L’incipit della storia di Ulf Lindberg sembra uscita direttamente da una pellicola di Ingmar Bergman. La prima inquadratura è l’interno di un soggiorno illuminato dalla pallida luce primaverile di un sole nordico. Siamo in una cittadina della provincia svedese, negli metà anni Sessanta, e una famiglia di ceto piccolo borghese sta ultimando i preparativi per il pranzo domenicale. Stacco. Primo piano sul volto del padre. “Ulf”, pronuncia l’uomo in tono serio, ”io e tua madre abbiamo qualcosa da dirti”. La telecamera si sposta sul bambino. Età sette anni, espressione impassibile. Di nuovo il padre. “In realtà noi non siamo i tuoi genitori. Ti abbiamo adottato. Tua madre vive nel nord del paese, tuo padre in Brasile. Lui è un calciatore molto famoso. Si chiama Garrincha”. Stacco. Il volto del bambino. Imperturbabile, immobile. Lo tradiscono solo gli occhi, percorsi da un brivido sconosciuto che li rende umidi, acquosi. Dissolvenza.
Rapido flashback. Svezia 1958, Mondiali di calcio. Otto anni dopo il suicidio del Maracanã contro l’Uruguay, il Brasile solleva al cielo la sua prima coppa del mondo battendo in finale 5-2 i padroni di casa svedesi. E’ il Brasile del 18enne Pelè, di Vavà, Didi, Djalma Santos, Gilmar, Nilton Santos e Mario Zagallo. Ma è soprattutto il Brasile di un’ala destra dal dribbling irresistibile, imprevedibile nei movimenti e letale nel cambio di passo. Un incubo per gli avversari, tanto che nel banchetto post-partita di Brasile-URSS il difensore sovietico Boris Kuznetzov gli cinse le spalle sollevandolo da terra e gridando: “Finalmente sono riuscito ad acchiapparti!”. E in quel momento rideva divertito Manoel Francisco dos Santos, universalmente noto come Garrincha (lo scricciolo), l’uomo votato dalla FIFA miglior calciatore brasiliano della storia dopo Pelè. Un talento naturale adorato da un intero paese per lo stile di gioco spettacolare che gli era valso il soprannome di O Alegria do Povo, la gioia del popolo, perché “se alla domenica Garrincha giocava bene, il lunedì le cose andavano meglio in tutto il paese”.
Questo artista del pallone, nato con numerosi difetti congeniti (la gamba sinistra più corta della destra di sei centimetri, la spina dorsale deformata, il bacino slogato e un leggero strabismo), aveva colpito così tanto gli addetti ai lavori del calcio europeo da far diventare il suo club, il Botafogo, una delle squadre più richieste per le turnè estive nel Vecchio Continente. Un anno dopo il successo nella coppa del mondo Garrincha torna così in Svezia per disputare, nella cittadina di Umeå, un incontro amichevole. Al termine della partita viene organizzata una festa nell’hotel dove alloggiano i giocatori, ai quali viene offerta un’enorme torta preparata dal personale locale. Garrincha flirta con una cameriera e termina la serata a casa sua. Beve una grappa con i genitori di lei, poi la coppia si reca in camera da letto. L’indomani nella hall dell’albergo si presenta il padre della ragazza, accompagnato da due agenti di polizia, chiedendo di Garrincha. Al giocatore viene fatta firmare una dichiarazione di riconoscimento per una eventuale paternità. Come ulteriore garanzia, viene condotto in un ospedale nelle vicinanze e sottoposto ad un prelievo di sangue. Poi Manè, altro soprannome del fenomeno verdeoro, saluta per sempre la Svezia. Nove mesi dopo nascerà un bimbo. Verrà adottato dalla famiglia Lindberg l’inverno successivo.
Oggi Ulf Lindberg ha 49 anni e vende wurstel nella piazza del mercato di Halmstad. Le sue giornate lavorative trascorrono al ritmo di una domanda ripetuta ciclicamente, come una sorta di mantra. “Senape o ketchup?”. Queste a volte sono le uniche parole pronunciate da Ulf in un giorno intero. Non desta quindi stupore la gentilezza e la loquacità mostrata dal diretto interessato nel ripercorrere la storia che gli ha regalato uno scampolo di notorietà, iniziato nel 1977 dopo che Garrincha, in un’intervista al Daily Mail, aveva parlato di lui. “Non ho mai conosciuto mio padre di persona, ma so che era orgoglioso di me e che non ha mai dimenticato quel figlio lasciato nella lontana Svezia. Il nostro unico contatto sono state delle lettere; una volta gli ho scritto e lui mi ha risposto. O meglio, ha fatto rispondere qualcuno, perché lui era analfabeta”. In realtà un incontro era stato pianificato in vista dei mondiali argentini del 1978. Il quotidiano svedese Aftonbladet aveva proposto a Ulf di volare in Argentina, dove il padre era stato ingaggiato come opinionista da un’emittente brasiliana. Una collaborazione che Garrincha, sempre ubriaco fradicio, non riuscì nemmeno ad iniziare, e tutto andò in fumo.
L’alcol è stato l’avversario che Garrincha non è riuscito a sconfiggere. Il due volte campione del mondo (Svezia 1958, Cile 1962), l’uomo da 232 reti in 581 partite con il Botafogo, muore il 20 gennaio 1983 per le conseguenze di una cirrosi epatica e di un edema polmonare, in condizioni di indigenza e degrado. In Svezia nevicava. Ulf Lindberg stava guardando la televisione quando squillò il telefono. Venne avvisato da un giornalista locale. Ulf ha impiegato ventidue anni per organizzare il viaggio verso le proprie radici, a Pau Grande, sobborgo di Rio de Janeiro dove è nato Manè. Lo ha fatto insieme al figlio Martin, ed il tutto è stato immortalato nel documentario Garrincha & Röda Pölser (Garrincha e wurstel rossi), trasmesso in Svezia e Norvegia. Ulf ha incontrato Nilton Santos, ha mostrato alle telecamere le gambe storte ereditate dal padre, ha conosciuto otto sorellastre (in totale Garrincha ha avuto tredici figli) e si è recato in tutti i luoghi più importanti nella vita di suo padre. Tra questi l’Estadio Manè Garrincha di Pau Grande, un campetto da calcio dove l’erba arriva fino alle caviglie ed a volte gli incontri vengono sospesi perché un cavallo selvaggio si aggira nei pressi di una delle aree di rigore.
Calcisticamente quanto ha ereditato Lindberg dal genio del padre? “Ho smesso di giocare a calcio a undici anni, quindi non lo so. Terminavo le partite con atroci dolori alle gambe. Mi hanno diagnosticato la spondilite anchilosante (malattia infiammatoria che colpisce il sistema muscoloscheletrico, nda)”. Una stilla di quello smisurato talento è però rimasta nel dna di Lindberg. “L’ho trasmessa a mio figlio Martin, che gioca ala destra, come il nonno, ed è molto bravo. Rapido, tecnico, nelle giovanili dell’Halmstad il suo allenatore mi disse che non vedeva un talento simile dai tempi di Fredrik Ljungberg. Però poi non lo hanno confermato. Non era adatto al modulo della squadra, dissero. Tipicamente svedese. Tutto deve essere ingabbiato in schemi rigidi. L’estro è bandito, a meno che tu non ti chiami Zlatan Ibrahimovic. Allora puoi fare tutto ciò che vuoi”. Del resto portare il nome di Garrincha su un campo di gioco è un fardello quasi insostenibile. Nella vita quotidiana invece è un altro discorso. “Ricevo richieste in continuazione, non solo dai giornalisti ma anche da gente comune. Non mi infastidisce l’interesse nei miei confronti, né il dover raccontare la mia storia per l’ennesima volta. Loro chiedono, io rispondo, più di questo non posso fare. Non sono Garrincha. Mi chiamo Ulf Lindberg e vendo wurstel”.
Fonte: Guerin Sportivo
sabato 10 aprile 2010
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