nei quarti di finale. Ma forse sarebbe stato un po’ troppo per quanto espresso durante il torneo.
(4-fine)
(4-fine)
giovedì 21 gennaio 2010
C’è chi dice Nooij
Egitto e Nigeria confermano i pronostici del gruppo C. I primi in maniera sontuosa, i secondi con più fatica. Si pensava ad un Egitto in fase calante dopo la mancata qualificazione a Sudafrica 2010 e lo sbarco in Angola senza due pezzi da novanta quali Aboutrika e Zaki. Il campo ha cancellato ogni dubbio, proponendo ancora una volta una squadra che a livello di organizzazione e disciplina tattica non ha rivali sul suolo africano. L’eurocentrismo dilagante ha individuato in Zidan la stella della squadra. Niente di più errato. La punta del Borussia Dortmund è solo un ingranaggio di una macchina ben oliata che ha nelle lucide geometrie di Ahmed Hassan il proprio cuore pulsante. I due esterni Fathi e Moawad garantiscono profondità alla manovra, Meteeb è una punta che vede la porta, le riserve hanno dimostrato di saperci fare battendo il Benin (menzione speciale per Gedo, autore contro il Mozambico di una delle reti più belle della manifestazione). La Nigeria ha faticato più di quanto dicano i sei punti raccolti; tatticamente schiantata dall’Egitto, in difficoltà contro il Benin, efficace contro il Mozambico (con qualche brivido nel primo tempo). Alla faccia di chi lo considera un protetto del ct Amadou, l’esterno/seconda punta Peter Odemwingie rappresenta il vero uomo in più delle Aquile. Agile, rapido, tiro secco e preciso. Bella la coppia con l’altrettanto mobile, ma meno continuo, Obasi. Poche novità invece da Obi Mikel, numero 10 senza carne né pesce. E la difesa soffre molto se presa in velocità. Il Mozambico del tecnico olandese Mart Nooij è uscito con dignità. Per i Mamba era già un successo essere arrivati ad Angola 2010. Hanno affrontato l’avventura con coraggio, giocando un calcio veloce fatto di sovrapposizioni, verticalizzazioni e tanta circolazione di palla. Due grandi limiti: approccio ruvido al pallone di quasi tutti gli interpreti (non disprezzabili il terzino sinistro Paito e il centrocampista Lobo), e difesa imbarazzante. Peggior figura ha però fatto il Benin, che almeno aveva in rosa due giocatori, il talentuoso trequartistaStephane Sessegnon e il potente Razak Omotoyossi, capaci di fare la differenza. Ma il primo non ha inciso, mentre il secondo, pur autore di due reti, è stato lasciato troppo solo. Ha pesato la scarsa abitudine nel giocare a certi livelli, esemplificata dal match d’esordio contro il Mozambico: in vantaggio di due reti e con l’avversario in totale confusione, gli Scoiattoli si sono improvvisamente spenti, subendo la più classica delle rimonte. Due terzi della loro Coppa d’Africa è finita quella sera.
(3-continua)
(3-continua)
mercoledì 20 gennaio 2010
Kalou l’asso
Tutto come da pronostico nel Gruppo B, il girone monco per il ritiro del Togo dopo l’agguato nella Cabinda. Avanti Costa d’Avorio e Ghana, senza particolari guizzi. Sulla carta gli ivoriani sono la squadra migliore di tutta la Coppa d’Africa, e lo sanno bene. Basta però una squadra chiusa a riccio e impostata esclusivamente sul contenimento (il Burkina Faso dell’esordio) per bloccare la banda Halilhodzic. Che è tornata grande invece quando l’avversario, in questo caso il Ghana, ha provato a giocare la partita. Gli Elefanti hanno ottenuto una vittoria ed un pareggio, incassando una sola rete, peraltro a tempo scaduto su un calcio di rigore inventato. Tutto ciò nonostante ben pochi elementi abbiano offerto prestazioni sopra la sufficienza; i terzini Emmanuel Ebouè (miglior in campo all’esordio, ma espulso nel match successivo) e Siaka Tienè (gran gol su calcio piazzato contro il Ghana), il play Yaya Tourè (meglio nel secondo incontro) e l’attaccante esterno Salomon Kalou (più efficace come titolare che da subentrato). Ma non è forse esclusiva delle grandi squadre ottenere risultati senza incantare? Certamente ancora meno ha fatto il Ghana, pur con tutte le scusanti di una selezione martoriata dagli infortuni (ultimo della lista, Micheal Essien). Contro il Burkina Faso sono scesi in campo due classe 88, due 89 e due 90. Squadra promossa dal punto di vista del collettivo, solido, organizzato, fisicamente tosto; ha però latitato il gioco, spesso affidato a spunti individuali (sugli scudi Samuel Inkoom e Haminu Draman, dominatori assoluti della fascia destra). Non a caso il migliore della selezione è stato, finora, un interditore: il neo-doriano Emmanuel Agyemang Badu. Tutt’ora da risolvere l’atavico problema della prima punta: Matthew Amoah, che nemmeno in Olanda sta vivendo la sua stagione migliore, non basta. Un po’ di amaro in bocca infine per il torneo disputato dal Burkina Faso, nazionale che dalla metà campo in avanti poteva disporre di elementi di valore quali Yssouf Konè, Moumouni Dagano (12 reti nelle qualificazioni a Sudafrica 2010), Charles Kaborè e Jonathan Pitroipa (il migliore dei suoi, un maratoneta presente ovunque in campo). Poteva insomma scapparci la sorpresa, invece si torna a casa con zero reti segnate in due partite.
(2-continua)
(2-continua)
martedì 19 gennaio 2010
Calcio d’Angola
E’ calcio vero quello della Coppa d’Africa. E’ calcio che vale la pena di seguire accantonando per un breve periodo i nostri campionati più seguiti. Un tuffo in un mondo ancora poco conosciuto, se non da qualche lungimirante osservatore (o, perché no, giornalista) e da molti schiavisti dell’era moderna, per i quali ogni giocatore è una potenziale fonte di guadagno prima ancora che una persona. Fine divagazione. L’edizione 2010 della Coppa d’Africa ha appena concluso la fase a gironi. L’occasione è propizia per qualche piccolo spunto.
Obiettivo primo posto centrato dall’Angola nel gruppo A. Le Antilopi Nere giocano un molto veloce, a volte arruffone, mai speculativo. L’assenza di un play nella mediana rende pressoché obbligatorio lo sfruttamento delle fasce, dove è emersa la qualità di Djalma. In avanti l’atteso Manucho non sta deludendo, ma meglio di lui sta facendo l’esperto Flavio, 3 gol in due partite. Non offre invece particolari sicurezze la linea difensiva a tre. La seconda qualificata, l’Algeria, è una squadra più efficace che bella a vedersi. Gli uomini di mister Saadane brillano per organizzazione e capacità di gestione dell’incontro, ma pur non risultando privi di un meneur de jeu (Ziani) degno di questo nome, faticano a trovare la via del gol. Il centravanti-boa Ghezzal, encomiabile per quantità, vede pochissimo la porta. Pertanto decidono sempre i difensori: Yahia uomo-qualificazione per Sudafrica 2010, Halliche match-winner contro il Mali (l’unico gol finora segnato dagli algerini nella competizione), Bougherra elemento più pericoloso, nonché migliore in campo, nel pareggio a reti bianche contro l’Angola. Terzo il Mali, grande delusione. Squadra molle, atteggiamento naif, la rimonta all’esordio contro l’Angola (da 0-4 a 4-4 in dodici minuti) una semplice illusione. La dorsale Sissoko-Keita-Kanoutè prometteva bene; i primi due però si reggevano in piedi a fatica (eppure il centrocampista del Barcellona è stato il migliore della spedizione), mentre Kanoutè ha fatto il suo. Le colpe non sono loro. Dignitoso infine il Malawi, alla sua seconda partecipazione in assoluto. Segnalazione per l’attaccante Russell Mwafulirwa, croce e delizia della squadra; in rete nelle due partite disputate (contro Algeria e Mali), ma autore anche di un clamoroso errore di testa a un metro dalla porta che, nell’ultimo match del girone contro il Mali, avrebbe potuto regalare al Malawi il momentaneo pareggio. E a quel punto gli algerini, bloccati sullo 0-0 dall’Angola, avrebbero cominciato a sudare freddo.
(1-continua)
Obiettivo primo posto centrato dall’Angola nel gruppo A. Le Antilopi Nere giocano un molto veloce, a volte arruffone, mai speculativo. L’assenza di un play nella mediana rende pressoché obbligatorio lo sfruttamento delle fasce, dove è emersa la qualità di Djalma. In avanti l’atteso Manucho non sta deludendo, ma meglio di lui sta facendo l’esperto Flavio, 3 gol in due partite. Non offre invece particolari sicurezze la linea difensiva a tre. La seconda qualificata, l’Algeria, è una squadra più efficace che bella a vedersi. Gli uomini di mister Saadane brillano per organizzazione e capacità di gestione dell’incontro, ma pur non risultando privi di un meneur de jeu (Ziani) degno di questo nome, faticano a trovare la via del gol. Il centravanti-boa Ghezzal, encomiabile per quantità, vede pochissimo la porta. Pertanto decidono sempre i difensori: Yahia uomo-qualificazione per Sudafrica 2010, Halliche match-winner contro il Mali (l’unico gol finora segnato dagli algerini nella competizione), Bougherra elemento più pericoloso, nonché migliore in campo, nel pareggio a reti bianche contro l’Angola. Terzo il Mali, grande delusione. Squadra molle, atteggiamento naif, la rimonta all’esordio contro l’Angola (da 0-4 a 4-4 in dodici minuti) una semplice illusione. La dorsale Sissoko-Keita-Kanoutè prometteva bene; i primi due però si reggevano in piedi a fatica (eppure il centrocampista del Barcellona è stato il migliore della spedizione), mentre Kanoutè ha fatto il suo. Le colpe non sono loro. Dignitoso infine il Malawi, alla sua seconda partecipazione in assoluto. Segnalazione per l’attaccante Russell Mwafulirwa, croce e delizia della squadra; in rete nelle due partite disputate (contro Algeria e Mali), ma autore anche di un clamoroso errore di testa a un metro dalla porta che, nell’ultimo match del girone contro il Mali, avrebbe potuto regalare al Malawi il momentaneo pareggio. E a quel punto gli algerini, bloccati sullo 0-0 dall’Angola, avrebbero cominciato a sudare freddo.
(1-continua)
lunedì 18 gennaio 2010
Le virtu' dell'Heracles
Nell’Europa pallonara il bianconero non è un colore che oggigiorno va particolarmente di moda. L’eccezione arriva da Almelo, ex città regina del tessile sita nella provincia dell’Overijssel, Olanda orientale. La pausa invernale ha colto la squadra locale, partita per il quinto anno consecutivo con la missione di rimanere in Eredivisie, al quinto posto del campionato, con lo stesso numero punti, 32, che lo scorso anno aveva totalizzato a fine torneo. Nel 2005 l’Heracles aveva vinto il campionato di Eerste Divisie, imponendosi su un pirotecnico Sparta Rotterdam capace di mettere tre giocatori (Danny Koevermans, Riga Mustapha e Ricky van den Bergh) ai primi tre posti della classifica marcatori con oltre 20 reti segnate a testa, ritornando nella massima divisione oranje dopo vent’anni. Da allora quattro salvezze consecutive, senza passare dai play-off, ottenute gestendo un budget complessivo di 8.5 milioni di euro e potendo contare su una media spettatori di circa 8mila unità. Numeri che parlano da soli.
Di favole provenienti dalla provincia ne abbiamo sentite parecchie; ogni campionato ha il suo Chievo. La particolarità dell’Heracles risiede però in due aspetti: la squadra non ha mai prodotto giocatori di caratura superiore, né possiede un vivaio particolarmente fecondo. Anzi, in merito a quest’ultimo si può affermare che i bianconeri non hanno neppure un proprio settore giovanile, dal momento che le vacche magre di qualche tempo avevano consigliato alla società di fondere il proprio con quello del Twente. E logicamente l’Arnautovic di turno, calcisticamente cresciuto proprio a Hengelo, il quartier generale del Twente/Heracles, è destinato a prendere la strada che porta ad Enschede piuttosto che quella in direzione Almelo.
Ancora più bizzarra è la mancata produzione di giocatori di spessore destinati al grande salto. Ogni club medio-piccolo ha avuto un talento con cui rimpinguare le casse al momento della cessione. Rimanendo nell’ambito olandese, possono essere citati i casi di Keisuke Honda (Vvv Venlo), Demy de Zeeuw (Go Ahead Eagles), Eljero Elia (Ado Den Haag), Arjen Robben e Marcus Berg (Groningen), Andwele Slory (Excelsior) e via dicendo. Dall’Heracles per contro non è mai emerso alcun giocatore di prospettiva, salvo non si vogliano considerare tali il nazionale estone Ragnar Klavan (oggi all’Az) o il canadese Rob Friend (Borussia Mönchengladbach). Per chi oggi veste la maglia bianconera, Almelo apparentemente costituisce già il tetto massimo raggiungibile in carriera. Ma quello che potrebbe sembrare a tutti gli effetti un punto di debolezza, nell’Heracles non lo è affatto.
Nessun equivoco però; la squadra non è una semplice accozzaglia di medioman. C’è la giovane punta emergente, Bas Dost, nazionale olandese under-21; c’è la meteora, il trequartista Willy Overtoom, ripescata in extremis dall’oblio del calcio amatoriale; ci sono giocatori che, nelle giornate di buona vena, sanno creare difficoltà a colleghi più quotati: il mediano Kwame Quansah, l’attaccante esterno Everton, i difensori Birger Maertens e Mark Looms, il veterano tra i pali Martin Pieckenhagen. Ma c’è soprattutto un allenatore coraggioso, Gertjan Verbeek, che dopo un bruciante fallimento al Feyenoord (dove era giunto con la patente di tecnico emergente dopo scintillanti stagioni nell’Heerenveen), ha accettato di rischiare una carriera in bilico in uno spicchio di provincia olandese dove c’era più da perdere che da guadagnare. Un azzardo che ha pagato. Probabilmente il suo Heracles non arriverà in Europa. Però giù il cappello.
Di favole provenienti dalla provincia ne abbiamo sentite parecchie; ogni campionato ha il suo Chievo. La particolarità dell’Heracles risiede però in due aspetti: la squadra non ha mai prodotto giocatori di caratura superiore, né possiede un vivaio particolarmente fecondo. Anzi, in merito a quest’ultimo si può affermare che i bianconeri non hanno neppure un proprio settore giovanile, dal momento che le vacche magre di qualche tempo avevano consigliato alla società di fondere il proprio con quello del Twente. E logicamente l’Arnautovic di turno, calcisticamente cresciuto proprio a Hengelo, il quartier generale del Twente/Heracles, è destinato a prendere la strada che porta ad Enschede piuttosto che quella in direzione Almelo.
Ancora più bizzarra è la mancata produzione di giocatori di spessore destinati al grande salto. Ogni club medio-piccolo ha avuto un talento con cui rimpinguare le casse al momento della cessione. Rimanendo nell’ambito olandese, possono essere citati i casi di Keisuke Honda (Vvv Venlo), Demy de Zeeuw (Go Ahead Eagles), Eljero Elia (Ado Den Haag), Arjen Robben e Marcus Berg (Groningen), Andwele Slory (Excelsior) e via dicendo. Dall’Heracles per contro non è mai emerso alcun giocatore di prospettiva, salvo non si vogliano considerare tali il nazionale estone Ragnar Klavan (oggi all’Az) o il canadese Rob Friend (Borussia Mönchengladbach). Per chi oggi veste la maglia bianconera, Almelo apparentemente costituisce già il tetto massimo raggiungibile in carriera. Ma quello che potrebbe sembrare a tutti gli effetti un punto di debolezza, nell’Heracles non lo è affatto.
Nessun equivoco però; la squadra non è una semplice accozzaglia di medioman. C’è la giovane punta emergente, Bas Dost, nazionale olandese under-21; c’è la meteora, il trequartista Willy Overtoom, ripescata in extremis dall’oblio del calcio amatoriale; ci sono giocatori che, nelle giornate di buona vena, sanno creare difficoltà a colleghi più quotati: il mediano Kwame Quansah, l’attaccante esterno Everton, i difensori Birger Maertens e Mark Looms, il veterano tra i pali Martin Pieckenhagen. Ma c’è soprattutto un allenatore coraggioso, Gertjan Verbeek, che dopo un bruciante fallimento al Feyenoord (dove era giunto con la patente di tecnico emergente dopo scintillanti stagioni nell’Heerenveen), ha accettato di rischiare una carriera in bilico in uno spicchio di provincia olandese dove c’era più da perdere che da guadagnare. Un azzardo che ha pagato. Probabilmente il suo Heracles non arriverà in Europa. Però giù il cappello.
venerdì 15 gennaio 2010
Difendendo lo psicopatico
Non c’è alcuna differenza tra uno psicopatico omicida e un calciatore violento. Così la pensa il quotidiano belga Het Laatste Nieuws, che nelle nomination relative alle persone più disgustose dell’anno 2009 ha posizionato Axel Witsel accanto a Kim De Gelder. Il primo non è certo uno sconosciuto per chi segue un minimo il calcio internazionale. Centrocampista dello Standard Liegi, talento emergente del calcio belga nonché miglior giocatore del campionato anno 2008, Witsel si è rovinato la reputazione lo scorso 30 agosto in un teso e vibrante Anderlecht-Standard, quando con un intervento killer ha frantumato tibia e perone al difensore polacco Marcin Wasilewski. Un raptus che gli è costato dieci giornate di squalifica (ridotte poi a otto) nonché un paio di lettere contenenti minacce di morte. La Federcalcio belga ha dovuto lavorare pazientemente per riportare un minimo di serenità nei rapporti tra le due big del calcio belga, mai così poco amichevoli.
Kim De Gelder invece è un ragazzo di 20 anni che nel gennaio 2009 è entrato nell’asilo nido “Fabeltjesland” di Dendermonde, paese sito a nord-ovest di Bruxelles, armato di pugnale, accetta e di una pistola giocattolo, ed ha ucciso un’educatrice di 54 anni, una bambina di nove mesi e un bimbo di sei. Poi si è dipinto la faccia come il Joker portato sugli schermi da Heath Ledger nel film (superbo, a parere di chi scrive) “Il cavaliere oscuro”.
La reazione dello Standard alle nomination per una classifica già di per sé di pessimo gusto, non si è fatta attendere. Dal momento che l’Het Laatste Nieuws organizza anche la Gouden Schoen (Scarpa d’Oro), il premio quale miglior calciatore del campionato belga assegnato sulla base delle votazioni degli stessi giocatori, i Rouges hanno disertato in massa la tradizionale serata di gala organizzata a Ostenda. Nessuno pertanto ha ritirato il premio vinto dall’attaccante del club vallone Milan Jovanovic, terzo giocatore dello Standard consecutivo dello Standard, dopo Steven Defour (nel 2007) e il già citato Witsel (nel 2008), ad aggiudicarsi il riconoscimento.
Le polemiche che hanno avvolto l’intera vicenda hanno finito con il relegare in secondo piano il premio stesso, assegnato ad un giocatore di grande qualità reduce da un’ottima stagione, che lo ha visto protagonista tanto in Belgio (elemento chiave dello Standard bi-campione in carica, e attuale capocannoniere della Jupiler League) quanto in Europa (la Serbia si è qualificata al Mondiale anche grazie ai suoi gol). Attaccante esterno devastante in campo aperto, adattabile sia nel tridente che come seconda punta in un 4-4-2, Jovanovic, vicinissimo dodici mesi fa al Psv Eindhoven, è adesso pronto per un campionato di livello ancora più alto. Nella classifica della Gouden Schoen Jovanovic ha preceduto il duo dell’Anderlecht Mbark Boussoufa-Romelu Lukaku.
Non solo Eto'o
In un mondo del calcio decisamente eurocentrico, la Coppa d’Africa fa più notizia per i giocatori “scippati” ai grandi club, lesti nel lamentarsi ma ancora più veloci nell’accaparrarsi i maggiori prospetti emersi dal torneo, piuttosto che per i contenuti tecnici di una manifestazione in continua crescita. L’edizione numero 27 della Coppa d’Africa si svolgerà per la prima volta in Angola, ex colonia portoghese indipendente dal 1975, dove per l’occasione sono stati costruiti quattro stadi nuovi di zecca. Tra questi lo sforzo maggiore è stato profuso per l’Estadio 11 de Novembro, il mega-impianto da 50mila posti sito nella capitale Luanda e che il 31 gennaio ospiterà la finalissima.
Un instancabile esploratore del Continente Nero quale il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski sosteneva che, alla luce delle profonde diversità religiose e culturali dei suoi abitanti, l’Africa “esiste solo per una comodità geografica”. Lo stesso discorso vale per il calcio. Angola 2010 propone il meglio di scuole e stili agli antipodi. Si passa dal 4-3-3 aggressivo e potente della Costa d’Avorio al geometrico e lineare 3-4-1-2 dei bi-campioni in carica dell’Egitto; dal classico e compatto 4-4-2 dal Camerun al catenacciaro e ruminante 4-3-2-1 dell’Algeria; infine dal fisicamente esplosivo 4-4-1-1 del Ghana, forte nel possesso palla, al 4-3-3 della Nigeria, rapido e letale nelle ripartenze. La differenza, al solito, la faranno i singoli e le motivazioni personali.
Due le favorite d’obbligo: Costa d’Avorio e Camerun. Gli ivoriani godono dei favori del pronostico grazie ad una rosa qualitativamente eccelsa (Drogba, Kalou, i fratelli Kolo e Yaya Tourè, più l’emergente Gervinho), ma rischiano di pagare dazio ad uno spogliatoio turbolento e alla crescente pressione (non vincono dal 1992). I Leoni Indomabili possono per contro contare sul miglior marcatore di sempre della manifestazione, Samuel Eto’o (16 reti) e su una mediana centrale composta dal talento purissimo di Song Billong e Makoun.
Il Ghana si presenta imbottito di giovani, tra cui il neo-milanista Adiyiah e l’ottimo esterno Inkoom, reduci dal successo nel Mondiale under 20, e punta sul centrocampista “totale” Essien, il giocatore africano più costoso di sempre: 38 milioni di euro spesi nel 2005 dal Chelsea e mai rimpianti. Accanto al “Beckenbauer nero”, occhi puntati sul suo piccolo clone Annan. Nigeria versione Speedy Gonzales grazie a Obinna, Taiwo e Oba Oba Martins, con Obi Mikel in regia a dettare i tempi. Pesanti invece le assenze per l’Egitto: Zaki e Aboutrika, gli eroi del successo nel 2008, sono ko. Difficile difendere il titolo aggrappandosi al solo Zidan.
Possibile sorpresa il Mali più forte di sempre: la dorsale Sissoko-Keita-Kanoutè promette bene. Da non sottovalutare nemmeno i padroni di casa dell’Angola dell'ex Manchester United Manucho Goncalves, il Gabon dei fratelli Aubameyang (entrambi di proprietà del Milan) e il Benin del devastante Omotoyossi, la versione color ebano dell’Incredibile Hulk.
Fonte: Il Giornale
Un instancabile esploratore del Continente Nero quale il giornalista polacco Ryszard Kapuscinski sosteneva che, alla luce delle profonde diversità religiose e culturali dei suoi abitanti, l’Africa “esiste solo per una comodità geografica”. Lo stesso discorso vale per il calcio. Angola 2010 propone il meglio di scuole e stili agli antipodi. Si passa dal 4-3-3 aggressivo e potente della Costa d’Avorio al geometrico e lineare 3-4-1-2 dei bi-campioni in carica dell’Egitto; dal classico e compatto 4-4-2 dal Camerun al catenacciaro e ruminante 4-3-2-1 dell’Algeria; infine dal fisicamente esplosivo 4-4-1-1 del Ghana, forte nel possesso palla, al 4-3-3 della Nigeria, rapido e letale nelle ripartenze. La differenza, al solito, la faranno i singoli e le motivazioni personali.
Due le favorite d’obbligo: Costa d’Avorio e Camerun. Gli ivoriani godono dei favori del pronostico grazie ad una rosa qualitativamente eccelsa (Drogba, Kalou, i fratelli Kolo e Yaya Tourè, più l’emergente Gervinho), ma rischiano di pagare dazio ad uno spogliatoio turbolento e alla crescente pressione (non vincono dal 1992). I Leoni Indomabili possono per contro contare sul miglior marcatore di sempre della manifestazione, Samuel Eto’o (16 reti) e su una mediana centrale composta dal talento purissimo di Song Billong e Makoun.
Il Ghana si presenta imbottito di giovani, tra cui il neo-milanista Adiyiah e l’ottimo esterno Inkoom, reduci dal successo nel Mondiale under 20, e punta sul centrocampista “totale” Essien, il giocatore africano più costoso di sempre: 38 milioni di euro spesi nel 2005 dal Chelsea e mai rimpianti. Accanto al “Beckenbauer nero”, occhi puntati sul suo piccolo clone Annan. Nigeria versione Speedy Gonzales grazie a Obinna, Taiwo e Oba Oba Martins, con Obi Mikel in regia a dettare i tempi. Pesanti invece le assenze per l’Egitto: Zaki e Aboutrika, gli eroi del successo nel 2008, sono ko. Difficile difendere il titolo aggrappandosi al solo Zidan.
Possibile sorpresa il Mali più forte di sempre: la dorsale Sissoko-Keita-Kanoutè promette bene. Da non sottovalutare nemmeno i padroni di casa dell’Angola dell'ex Manchester United Manucho Goncalves, il Gabon dei fratelli Aubameyang (entrambi di proprietà del Milan) e il Benin del devastante Omotoyossi, la versione color ebano dell’Incredibile Hulk.
Fonte: Il Giornale
giovedì 14 gennaio 2010
Polvere di stelle
Nel nuovo numero in edicola di Calcio 2000 raccontiamo il calcio svizzero: il successo al Mondiale under-17, la riorganizzazione del settore giovanile, i “secondos”, la Super League, lo Young Boys di Petkovic, il Bellinzona di Cavasin e i fallimenti eccellenti. Radio Olanda pubblica un estratto focalizzato su quest’ultimo tema.
Nel marzo 2002 il corpo del finanziere Helios Jermini, presidente del Lugano, viene trovato all’interno della sua auto, inabissatasi nelle acque del lago in prossimità di Brusino, a pochi chilometri dalla città ticinese. La società calcistica, travolta dai debiti, viene dichiarata fallita l’anno seguente. Nello stesso periodo finisce in bancarotta anche il Losanna, mentre un anno più tardi è il turno del Servette, anch’esso con i libri contabili modello profondo rosso. Nel 2009 invece tocca allo Chaux-de-Fonds finire tra i dilettanti. Sommando i titoli nazionali presenti nelle bacheche dei quattro club citati si arriva a quota trenta, diciassette dei quali di proprietà dei ginevrini del Servette. Quando si tratta di fare pulizia o, semplicemente, di applicare le regole, in Svizzera non si sgarra. Zeru tituli o palmares ricco, poco importa. Niente salvataggi per motivi di ordine pubblico, né rateizzazione dei debiti, né salti di categoria per millantati meriti sportivi. Il sistema-calcio elvetico presenta le stesse zone d’ombra di molti altri campionati europei (basta pensare a certi parcheggi fittizi di giocatori in Ticino), ma è nel contempo dotato di anticorpi sufficientemente forti per difendersi e non perdere credibilità. Amministrare virtuosamente può anche portare dei vantaggi sul campo, come accaduto la scorsa estate al Locarno. Finito penultimo in Challenge League e pertanto retrocesso in Prima Lega (la serie C svizzera), il club del Lido è stato ripescato, grazie ai propri conti in regola, dopo i fallimenti di Chaux-de-Fonds e Concordia Basilea. Quest’anno potrebbe accadere una cosa simile in Super League, dove il Grasshopper sta navigando nel torbido mare del dissesto finanziario. Un altro gigante dai piedi d’argilla.
Nel marzo 2002 il corpo del finanziere Helios Jermini, presidente del Lugano, viene trovato all’interno della sua auto, inabissatasi nelle acque del lago in prossimità di Brusino, a pochi chilometri dalla città ticinese. La società calcistica, travolta dai debiti, viene dichiarata fallita l’anno seguente. Nello stesso periodo finisce in bancarotta anche il Losanna, mentre un anno più tardi è il turno del Servette, anch’esso con i libri contabili modello profondo rosso. Nel 2009 invece tocca allo Chaux-de-Fonds finire tra i dilettanti. Sommando i titoli nazionali presenti nelle bacheche dei quattro club citati si arriva a quota trenta, diciassette dei quali di proprietà dei ginevrini del Servette. Quando si tratta di fare pulizia o, semplicemente, di applicare le regole, in Svizzera non si sgarra. Zeru tituli o palmares ricco, poco importa. Niente salvataggi per motivi di ordine pubblico, né rateizzazione dei debiti, né salti di categoria per millantati meriti sportivi. Il sistema-calcio elvetico presenta le stesse zone d’ombra di molti altri campionati europei (basta pensare a certi parcheggi fittizi di giocatori in Ticino), ma è nel contempo dotato di anticorpi sufficientemente forti per difendersi e non perdere credibilità. Amministrare virtuosamente può anche portare dei vantaggi sul campo, come accaduto la scorsa estate al Locarno. Finito penultimo in Challenge League e pertanto retrocesso in Prima Lega (la serie C svizzera), il club del Lido è stato ripescato, grazie ai propri conti in regola, dopo i fallimenti di Chaux-de-Fonds e Concordia Basilea. Quest’anno potrebbe accadere una cosa simile in Super League, dove il Grasshopper sta navigando nel torbido mare del dissesto finanziario. Un altro gigante dai piedi d’argilla.
mercoledì 13 gennaio 2010
Joop Joop hurrà
Dallo scorso anno si chiama Jupiler League, ma per evitare confusione con la massima divisione belga continueremo a chiamare la serie cadetta olandese Eerste Divisie. Numeri alla mano, il miglior allenatore del torneo al momento della pausa invernale è Joop Gaal, bravo nel far stazionare il Veendam, club dal budget quasi irrisorio, nella parte alta della classifica, in zona play-off. Il suo calcio non offre molto spettacolo, ma nel rapporto mezzi a disposizione/risultati ottenuti Gaal non ha rivali. Tutto all’opposto di Fuat Capa, il cui Mvv Maastricht, partito con i favori del pronostico, è incappato in una serie di prestazioni negative che gli sono finora valse la palma di delusione stagionale.
Stanley Menzo è ormai uno specialista della Eerste Divisie. Ha debuttato bene con l’Agovv Apeldoorn, ha centrato la promozione con il Volendam, adesso si prepara a fare altrettanto con il Cambuur Leeuwarden. In verità il colpo gobbo stava per riuscirgli già la passata stagione, quando solo nel finale la sua squadra si arrese al Roda Kerkrade nell’ultimo incontro della “nacompetitie”, i play-off salvezza/promozione. Oggi il suo Cambuur si divide con Helmond Sport e De Graafschap la palma di squadra più spettacolare del campionato, e vince alla grande nella graduatoria relativa all’efficienza: 54 gol su 219 tiri in porta, ovvero una rete ogni quattro conclusioni. L’esperto Mark de Vries, 7 assist e 14 gol, costituisce il valore aggiunto.
Buona media anche per Volendam e Den Bosch. Gli otto gol segnati a testa dalla coppia d’attacco Jack Tuyp-Melvin Platje testimoniano che le ragioni della non brillante annata degli Altri Oranje risiedono altrove. Bomber unico invece sugli scudi per la squadra di ‘s Hertogenbosch; Fabio Caracciolo, cacciato dall’Ado Den Haag in malo modo, conferma con 16 reti di essere un attaccante di categoria. Halil Colak e Reza Ghoochannejahd, rispettivamente 10 e 6 reti, fanno invece volare le Aquile del Go Ahead Eagles, unico club cadetto superstite in Coppa d’Olanda. E il mercato gennaio porterà come rinforzo dalle giovanili del Psv Eindhoven Nigel Hasselbaink, nipote del mitico Jimmy Floyd.
Da segnalare infine il discreto inizio per Jaap Stam (in coabitazione con Claus Boekweg) sulla panchina dello Zwolle. Quattro vittorie negli ultimi cinque incontri hanno regalato un fine anno meno amaro del previsto ai tifosi del club che condivide con Telstar e Rbc Roosendaal la palma di squadra calcisticamente più brutta del campionato.
Stanley Menzo è ormai uno specialista della Eerste Divisie. Ha debuttato bene con l’Agovv Apeldoorn, ha centrato la promozione con il Volendam, adesso si prepara a fare altrettanto con il Cambuur Leeuwarden. In verità il colpo gobbo stava per riuscirgli già la passata stagione, quando solo nel finale la sua squadra si arrese al Roda Kerkrade nell’ultimo incontro della “nacompetitie”, i play-off salvezza/promozione. Oggi il suo Cambuur si divide con Helmond Sport e De Graafschap la palma di squadra più spettacolare del campionato, e vince alla grande nella graduatoria relativa all’efficienza: 54 gol su 219 tiri in porta, ovvero una rete ogni quattro conclusioni. L’esperto Mark de Vries, 7 assist e 14 gol, costituisce il valore aggiunto.
Buona media anche per Volendam e Den Bosch. Gli otto gol segnati a testa dalla coppia d’attacco Jack Tuyp-Melvin Platje testimoniano che le ragioni della non brillante annata degli Altri Oranje risiedono altrove. Bomber unico invece sugli scudi per la squadra di ‘s Hertogenbosch; Fabio Caracciolo, cacciato dall’Ado Den Haag in malo modo, conferma con 16 reti di essere un attaccante di categoria. Halil Colak e Reza Ghoochannejahd, rispettivamente 10 e 6 reti, fanno invece volare le Aquile del Go Ahead Eagles, unico club cadetto superstite in Coppa d’Olanda. E il mercato gennaio porterà come rinforzo dalle giovanili del Psv Eindhoven Nigel Hasselbaink, nipote del mitico Jimmy Floyd.
Da segnalare infine il discreto inizio per Jaap Stam (in coabitazione con Claus Boekweg) sulla panchina dello Zwolle. Quattro vittorie negli ultimi cinque incontri hanno regalato un fine anno meno amaro del previsto ai tifosi del club che condivide con Telstar e Rbc Roosendaal la palma di squadra calcisticamente più brutta del campionato.
lunedì 11 gennaio 2010
Le munizioni dell'Arsenal
Premier League campionato più ricco, e indebitato, del mondo. Si fattura tanto, si spende ancora di più, e non sempre con lungimiranza. Analizzando il rapporto costi/risultati focalizzato sui singoli acquisti effettuati nell’estate 2009, la nostra medaglia d’oro va all’Arsenal ed ai suoi 12 milioni di euro spesi per Thomas Vermaelen. Un cifra importante, quella sborsata dai Gunners per il centrale difensivo belga ex-Ajax. Il quale però ha confermato che la maturità raggiunta in Eredivisie non era un semplice fuoco paglia destinato a spegnersi una volta salito di livello (come accaduto, ad esempio, ad un altro ex ajacide quale John Heitinga). Wenger ha lodato la tranquillità e la sicurezza mostrata dal giocatore, subito entrato in sintonia con il compagno di reparto William Gallas. Ciliegina sulla torta, le 5 reti segnate finora.
Medaglia d’argento per il Sunderland, che ha creduto nella rinascita di Darren Bent dopo le vacche magre londinesi di casa Tottenham. Pagato 13 milioni di euro, Bent è passato dal ruolo di scalda panchina per Harry Redknapp a quello di terzo bomber stagionale della Premier League, con 11 centri nelle prime 19 partite. Nel mirino il proprio record personale di marcature, 18, realizzato nella stagione 2005/2006 con il Charlton.
Medaglia di bronzo per il Birmingham, nella cui trasformazione da potenziale candidata per la retrocessione a compagine da zona Europa League stanno rivestendo un peso decisivo le parate di Joe Hart. L’estremo difensore, in prestito dal Manchester City, è uno degli elementi chiave della squadra di Alex McLeish. E il prossimo giugno, nella spedizione inglese in Sudafrica, potrebbe esserci anche lui.
Citazione anche per Alessandro Diamanti, passato in pochi anni dalla campagna toscana alla metropoli londinese senza mostrare segni di cedimento. Il West Ham lo ha pagato al Livorno 6.5 milioni di euro, ottenendo diverse buone prestazioni e un bottino di 5 reti, che fanno di Diamanti il secondo miglior marcatore della squadra alle spalle di Carlton Cole. La salvezza degli Hammers passa anche dai piedi del trequartista italiano.
Nota di merito infine per il figlio d’arte Nico Kranjcar, alla sua quinta stagione in Premier League, la migliore. Arrivato al Tottenham dal Portsmouth (per 3 milioni di euro) con il compito di sostituire l’infortunato Luka Modric, il nazionale croato è riuscito a conquistarsi un posto fisso nell’undici titolare grazie ad una continuità di rendimento raramente vista in passato.
Maglia nera invece per il Manchester City, che per assicurarsi Joleon Lescott ha firmato all’Everton un assegno da 25 milioni di euro, facendone il terzo difensore più costoso di sempre della Premier League dopo Rio Ferdinand e Ricardo Carvalho. Con Lescott in campo i Citizens hanno incassato 24 reti in 14 partite, prima che un infortunio al ginocchio lo togliesse di mezzo fino a febbraio.
Problemi fisici anche per i costosissimi, e finora inutili, Yuri Zhirkov e Alberto Aquilani. Il Chelsea ha speso 20 milioni di euro per il nazionale russo ex CSKA Mosca, ieri rivelazione a Euro 2008, oggi nei Blues riserva fissa di Ashley Cole per il ruolo di esterno basso sinistro e di Florent Malouda per quello di esterno alto. Il Liverpool ne ha pagati 22 alla Roma, nell’errata convinzione di aver trovato il sostituto del play Xabi Alonso, volato a Madrid. Solamente a fine dicembre Aquilani ha debuttato da titolare nei Reds.
Altro flop importato dalla Serie A è Anthony Vanden Borre, ex enfant prodige del calcio belga, in nazionale a 16 anni, quasi bruciato a 22. Due stagioni in Italia tra Fiorentina e Genoa, senza costrutto. In estate ecco la grande chance in Premier League, al Portsmouth: non è cambiato nulla. In sei mesi si è invece capovolto il destino di Kagisho Dikgacoi, nazionale sudafricano che grazie alle buone prestazioni nel reparto arretrato dei Bafana Bafana in Confederations Cup era riuscito a guadagnarsi un contratto con il Fulham. Un milione di euro versati ai Golden Arrows, e benvenuto a Londra. Mezza stagione dopo, con sole quattro presenze in prima squadra, in cima alla lista dei partenti stilata da mister Roy Hodgson c’è lui.
Medaglia d’argento per il Sunderland, che ha creduto nella rinascita di Darren Bent dopo le vacche magre londinesi di casa Tottenham. Pagato 13 milioni di euro, Bent è passato dal ruolo di scalda panchina per Harry Redknapp a quello di terzo bomber stagionale della Premier League, con 11 centri nelle prime 19 partite. Nel mirino il proprio record personale di marcature, 18, realizzato nella stagione 2005/2006 con il Charlton.
Medaglia di bronzo per il Birmingham, nella cui trasformazione da potenziale candidata per la retrocessione a compagine da zona Europa League stanno rivestendo un peso decisivo le parate di Joe Hart. L’estremo difensore, in prestito dal Manchester City, è uno degli elementi chiave della squadra di Alex McLeish. E il prossimo giugno, nella spedizione inglese in Sudafrica, potrebbe esserci anche lui.
Citazione anche per Alessandro Diamanti, passato in pochi anni dalla campagna toscana alla metropoli londinese senza mostrare segni di cedimento. Il West Ham lo ha pagato al Livorno 6.5 milioni di euro, ottenendo diverse buone prestazioni e un bottino di 5 reti, che fanno di Diamanti il secondo miglior marcatore della squadra alle spalle di Carlton Cole. La salvezza degli Hammers passa anche dai piedi del trequartista italiano.
Nota di merito infine per il figlio d’arte Nico Kranjcar, alla sua quinta stagione in Premier League, la migliore. Arrivato al Tottenham dal Portsmouth (per 3 milioni di euro) con il compito di sostituire l’infortunato Luka Modric, il nazionale croato è riuscito a conquistarsi un posto fisso nell’undici titolare grazie ad una continuità di rendimento raramente vista in passato.
Maglia nera invece per il Manchester City, che per assicurarsi Joleon Lescott ha firmato all’Everton un assegno da 25 milioni di euro, facendone il terzo difensore più costoso di sempre della Premier League dopo Rio Ferdinand e Ricardo Carvalho. Con Lescott in campo i Citizens hanno incassato 24 reti in 14 partite, prima che un infortunio al ginocchio lo togliesse di mezzo fino a febbraio.
Problemi fisici anche per i costosissimi, e finora inutili, Yuri Zhirkov e Alberto Aquilani. Il Chelsea ha speso 20 milioni di euro per il nazionale russo ex CSKA Mosca, ieri rivelazione a Euro 2008, oggi nei Blues riserva fissa di Ashley Cole per il ruolo di esterno basso sinistro e di Florent Malouda per quello di esterno alto. Il Liverpool ne ha pagati 22 alla Roma, nell’errata convinzione di aver trovato il sostituto del play Xabi Alonso, volato a Madrid. Solamente a fine dicembre Aquilani ha debuttato da titolare nei Reds.
Altro flop importato dalla Serie A è Anthony Vanden Borre, ex enfant prodige del calcio belga, in nazionale a 16 anni, quasi bruciato a 22. Due stagioni in Italia tra Fiorentina e Genoa, senza costrutto. In estate ecco la grande chance in Premier League, al Portsmouth: non è cambiato nulla. In sei mesi si è invece capovolto il destino di Kagisho Dikgacoi, nazionale sudafricano che grazie alle buone prestazioni nel reparto arretrato dei Bafana Bafana in Confederations Cup era riuscito a guadagnarsi un contratto con il Fulham. Un milione di euro versati ai Golden Arrows, e benvenuto a Londra. Mezza stagione dopo, con sole quattro presenze in prima squadra, in cima alla lista dei partenti stilata da mister Roy Hodgson c’è lui.
martedì 5 gennaio 2010
Stoccolma in fiore
I plebisciti vanno sempre maneggiati con cura. Lo ha imparato a proprie spese l’Elfsborg, che alla vigilia dell’Allsvenskan 2009 godeva, per la vittoria finale, di un consenso degli addetti ai lavori pari al 75%, con i pronostici rimanenti indirizzati verso l’IFK Göteborg. Corsa a due, insomma, come si è puntualmente verificato. Solo che a spuntarla, proprio a danno dell’IFK, è stato l’AIK Stoccolma, club di un quartiere (Solna) della capitale che non vinceva più niente dal 1998. Proprio alla fine di quell’anno un giovane centrocampista di nome Daniel Tjernström aveva deciso di lasciare il suo club, l’Örebro, per raggiungere le fila dei neo-campioni, convinto che da quel momento la sua carriera sarebbe stata piena di vittorie. Le cose non sono andate esattamente così; Tjernström ha dovuto attendere undici anni, nei quali ha vissuto anche l’onta della retrocessione nel Superettan (la serie cadetta svedese), prima di poter gioire. Il destino ha però voluto che fosse proprio lui, oggi 35enne, a siglare la rete decisiva all’ultima giornata nel big match contro l’IFK, vinto dall’AIK in rimonta 2-1. Messo in cassaforte il titolo nazionale, gli uomini di mister Mikael Stahre hanno chiuso in trionfo la settimana successiva centrando il primo double della loro storia grazie al 2-0 rifilato nuovamente all’IFK nella finale di coppa di Svezia. Un successo targato Sudamerica grazie alle reti della coppia d’attacco Ivan Obolo, argentino, e Antonio Flavio, brasiliano, anche se la vera arma in più dell’AIK durante tutta la stagione è stata la difesa, solida e concreta, guidata dall’esperto centrale olandese Jos Hooiveld, già campione di Finlandia nel 2008 con l’Inter Turku. Spettacolo poco, efficacia tanta; una ricetta che il popolo del Råsunda Stadium ha mostrato di gradire. L’IFK Göteborg, a lungo capolista, ha pagato più degli altri l’annoso problema delle cessioni a stagione in corso (tallone d’achille dei tornei nordici, sfasati a livello temporale rispetto al resto d’Europa), che hanno privato la squadra di due pezzi da novanta quali Pontus Wernbloom, finito all’Az, e Mattias Bjärsmyr (Panathinaikos), oltre ad un Robin Söder riconsegnato rotto dalla Svezia under-21 dopo gli Europei casalinghi di categoria. I Blavitt si sono consolati con l’elezione del figlio d’arte Tobias Hysén quale miglior giocatore del campionato. Nato mezzala, Hysèn è stato riconvertito in attaccante dopo un’esperienza flop in Inghilterra con il Sunderland; scelta felice, come dimostrato dalle 18 reti segnate quest’anno che gli sono valse il titolo di capocannoniere in coabitazione con il brasiliano Wanderson del GAIS Göteborg. Due le segnalazioni sui talenti del domani: l’attaccante dell’Helsingborg Rasmus Jonsson, svezzato in campo da un’icona assoluta quale Henrik Larsson (annunciato il proprio definitivo addio al calcio, e' atteso alla sua prima esperienza come allenatore nella serie cadetta svedese, alla guida del Landskrona) e il portiere del Trelleborg Viktor Noring, 18 anni e un posto come vice-Isaksson (la cui carriera è curiosamente iniziata proprio nel Trelleborg) prenotato già dai prossimi Mondiali. Nei bassifondi infine ha sorriso anche la Stoccolma che tifa Djurgården, nonostante la salvezza sia arrivata solamente al minuto 116 dello spareggio contro l'Assyriska (sconfitto 3-0 dopo lo 0-2 dell'andata). Nella capitale musi lunghi solo in casa Hammarby; 14 sconfitte nelle ultime 17 partite hanno significato l'addio all'Allsvenskan.
Fonte: Calcio 2000
Fonte: Calcio 2000