Dopo aver visto Daley Blind giocare una partita pressoché perfetta al centro della difesa del Groningen impegnato all’Amsterdam ArenA contro l’Ajax, il tecnico degli ajacidi Martin Jol è sbottato. Facciamo come gli inglesi, ha detto, e introduciamo una sorta di gentlemen’s agreement tra i club che impedisca ad un giocatore in prestito di scendere in campo nelle partite contro il club che ne detiene il cartellino. Jol ha infatti sudato freddo quando Blind ha liberato a tu per tu davanti a Stekelenburg l’attaccante sloveno Tim Matavz, che però ha fallito l’occasione. Per il lanciatissimo Ajax di questo girone di ritorno (scavalcato il Psv in classifica, Twente nel mirino distante quattro punti), un eventuale passo falso casalingo contro il Groningen avrebbe potuto essere letale per le ambizioni di titolo. Non è andata così, ma Jol vuole evidentemente cautelarsi da ogni rischio, anche in previsione delle partite contro Willem II, dove militano gli ajacidi Jan-Arie van der Heijden e Mitchell Donald, e soprattutto Nec Nijmegen, con quel Jeffrey Sarpong che già in Coppa d’Olanda aveva fatto la voce grossa in casa del “suo” club. Perché a volte non esiste miglior motivazione che scendere in campo contro la squadra in cui vorresti tornare a giocare.
Proprio la Eredivisie è stata teatro, nel recente passato, di due casi di prestiti che hanno “danneggiato” la casa madre. Si sono verificati entrambi nella stagione 2006/2007, quando il Psv Eindhoven si aggiudicò il titolo all’ultima giornata bruciando al fotofinish Ajax e Az Alkmaar. I primi persero il titolo per differenza reti, anzi, per un solo gol di scarto. Forse proprio quello realizzato da Jan Vertronghen nel 2-2 ottenuto dal club di Amsterdam tempo prima contro il modesto Rkc Waalwijck, club nel quale il difensore belga era stato mandato a farsi le ossa. “Jan si è portato appresso questo trauma per cinque mesi”, ha dichiarato Jol nella sua fresca invettiva contro i prestiti. All’Az però successe anche di peggio. In testa alla classifica alla penultima giornata, il club allora guidato da Louis van Gaal perse 2-1 a Rotterdam sul campo di un Excelsior guidato dalla lucida regia di Kees Luijckx, che annichilì l’intera mediana dell’Az. Poi è tornato ad Alkmaar, dove non ha avuto fortuna. Per l’Az dunque, oltre al danno, anche la beffa.
mercoledì 31 marzo 2010
martedì 30 marzo 2010
Preview CSKA Mosca
I nomi illustri non fanno una squadra. Lo sa bene il CSKA Mosca, che per raggiungere il suo miglior piazzamento di sempre – i quarti di finale - nella storia della Champions League, si è affidato allo sconosciuto Leonid Slutskiy, arrivato nell’ottobre 2009 per restituire un’identità ad una squadra scombussolata dalle non felici gestioni di Zico e Juande Ramos, quest’ultima durata la bellezza di un mese e mezzo. Maestri dal punto di vista economico piuttosto che da quello tattico. Ma in periodo di recessione, che ha colpito anche il nuovo Eldorado calcistico della Russian Premier League (vedi il fallimento del Fc Mosca), i tagli non guardano in faccia a nessuno. Tanto più quando si scopre, come ha fatto la squadra russa più vincente del nuovo millennio (tre titoli nazionali, cinque coppe di Russia e la Coppa Uefa nel 2005), che meno è meglio.
CSKA significa Club Sportivo Centrale dell’Esercito. Ai tempi dell’URSS era la squadra dell’Armata Rossa. Ai tempi della globalizzazione invece il suo comandante ha gli occhi a mandorla e i capelli platinati, si chiama Honda (nessuna parentela però con la famosa casa automobilistica nipponica) e guida un plotone comprendente serbi, cileni, cechi e brasiliani. Pagato 6 milioni di euro lo scorso gennaio agli olandesi del Vvv Venlo, Honda è destinato a raccogliere l’eredità di Daniel Carvalho, il grande protagonista della Coppa Uefa vinta cinque anni fa, quale cervello della squadra moscovita. La personalità non gli manca (nel Vvv era capitano nonostante non parlasse una sola parola di olandese), il talento nemmeno. Gli esordi sono più che confortanti: 2 gol nelle prime tre partite di campionato, più la rete decisiva, su punizione, che è valsa al CSKA il passaggio ai quarti di Champions ai danni del favorito Siviglia.
L’artiglieria del CSKA è pericolosa dalla lunga distanza. Le bombe da fuori di Milos Krasic (nazionale serbo ambito da numerosi club europei di prima fascia, 4 reti nell’attuale Champions) e Mark Gonzalez (cileno ex Liverpool e Betis) hanno colpito il Siviglia, sopperendo alla mancanza di una prima punta con il vizio del gol. Il ceco Tomas Necid infatti si è segnalato in Europa più come assist-man che in qualità di finalizzatore, mentre non è finora pervenuto il brasiliano Guilherme, stellina del Cruzeiro finita in doppia cifra nel 2007 e nel 2008, mai però a suo agio nel freddo del Luzhniki.
Detto del 19enne Dzagoev, il “nuovo Arshavin” passato nel giro di un anno dalle giovanili del Krylya Sovetov alla nazionale e al riconoscimento quale miglior giovane del calcio russo, il CSKA torna autoctono nelle retrovie con i fratelli Berezutski, l’esperto centrale Ignashevich, il mediano Aldonin e il “Santon russo” Shchennikov, 18 anni. Un pacchetto arretrato solido ma in difficoltà contro squadre dalla manovra veloce. In porta poi Igor Akinfeev, miglior portiere russo 2009, rappresenta una sorta di terno al lotto, capace di alternare prestazioni super, vedi il derby pareggiato 0-0 contro la Dinamo Mosca due settimane fa, ad errori imbarazzanti, come quello commesso venerdì scorso sul campo del Anzhi Makhachkala.
Per l’Inter una nuova campagna di Russia dopo quella dello scorso autunno contro il Rubin Kazan. Anche questa volta non sarà facile, nonostante l’obbligo del pronostico favorevole.
Fonte: Il Giornale
CSKA significa Club Sportivo Centrale dell’Esercito. Ai tempi dell’URSS era la squadra dell’Armata Rossa. Ai tempi della globalizzazione invece il suo comandante ha gli occhi a mandorla e i capelli platinati, si chiama Honda (nessuna parentela però con la famosa casa automobilistica nipponica) e guida un plotone comprendente serbi, cileni, cechi e brasiliani. Pagato 6 milioni di euro lo scorso gennaio agli olandesi del Vvv Venlo, Honda è destinato a raccogliere l’eredità di Daniel Carvalho, il grande protagonista della Coppa Uefa vinta cinque anni fa, quale cervello della squadra moscovita. La personalità non gli manca (nel Vvv era capitano nonostante non parlasse una sola parola di olandese), il talento nemmeno. Gli esordi sono più che confortanti: 2 gol nelle prime tre partite di campionato, più la rete decisiva, su punizione, che è valsa al CSKA il passaggio ai quarti di Champions ai danni del favorito Siviglia.
L’artiglieria del CSKA è pericolosa dalla lunga distanza. Le bombe da fuori di Milos Krasic (nazionale serbo ambito da numerosi club europei di prima fascia, 4 reti nell’attuale Champions) e Mark Gonzalez (cileno ex Liverpool e Betis) hanno colpito il Siviglia, sopperendo alla mancanza di una prima punta con il vizio del gol. Il ceco Tomas Necid infatti si è segnalato in Europa più come assist-man che in qualità di finalizzatore, mentre non è finora pervenuto il brasiliano Guilherme, stellina del Cruzeiro finita in doppia cifra nel 2007 e nel 2008, mai però a suo agio nel freddo del Luzhniki.
Detto del 19enne Dzagoev, il “nuovo Arshavin” passato nel giro di un anno dalle giovanili del Krylya Sovetov alla nazionale e al riconoscimento quale miglior giovane del calcio russo, il CSKA torna autoctono nelle retrovie con i fratelli Berezutski, l’esperto centrale Ignashevich, il mediano Aldonin e il “Santon russo” Shchennikov, 18 anni. Un pacchetto arretrato solido ma in difficoltà contro squadre dalla manovra veloce. In porta poi Igor Akinfeev, miglior portiere russo 2009, rappresenta una sorta di terno al lotto, capace di alternare prestazioni super, vedi il derby pareggiato 0-0 contro la Dinamo Mosca due settimane fa, ad errori imbarazzanti, come quello commesso venerdì scorso sul campo del Anzhi Makhachkala.
Per l’Inter una nuova campagna di Russia dopo quella dello scorso autunno contro il Rubin Kazan. Anche questa volta non sarà facile, nonostante l’obbligo del pronostico favorevole.
Fonte: Il Giornale
lunedì 29 marzo 2010
Quando Walker valeva Sneijder
Accadeva esattamente otto anni fa, il 29 marzo 2002. Una squadra giovanile ad un passo dalla finale di coppa nazionale. Un evento più unico che raro, che quel venerdì sera all’Amsterdam ArenA rischiò seriamente di avverarsi. Lo Jong Ajax scendeva in campo di fronte a 19mila persone per affrontare l’Utrecht, nella prima delle due semifinali di coppa d’Olanda edizione 2001/2002. Nei Paesi Bassi infatti la coppa nazionale è un torneo aperto all’iscrizione non solo delle società dilettantistiche, come accade in numerosi altri stati (Italia esclusa), ma anche alle sezioni giovanili dei club professionistici. Lo Jong Ajax aveva iniziato la propria avventura il 10 agosto dell’anno prima infliggendo un rotondo 5-1 agli amatori dell’Huizen, per poi proseguire con altri due successi ai danni di ADO’20 e Volendam, che avevano garantito alla squadra guidata da Jan Olde Riekerink il primato del girone e la conseguente qualificazione alla fase ad eliminazione diretta. Dove i ragazzi terribili di Amsterdam hanno la meglio su Haarlem, De Graafschap, Twente e Stormvogels Telstar.
Ecco quindi l’Utrecht, il cui terzino Stijn Vreven dichiara prima del fischio di inizio di essere disposto a mangiarsi le scarpe se la sua squadra dovesse uscire contro “quei topolini”. Parole che, dietro la facciata provocatoria, non riescono a mascherare un più che giustificato timore di andare incontro ad una figuraccia, tanto più che Ajax e Utrecht sono club divisi da un’accesa rivalità modello Juventus-Fiorentina. Gli ospiti sono in buon momento: la squadra può contare su diversi giocatori “di categoria” (l’ex Udinese Wapenaar tra i pali, il play belga Tanghe a centrocampo, il centrale Zwaanswijk, la punta Glusevic), ai quali si uniscono un paio di giovani dal promettente avvenire: l’esterno sinistro Dave van der Bergh e soprattutto la punta Dirk Kuijt.
L’Ajax per contro deve rinunciare a John Heitinga e Steven Pienaar, entrambi cooptati dalla selezione maggiore, nonché al suo elemento più talentuoso, Wesley Sneijder (che verrà premiato a fine stagione quale miglior giocatore dello Jong Ajax), out per infortunio. La formazione pertanto è la seguente: Stekelenburg in porta, coppia centrale composta da Pasanen e Kras, con Mofokeng terzino destro e Valencia sull’out opposto; centrocampo a tre con Obodai, Fronio Walker e Stefano Seedorf (cugino di Clarence), quindi tridente d’attacco con Quansah punta centrale, supportato ai lati da Bechan e Culina. Nel corso dell’incontro entreranno in campo Nando Rafael, Jelle Van Damme e Nigel de Jong.
La temibile coppia d’attacco Kuijt-Glusevic non perdona, e dopo 62 minuti l’Utrecht conduce per due reti a zero. Sogno finito? Non per Nando Rafael, che prima riapre il match con tiro secco dal limite, quindi, a cinque minuti dalla fine, incorna un cross di Valencia ristabilendo la parità. Sugli spalti dell’Amsterdam ArenA compare lo striscione con la scritta “the youth has the future”. I supplementari si aprono ancora con un guizzo di Rafael, sventato però miracolosamente da Wapenaar. Dall’altro lato del campo però anche il collega Stekelenburg ha parecchio lavoro da svolgere. L’epilogo più logico sono i calci di rigore. Dove non sbaglia nessuno fino al settimo tiro, quando arriva l’errore decisivo di Pasanen.
Era un’ottima annata, quella, per lo Jong Ajax, come dimostrato dalla carriera dei giocatori in campo quel giorno. Alcuni di loro sono diventati nazionali (Stekelenburg, De Jong, Pasanen, Culina, Van Damme, più gli assenti Heitinga, Pienaar e Sneijder), altri sono comunque diventati titolari in squadre di Eredivisie (ad esempio Quansah, che ha arretrato il suo raggio di azione a centrocampo ed oggi è uno dei migliori giocatori della rivelazione Heracles Almelo). Quel 29 marzo però il più pronto per il grande salto nel professionismo sembrò il brasiliano Americo Fronio Walker, difensore centrale/mediano lucido e di grande temperamento. Ma come talvolta accade, la promessa non è stata mantenuta. Dopo un anno in prestito al GBA in Belgio, Walker e tornato in patria nell’Atletico Mineiro prima di perdersi nel magma delle divisioni inferiori. Eppure all'epoca valeva Wesley Sneijder.
PS L’Utrecht perderà quella finale 3-2 contro…..l’Ajax.
Ecco quindi l’Utrecht, il cui terzino Stijn Vreven dichiara prima del fischio di inizio di essere disposto a mangiarsi le scarpe se la sua squadra dovesse uscire contro “quei topolini”. Parole che, dietro la facciata provocatoria, non riescono a mascherare un più che giustificato timore di andare incontro ad una figuraccia, tanto più che Ajax e Utrecht sono club divisi da un’accesa rivalità modello Juventus-Fiorentina. Gli ospiti sono in buon momento: la squadra può contare su diversi giocatori “di categoria” (l’ex Udinese Wapenaar tra i pali, il play belga Tanghe a centrocampo, il centrale Zwaanswijk, la punta Glusevic), ai quali si uniscono un paio di giovani dal promettente avvenire: l’esterno sinistro Dave van der Bergh e soprattutto la punta Dirk Kuijt.
L’Ajax per contro deve rinunciare a John Heitinga e Steven Pienaar, entrambi cooptati dalla selezione maggiore, nonché al suo elemento più talentuoso, Wesley Sneijder (che verrà premiato a fine stagione quale miglior giocatore dello Jong Ajax), out per infortunio. La formazione pertanto è la seguente: Stekelenburg in porta, coppia centrale composta da Pasanen e Kras, con Mofokeng terzino destro e Valencia sull’out opposto; centrocampo a tre con Obodai, Fronio Walker e Stefano Seedorf (cugino di Clarence), quindi tridente d’attacco con Quansah punta centrale, supportato ai lati da Bechan e Culina. Nel corso dell’incontro entreranno in campo Nando Rafael, Jelle Van Damme e Nigel de Jong.
La temibile coppia d’attacco Kuijt-Glusevic non perdona, e dopo 62 minuti l’Utrecht conduce per due reti a zero. Sogno finito? Non per Nando Rafael, che prima riapre il match con tiro secco dal limite, quindi, a cinque minuti dalla fine, incorna un cross di Valencia ristabilendo la parità. Sugli spalti dell’Amsterdam ArenA compare lo striscione con la scritta “the youth has the future”. I supplementari si aprono ancora con un guizzo di Rafael, sventato però miracolosamente da Wapenaar. Dall’altro lato del campo però anche il collega Stekelenburg ha parecchio lavoro da svolgere. L’epilogo più logico sono i calci di rigore. Dove non sbaglia nessuno fino al settimo tiro, quando arriva l’errore decisivo di Pasanen.
Era un’ottima annata, quella, per lo Jong Ajax, come dimostrato dalla carriera dei giocatori in campo quel giorno. Alcuni di loro sono diventati nazionali (Stekelenburg, De Jong, Pasanen, Culina, Van Damme, più gli assenti Heitinga, Pienaar e Sneijder), altri sono comunque diventati titolari in squadre di Eredivisie (ad esempio Quansah, che ha arretrato il suo raggio di azione a centrocampo ed oggi è uno dei migliori giocatori della rivelazione Heracles Almelo). Quel 29 marzo però il più pronto per il grande salto nel professionismo sembrò il brasiliano Americo Fronio Walker, difensore centrale/mediano lucido e di grande temperamento. Ma come talvolta accade, la promessa non è stata mantenuta. Dopo un anno in prestito al GBA in Belgio, Walker e tornato in patria nell’Atletico Mineiro prima di perdersi nel magma delle divisioni inferiori. Eppure all'epoca valeva Wesley Sneijder.
PS L’Utrecht perderà quella finale 3-2 contro…..l’Ajax.
sabato 27 marzo 2010
Una finale Classica
La finale di Coppa d’Olanda 2010 vedrà di fronte le due rivali per eccellenza del calcio olandese, Ajax e Feyenoord. Gli ajacidi hanno demolito 6-0 a Deventer i cadetti del Go Ahead Eagles, confermando il proprio momento di forma strepitoso. Poco da raccontare dell’incontro, con l’Ajax già in vantaggio dopo undici minuti grazie ad un destro di Demy de Zeeuw. I padroni di casa, privi di numerosi titolari, non reagiscono. Marko Pantelic raddoppia, poi è festa nell’ultimo quarto d’ora per Siem de Jong, Dennis Rommedahil, Christian Eriksen e Nicolas Lodeiro, questi ultimi due al primo gol ufficiale in maglia biancorossa. L’Ajax approda in finale con uno score di 27 reti realizzate in 5 partite. Solo nella stagione 60/61 la squadra di Amsterdam era riuscita a fare meglio, totalizzando ben 40 reti in 9 incontri, e vincendo la coppa.
L’ultimo ostacolo per l’Ajax é rappresentato dal Feyenoord, che mercoledì ha negato al Twente di Steve McClaren la seconda finale di coppa consecutiva, dopo quella dello scorso anno persa ai rigori contro l’Heerenveen. I Tukkers, superiori agli avversari dal punto di vista della compattezza e della fluidità di manovra, non sono stati in grado di chiudere la partita nel momento più propizio, ovvero il primo tempo. Con un Feyenoord capace di produrre in quarantacinque minuti un solo di tiro nello specchio della porta avversaria con il 17enne Castaignos, il Twente ha sciupato malamente diverse occasioni, pagando dazio ad un reparto offensivo rimaneggiato per due terzi (fuori gli affaticati Stoch e Nkufo, dentro Parker e Luuk de Jong). La rete di Ruiz, arrivata su assist di De Jong dopo una palla persa di Wijnaldum ed una dormita di Fer, ha rappresentato il minimo risultato con il massimo sforzo. Insufficiente però per contenere la reazione nella ripresa di un Feyenoord rivitalizzato dall’ingresso di Roy Makaay accanto a Castaignos, con conseguente passaggio ad un attacco a due. Largo ai vecchi, per una volta; tra i pali il 41enne Van Dijk mostra sempre sicurezza e personalità, al resto ci pensano Van Bronckhorst, che pareggia i conti con un tiro nell’angolino lontano, e Makaay, implacabile nel finalizzare un bello spunto di Fer. I McClaren boys invece si fermano sul palo colpito da Tiotè.
L’ultimo ostacolo per l’Ajax é rappresentato dal Feyenoord, che mercoledì ha negato al Twente di Steve McClaren la seconda finale di coppa consecutiva, dopo quella dello scorso anno persa ai rigori contro l’Heerenveen. I Tukkers, superiori agli avversari dal punto di vista della compattezza e della fluidità di manovra, non sono stati in grado di chiudere la partita nel momento più propizio, ovvero il primo tempo. Con un Feyenoord capace di produrre in quarantacinque minuti un solo di tiro nello specchio della porta avversaria con il 17enne Castaignos, il Twente ha sciupato malamente diverse occasioni, pagando dazio ad un reparto offensivo rimaneggiato per due terzi (fuori gli affaticati Stoch e Nkufo, dentro Parker e Luuk de Jong). La rete di Ruiz, arrivata su assist di De Jong dopo una palla persa di Wijnaldum ed una dormita di Fer, ha rappresentato il minimo risultato con il massimo sforzo. Insufficiente però per contenere la reazione nella ripresa di un Feyenoord rivitalizzato dall’ingresso di Roy Makaay accanto a Castaignos, con conseguente passaggio ad un attacco a due. Largo ai vecchi, per una volta; tra i pali il 41enne Van Dijk mostra sempre sicurezza e personalità, al resto ci pensano Van Bronckhorst, che pareggia i conti con un tiro nell’angolino lontano, e Makaay, implacabile nel finalizzare un bello spunto di Fer. I McClaren boys invece si fermano sul palo colpito da Tiotè.
venerdì 26 marzo 2010
Romelu Lukaku Blitzing Belgian Football with Anderlecht
Despite being just 16 years old, Romelu Lukaku is already considered as arguably the most talented player in all of Anderlecht’s history. The Belgian-Congolese forward recently bagged his 15th Jupiler League goal and in doing so became the youngest top scorer ever in Belgium’s top flight. At 16 years, 10 months and eight days, Lukaku beat the record set by Maurice Bunyan, who netted 25 goals when he was just 17 years and seven months old with RC Brussel in the 1911/12 season.
The country’s top flight has, under the rules of a new format, seen its regular season end. Now, teams placed one to six (Anderlecht, Club Brugge, Gent, Kortrijk, Sint-Truidense and Zulte Waregem) will play off for the title, starting with half the points gained during the normal campaign. After a fantastic regular season, Lukaku’s Anderlecht surely can’t fail to win the Jupiler League.
Romelu Lukaku is the son of former player Roger Lukaku, who spent the majority of his career in Belgium, with a brief stint in Turkey with Genclerbirligi. When his son was 15, Roger Lukaku advised him to reject a €1M offer from English side Chelsea, not wanting him to leave Brussels too soon. “Romelu must first complete his studies and development”, warned his father. Lukaku senior surely knew the case of Nii Lamptey, one of the most gifted players seen in Belgium, who did not though live up to his billing. Lamptey too broke into the professional game with Anderlecht.
When Lamptey was a teenager he was considered Africa’s answer to Pele, awarded with the Golden Ball at the 1991 FIFA Under-17 World Championship. The youngster made his debut at 16 for Anderlecht, becoming the youngest ever scorer in European competition. Lamptey went on to lead Ghana’s Under-20 team to the final of the 1993 FIFA Under-20 World Championship (the Black Stars losing out to Brazil 2-1), also winning a bronze medal at the 1992 Olympic Games in Barcelona. It then came as little surprise when Lamptey swapped Belgium for Holland and Anderlecht for PSV Eindhoven, arriving at the Phillips Stadion as a superstar. For the Ghana man though, the career at the top of the game never quite happened as he suffered a string of failures which soon burnt him out far ahead of time. Lamptey became very well travelled, playing in China, Turkey, Germany, the Middle East and even South America, but wherever he went he was never able to arrest his decline, or rediscover the promise of his youth.
Lamptey serves as a warning for Lukaku. Instead the youngster has another role model, Didier Drogba, to whom he has often been compared by the Belgian press. Physically strong, the young Anderlecht striker has pace, power, a good head and shot (with his left foot) and is able to hold the ball up with ease, bringing those around him into the game. In this season’s Europa League, Lukaku showed he could score outside Belgium too, managing two against Ajax and in the process becoming the third youngest goalscorer ever in European competition, behind of course Lamptey and IFK Gothenburg’s Niklas Barkroth. He followed those goals up with strikes against Athletic Bilbao and Hamburg.
The Antwerp born striker was irresistable at youth level: 68 goals scored with FC Brussels, 59 with Anderlecht’s Under-15s, 34 with their Under-17s and 26 with the club’s Under-19s. On 13th May, 2009, Lukaku signed his first professional contract with the Belgian giants, making his debut just 11 days later in the championship playoff return match with Standard Liege. In the process he became the youngest player to wear the Anderlecht shirt, just as it was for stars like Paul van Himst, Nii Lamptey, Celestine Babayaro and Anthony Vanden Borre.
This season has seen Paars-wit coach Ariel Jacobs ease the 16-year-old steadily into the starting eleven. On 3rd March, 2010, Lukaku made his senior debut for Belgium in a friendly against Croatia in yet a further sign as to the esteem in which he is held. Off the pitch Lukaku also saw his Anderlecht shirt become the most expensive item sold in a bring and buy sale organised by SOS Kinderdorf, the world’s largest charity dedicated to orphaned and abandoned children. It fetched €4,511.
Indeed, the future looks very bright for Romelu Lukaku, but it remains essential that he heeds the words of his father and does not move too soon. It is a view others share. “There’s no doubt about his qualities.” said Chelsea owner Roman Abramovich’s personal advisor and former PSV chief scout Piet de Visser. “Is Lukaku ready for a top club? Not yet in my opinion, and of course he needs to improve and gain experience. Actually Anderlecht is the best club for his development. It would be sad to see him at Chelsea sitting on the bench. What will he learn then?”
In the summer of 2008 Everton bought Marouane Fellaini for €20M from Standard Liege and in so doing made the midfielder the most expensive Belgian player ever. Few would bet against that record not being broken by Lukaku, Belgian football’s next big thing. And if he achieves what many believe he can, then that €4,511 paid for his shirt might seem like very good business indeed.
Fonte: Inside Futbol
The country’s top flight has, under the rules of a new format, seen its regular season end. Now, teams placed one to six (Anderlecht, Club Brugge, Gent, Kortrijk, Sint-Truidense and Zulte Waregem) will play off for the title, starting with half the points gained during the normal campaign. After a fantastic regular season, Lukaku’s Anderlecht surely can’t fail to win the Jupiler League.
Romelu Lukaku is the son of former player Roger Lukaku, who spent the majority of his career in Belgium, with a brief stint in Turkey with Genclerbirligi. When his son was 15, Roger Lukaku advised him to reject a €1M offer from English side Chelsea, not wanting him to leave Brussels too soon. “Romelu must first complete his studies and development”, warned his father. Lukaku senior surely knew the case of Nii Lamptey, one of the most gifted players seen in Belgium, who did not though live up to his billing. Lamptey too broke into the professional game with Anderlecht.
When Lamptey was a teenager he was considered Africa’s answer to Pele, awarded with the Golden Ball at the 1991 FIFA Under-17 World Championship. The youngster made his debut at 16 for Anderlecht, becoming the youngest ever scorer in European competition. Lamptey went on to lead Ghana’s Under-20 team to the final of the 1993 FIFA Under-20 World Championship (the Black Stars losing out to Brazil 2-1), also winning a bronze medal at the 1992 Olympic Games in Barcelona. It then came as little surprise when Lamptey swapped Belgium for Holland and Anderlecht for PSV Eindhoven, arriving at the Phillips Stadion as a superstar. For the Ghana man though, the career at the top of the game never quite happened as he suffered a string of failures which soon burnt him out far ahead of time. Lamptey became very well travelled, playing in China, Turkey, Germany, the Middle East and even South America, but wherever he went he was never able to arrest his decline, or rediscover the promise of his youth.
Lamptey serves as a warning for Lukaku. Instead the youngster has another role model, Didier Drogba, to whom he has often been compared by the Belgian press. Physically strong, the young Anderlecht striker has pace, power, a good head and shot (with his left foot) and is able to hold the ball up with ease, bringing those around him into the game. In this season’s Europa League, Lukaku showed he could score outside Belgium too, managing two against Ajax and in the process becoming the third youngest goalscorer ever in European competition, behind of course Lamptey and IFK Gothenburg’s Niklas Barkroth. He followed those goals up with strikes against Athletic Bilbao and Hamburg.
The Antwerp born striker was irresistable at youth level: 68 goals scored with FC Brussels, 59 with Anderlecht’s Under-15s, 34 with their Under-17s and 26 with the club’s Under-19s. On 13th May, 2009, Lukaku signed his first professional contract with the Belgian giants, making his debut just 11 days later in the championship playoff return match with Standard Liege. In the process he became the youngest player to wear the Anderlecht shirt, just as it was for stars like Paul van Himst, Nii Lamptey, Celestine Babayaro and Anthony Vanden Borre.
This season has seen Paars-wit coach Ariel Jacobs ease the 16-year-old steadily into the starting eleven. On 3rd March, 2010, Lukaku made his senior debut for Belgium in a friendly against Croatia in yet a further sign as to the esteem in which he is held. Off the pitch Lukaku also saw his Anderlecht shirt become the most expensive item sold in a bring and buy sale organised by SOS Kinderdorf, the world’s largest charity dedicated to orphaned and abandoned children. It fetched €4,511.
Indeed, the future looks very bright for Romelu Lukaku, but it remains essential that he heeds the words of his father and does not move too soon. It is a view others share. “There’s no doubt about his qualities.” said Chelsea owner Roman Abramovich’s personal advisor and former PSV chief scout Piet de Visser. “Is Lukaku ready for a top club? Not yet in my opinion, and of course he needs to improve and gain experience. Actually Anderlecht is the best club for his development. It would be sad to see him at Chelsea sitting on the bench. What will he learn then?”
In the summer of 2008 Everton bought Marouane Fellaini for €20M from Standard Liege and in so doing made the midfielder the most expensive Belgian player ever. Few would bet against that record not being broken by Lukaku, Belgian football’s next big thing. And if he achieves what many believe he can, then that €4,511 paid for his shirt might seem like very good business indeed.
Fonte: Inside Futbol
giovedì 25 marzo 2010
Il giocatore della settimana: Blaise Nkufo
Una presenza impalpabile, verrebbe da dire spettrale, non fosse per quella pelle color ebano. Un corricchiare in campo in attesa di una palla di quelle giuste, e vuoi che non ne arrivi almeno una in novanta minuti quando alle tue spalle agiscono un veterano dell’assist (Perez), un piccoletto indemoniato ma un pò nervoso (Stoch) ed un dionoccolato tuttofare (Ruiz) alle prese con una stagione in cui trasforma in oro tutto ciò che luccica? Ed infatti quella palla arriva. Nella prima metà della ripresa del big match di Eindhoven tra Psv e Twente, cinque punti di distacco in classifica a favore degli ospiti, parziale di 1-0 per i padroni di casa. Uno spiraglio, un corridoio, la coppia Rodriguez-Salcido che si apre. La palla di Ruiz taglia lo spazio. L’impalpabile presenza d’ebano diventa tutto ad un tratto viva, concreta, reale. Uno sguardo alla porta, nessun avversario di fronte, eccetto il portiere. Una frazione di secondo per prendere la mira, poi il tiro, preciso, imparabile, sotto l’incrocio. Blaise Nkufo pareggia. Il Twente esce indenne da Eindhoven e supera l’esame di maturità. Il sogno della Eredivisie può continuare.
La rete numero 112 in Eredivisie di Nkufo pesa come un macigno. L’attaccante svizzero-congolese è finito in doppia cifra per la settima stagione consecutiva. L’ultima, dal momento che ha già annunciato la propria partenza in estate per gli Stati Uniti, dove spenderà gli ultimi scampoli di carriera tra le fila dei Seattle Sounders. Tra due mesi sapremo l’esatto valore di questo regalo d’addio lasciato da Nkufo ad una squadra, e ad una tifoseria, che lo adora per tutto ciò che ha fatto in questi sette anni, nonostante il giocatore tutt’oggi non sappia spiaccicare una sola parola di olandese. Ma un attaccante deve saper parlare innanzitutto con i gol, e da questo punto di vista Nkufo non è rimasto in silenzio un solo istante. Chiudere con la conquista del titolo rappresenterebbe la classica ciliegina sulla torta.
La rete numero 112 in Eredivisie di Nkufo pesa come un macigno. L’attaccante svizzero-congolese è finito in doppia cifra per la settima stagione consecutiva. L’ultima, dal momento che ha già annunciato la propria partenza in estate per gli Stati Uniti, dove spenderà gli ultimi scampoli di carriera tra le fila dei Seattle Sounders. Tra due mesi sapremo l’esatto valore di questo regalo d’addio lasciato da Nkufo ad una squadra, e ad una tifoseria, che lo adora per tutto ciò che ha fatto in questi sette anni, nonostante il giocatore tutt’oggi non sappia spiaccicare una sola parola di olandese. Ma un attaccante deve saper parlare innanzitutto con i gol, e da questo punto di vista Nkufo non è rimasto in silenzio un solo istante. Chiudere con la conquista del titolo rappresenterebbe la classica ciliegina sulla torta.
lunedì 22 marzo 2010
Momenti di gloria: Fc Amsterdam
Un tabaccaio part-time con simpatie anarchiche come icona; una fotomodella apparsa nuda davanti alle telecamere dell’emittente VPRO come madrina; una statua divenuta il simbolo della controcultura hippy-ecologista olandese come logo societario. Nessuna squadra, nemmeno l’Ajax di Johan Cruijff, ha saputo incarnare lo spirito rivoluzionario del ’68 come l’Fc Amsterdam di Jan Jongbloed, di lady Phil Bloom e dell’Het Lieverdje (il Piccolo Monello), la statua sita in piazza Spui nella capitale dei Paesi Bassi. Una combriccola talmente fuori dagli schemi da far rifiutare all’amministrazione comunale di Amsterdam persino un incontro con i propri dirigenti. Ma l’Fc Amsterdam rappresentava anche una bella fetta di storia del calcio cittadino, avendo progressivamente incluso nei propri ranghi tre club storici che avevano contribuito alla diffusione e all’affermazione di questo sport in terra olandese: De Volewijckers, Blauw-Wit e Dws. Un collettivo dell’altra Amsterdam; questa può essere la definizione più appropriata per definire i cugini-rivali dell’Ajax lungo tutti gli anni Settanta.
Se il Blauw-Wit era una società che pescava i propri sostenitori tra la media borghesia e la classe lavoratrice di ideologia moderata, il De Volewijckers faceva invece riferimento al popolo di fede comunista, molti dei quali erano stati membri attivi della resistenza durante l’occupazione nazista, quando anche una semplice partita di campionato diventava il pretesto per un regolamento di conti con i collaborazionisti. Evento che si avverava puntualmente quando il De Volewijckers si recava in trasferta a Den Haag per affrontare l’Ado, squadra i cui tifosi, ieri come oggi, pendevano decisamente a destra. Ma mentre il Blauw-Wit si caratterizzava soprattutto per le auto dei supporter dipinte a strisce orizzontali bianco-blu e per avere tra le proprie stelle Martin Koeman, papà di Ronald ed Erwin, il De Volewijckers poteva mostrare una bacheca in cui era presente un titolo nazionale, vinto nel 1944 in piena Seconda Guerra Mondiale. Un successo inaspettato che interrompeva il filotto di due campionati consecutivi dell’odiatissimo Ado Den Haag.
Ancora più esaltante era però il curriculum vitae del Dws; retrocesso in Seconda Divisione nel 1962, stagione che per la prima e unica volta aveva visto andare in scena ben dodici di derby di Amsterdam, stante la contemporanea presenza dei quattro club in Eredivisie, la squadra “dotata di forza di volontà” (questo il significato dell’acronimo Dws) era risalita due anni dopo vincendo clamorosamente il campionato. Non fu però puro caso, dal momento che il presidente Solleveld aveva messo mano al portafoglio presentando una società dotata di un apparato completamente professionista, comprendente una scuola calcio, talent scout a tempo pieno e nuove figure di staff quale quella del direttore tecnico. Non mancavano ovviamente i grandi giocatori, da Jongbloed a Rinus Israel, da Frits Flinkevleugel a Henk Wery fino a Frans Geurtsen, capocannoniere del campionato con 28 gol. L’anno successivo l’avventura in Coppa dei Campioni del Dws si ferma ai quarti di finali contro il Vasas Györ allenato da Nandor Hidegkuti, una delle leggende della Grande Ungheria, dopo aver fatto strage di palle gol sia all’Olympisch Stadion che in Ungheria.
Dagli inizi degli anni Settanta ecco invece l’Fc Amsterdam, i cui momenti migliori si collocano tra il 1973 e il 1975 con un quinto posto in Eredivisie e la conseguente partecipazione alla Coppa Uefa la stagione seguente. Dove, dopo l’Hibernian La Valletta, dall’urna esce l’Inter di Mazzola, Facchetti e Boninsegna. Il 23 ottobre 1974 gli olandesi si presentano in campo reduci da una serata a base di rum e coca cola, ma passano solo pochi minuti dal fischio d’inizio e Nico Jansen batte Bordon gelando i 30mila di San Siro e facendo la felicità dell’unico tifoso dell’Fc Amsterdam (Cor Visser, pubblicitario del quotidiano Het Parool) arrivato a Milano per sostenere la propria squadra. Jansen colpisce di nuovo a inizio ripresa, poi Boninsegna dimezza lo svantaggio ribattendo in rete un rigore che Jongbloed gli aveva respinto, mentre pochi minuti dopo tocca a Theo Husers calciare alto dal dischetto. Reti inviolate invece due settimane dopo ad Amsterdam. L’eliminazione dell’Inter da parte di un manipolo di semi-sconosciuti fa scalpore sia in Italia che in Olanda. La festa europea dell’Fc finisce ai quarti di finale per mano del Colonia di Dieter Müller.
Nell’agosto del 1979 la rete televisiva giapponese Tokyo Channel Tv organizza un torneo amichevole per festeggiare i propri quindici anni di vita, e richiede la presenza tra i partecipanti della nazionale vice-campione del mondo, ovvero l’Olanda. La Federcalcio olandese accetta la proposta senza nemmeno interpellare giocatori e squadre di club, ottenendo in cambio un rifiuto generalizzato e pressoché unanime nel partire per il Sol Levante per affrontare una massacrante tourné a poche settimane dall’inizio della nuova stagione calcistica. L’impasse viene risolto dal presidente dell’Fc Amsterdam Dé Stoop; datemi le maglie oranje, dice, e in Giappone ci porto i miei. Una squadra di Eerste Divisie (Serie B, campionato in cui l’Fc era retrocesso l’anno precedente) scende così in campo spacciandosi per la nazionale olandese; una truffa gigantesca riuscita perfettamente grazie al beneplacito della Federcalcio giapponese, coinvolta nella mascherata. Ma oltre alla goliardia rimane poco, soprattutto nelle casse del club, per nulla sostenute da risultati sportivi di una qualche rilevanza; il principio della fine si materializza con l’abbandono dell’Olympisch Stadion, troppo grande per la media spettatori della squadra, poi nel 1982 arriva il fallimento. Da quel momento l’Fc Amsterdam rivive solo in qualche sporadica riunione di reduci (Jongbloed, Rensenbrink) all’insegna della nostalgia e dei bei tempi andati. Quando l’età matura non aveva ancora cancellato la capacità di sognare.
Palmares
nessuno
Se il Blauw-Wit era una società che pescava i propri sostenitori tra la media borghesia e la classe lavoratrice di ideologia moderata, il De Volewijckers faceva invece riferimento al popolo di fede comunista, molti dei quali erano stati membri attivi della resistenza durante l’occupazione nazista, quando anche una semplice partita di campionato diventava il pretesto per un regolamento di conti con i collaborazionisti. Evento che si avverava puntualmente quando il De Volewijckers si recava in trasferta a Den Haag per affrontare l’Ado, squadra i cui tifosi, ieri come oggi, pendevano decisamente a destra. Ma mentre il Blauw-Wit si caratterizzava soprattutto per le auto dei supporter dipinte a strisce orizzontali bianco-blu e per avere tra le proprie stelle Martin Koeman, papà di Ronald ed Erwin, il De Volewijckers poteva mostrare una bacheca in cui era presente un titolo nazionale, vinto nel 1944 in piena Seconda Guerra Mondiale. Un successo inaspettato che interrompeva il filotto di due campionati consecutivi dell’odiatissimo Ado Den Haag.
Ancora più esaltante era però il curriculum vitae del Dws; retrocesso in Seconda Divisione nel 1962, stagione che per la prima e unica volta aveva visto andare in scena ben dodici di derby di Amsterdam, stante la contemporanea presenza dei quattro club in Eredivisie, la squadra “dotata di forza di volontà” (questo il significato dell’acronimo Dws) era risalita due anni dopo vincendo clamorosamente il campionato. Non fu però puro caso, dal momento che il presidente Solleveld aveva messo mano al portafoglio presentando una società dotata di un apparato completamente professionista, comprendente una scuola calcio, talent scout a tempo pieno e nuove figure di staff quale quella del direttore tecnico. Non mancavano ovviamente i grandi giocatori, da Jongbloed a Rinus Israel, da Frits Flinkevleugel a Henk Wery fino a Frans Geurtsen, capocannoniere del campionato con 28 gol. L’anno successivo l’avventura in Coppa dei Campioni del Dws si ferma ai quarti di finali contro il Vasas Györ allenato da Nandor Hidegkuti, una delle leggende della Grande Ungheria, dopo aver fatto strage di palle gol sia all’Olympisch Stadion che in Ungheria.
Dagli inizi degli anni Settanta ecco invece l’Fc Amsterdam, i cui momenti migliori si collocano tra il 1973 e il 1975 con un quinto posto in Eredivisie e la conseguente partecipazione alla Coppa Uefa la stagione seguente. Dove, dopo l’Hibernian La Valletta, dall’urna esce l’Inter di Mazzola, Facchetti e Boninsegna. Il 23 ottobre 1974 gli olandesi si presentano in campo reduci da una serata a base di rum e coca cola, ma passano solo pochi minuti dal fischio d’inizio e Nico Jansen batte Bordon gelando i 30mila di San Siro e facendo la felicità dell’unico tifoso dell’Fc Amsterdam (Cor Visser, pubblicitario del quotidiano Het Parool) arrivato a Milano per sostenere la propria squadra. Jansen colpisce di nuovo a inizio ripresa, poi Boninsegna dimezza lo svantaggio ribattendo in rete un rigore che Jongbloed gli aveva respinto, mentre pochi minuti dopo tocca a Theo Husers calciare alto dal dischetto. Reti inviolate invece due settimane dopo ad Amsterdam. L’eliminazione dell’Inter da parte di un manipolo di semi-sconosciuti fa scalpore sia in Italia che in Olanda. La festa europea dell’Fc finisce ai quarti di finale per mano del Colonia di Dieter Müller.
Nell’agosto del 1979 la rete televisiva giapponese Tokyo Channel Tv organizza un torneo amichevole per festeggiare i propri quindici anni di vita, e richiede la presenza tra i partecipanti della nazionale vice-campione del mondo, ovvero l’Olanda. La Federcalcio olandese accetta la proposta senza nemmeno interpellare giocatori e squadre di club, ottenendo in cambio un rifiuto generalizzato e pressoché unanime nel partire per il Sol Levante per affrontare una massacrante tourné a poche settimane dall’inizio della nuova stagione calcistica. L’impasse viene risolto dal presidente dell’Fc Amsterdam Dé Stoop; datemi le maglie oranje, dice, e in Giappone ci porto i miei. Una squadra di Eerste Divisie (Serie B, campionato in cui l’Fc era retrocesso l’anno precedente) scende così in campo spacciandosi per la nazionale olandese; una truffa gigantesca riuscita perfettamente grazie al beneplacito della Federcalcio giapponese, coinvolta nella mascherata. Ma oltre alla goliardia rimane poco, soprattutto nelle casse del club, per nulla sostenute da risultati sportivi di una qualche rilevanza; il principio della fine si materializza con l’abbandono dell’Olympisch Stadion, troppo grande per la media spettatori della squadra, poi nel 1982 arriva il fallimento. Da quel momento l’Fc Amsterdam rivive solo in qualche sporadica riunione di reduci (Jongbloed, Rensenbrink) all’insegna della nostalgia e dei bei tempi andati. Quando l’età matura non aveva ancora cancellato la capacità di sognare.
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nessuno
domenica 21 marzo 2010
Andy van der Meyde in Last Chance PSV Saloon
On 18th March, 2000, Ajax’s centenary year celebrations ended in tragedy as Twente defeated the Eredivisie giants in Amsterdam. A Jan Vennegoor of Hesselink goal being enough to secure the visitors an unexpected win: The Tukkers had played the whole of the second half with ten men, following Scottish forward Scott Booth’s dismissal. After the defeat, Ajax coach Jan Wouters was fired, and much of it was down to the performance of a young right winger, Andy van der Meyde.
Van der Meyde had been loaned from Ajax to Twente in the summer of 1999, the Amsterdam club deciding the youngster required more first team experience. As Twente finished the season in sixth, van der Meyde stood out as one of the most promising players in all Holland. Therefore it was no surprise that he was soon recalled to Ajax, and left Twente thanking coach Fred Rutten for his quick development.
Ten years later Andy van der Meyde and Fred Rutten have been reunited after the current PSV Eindhoven boss moved for his old charge, securing the 30-year-old until the end of the season, with the possibility of two further years. PSV had needed to strengthen their squad after selling Danko Lazovic to Zenit St. Petersburg, and Rutten had readily suggested van der Meyde, who was without a club following his release by Everton. After six unsuccessful years abroad (two in Italy with Internazionale and four in England with Everton) Andy van der Meyde now has what many consider to be his last chance of returning to the top of the football tree. Back in Holland, van der Meyde simply can’t fail again. The ex-Inter star turned returned to action for PSV in a Youth Eredivisie game between Young PSV and table toppers Young Sparta. The Young Spartans may have won, but van der Meyde didn’t mind that: “It was good to be on the pitch again” said the Dutchman, “This is only the first step in my new career. It doesn’t matter where I have played previously, I’m completely focused on the present. I want to gain fitness and be important for PSV.”
Van der Meyde’s main aim is to arrest a career which has gone into sharp decline. Injury prone and suffering problems off the pitch, in the last six seasons he has managed just 53 games, 2,664 minutes overall.
On 9th April 2005, Inter saw off Bologna at home through a Julio Cruz strike. This was the last time van der Meyde managed a full 90 minutes in an official game. Since the 30-year-old left Amsterdam, he has enjoyed an whole game on just four occasions. The Dutchman impressed in his time at Ajax between 2000 and 2003, and in the 2001/02 double winning side van der Meyde was a key player. That season was a turbulent one for the Dutch giants, with Co Adriaanse being sacked and Ronald Koeman appointed.
Yet van der Meyde played on a regular basis under both coaches, making the right wing position his own in a 4-3-3 system. In 2002, he made his national team debut under Dick Advocaat, and the next season netted 11 goals in the Eredivisie. At the Amsterdam ArenA, van der Meyde soon became known as “the sniper” and “the archer” due to his goal celebratory habit of shooting an imaginary weapon high into the sky. Van der Meyde was doing well, and was part of a young Ajax team that reached the quarter-finals of the Champions League and included Zlatan Ibrahimovic, Christian Chivu, Wesley Sneijder, Rafael van der Vaart, Steven Pienaar and Mido. Amongst that array of talent, van der Meyde was one of the brightest. So where did it all go wrong?
In the summer of 2003, van der Meyde chose to swap Amsterdam for Milan, moving to Internazionale. Ajax coach Koeman later remarked “he left too soon” and went on to comment, “I think he is not yet ready for a top level championship.” In Italy, van der Meyde failed to impress, with many Italian commentators believing that he had arrived in the right place, but at the wrong time. At the time van der Meyde landed at the San Siro, Inter were employing a 4-4-2 system, rather than the 4-3-3 which clearly suited the Dutchman. Van der Meyde was asked to play more as a flank midfielder than a winger, but there were some bright moments.
In the 2003/04 Champions League campaign the Dutchman scored a spectacular goal against Arsenal at Highbury, one so special it is still remembered by the Inter faithful to this day. However, van der Meyde never enjoyed a consistency of play, and while some remember the goal, some also remember him losing consciousness and falling to the ground during a press conference. What everyone at Inter can agree on though is that the Dutchman was never well enough, for long enough, to make an impact.
All in all van der Meyde needed a change of scenery, and on 31st August 2005, the winger moved to Everton for £2M. At the time the move was seen as a masterstroke by Toffees boss David Moyes, but now it is regarded as one of his worst pieces of business. For van der Meyde himself, the transfer was simply a move from the frying pan to the fire. In four seasons at Goodison Park, the Dutchman managed just 20 matches, failing to break into the Everton starting eleven, not scoring a single goal, and hitting the headlines for all the wrong reasons. He was fined and suspended by the Merseyside club for failing to attend training, admitted to hospital after a night out drinking, and had many run-ins with Moyes.
“Moyes constantly tried to break me down” van der Meyde said in a recent interview with Dutch newspaper De Telegraaf. “He’s a man you cannot trust. Several times he told me I didn’t have to worry about physical problems because I was one of the group, but once I was fit again I couldn’t even find a place on the bench.” In his last two seasons on Merseyside van der Meyde played just 11 minutes. On 7th December 2008, he came on for five minutes against Aston Villa, while the following month, having been brought on as a substitute in an FA Cup fourth round replay against bitter rivals Liverpool, he provided Dan Gosling with the assist for Everton’s match winning goal. Typically, such was van der Meyde’s luck, that domestic broadcaster ITV cut to an advert break in the last moments of extra time, meaning millions of viewers missed the goal.
Last summer saw van der Meyde run out his Everton contract. He had a trial at fellow Premier League side Blackburn Rovers, but did not impress, and then refused a move to Hull City. Although the Dutchman was settled in England, he stated he needed a fresh start. And where better than his homeland? As an Ajax player, van der Meyde had the club’s name tattooed on his calf. Now he has joined PSV, TV station Omproep Brabant asked him what he will do with it. “I removed it as soon as I signed for PSV” replied the winger. But in Eindhoven, van der Meyde needs to show more than a quick, perhaps painful, tattoo removal. He needs to show the player he was.
Fonte: Inside Futbol
Van der Meyde had been loaned from Ajax to Twente in the summer of 1999, the Amsterdam club deciding the youngster required more first team experience. As Twente finished the season in sixth, van der Meyde stood out as one of the most promising players in all Holland. Therefore it was no surprise that he was soon recalled to Ajax, and left Twente thanking coach Fred Rutten for his quick development.
Ten years later Andy van der Meyde and Fred Rutten have been reunited after the current PSV Eindhoven boss moved for his old charge, securing the 30-year-old until the end of the season, with the possibility of two further years. PSV had needed to strengthen their squad after selling Danko Lazovic to Zenit St. Petersburg, and Rutten had readily suggested van der Meyde, who was without a club following his release by Everton. After six unsuccessful years abroad (two in Italy with Internazionale and four in England with Everton) Andy van der Meyde now has what many consider to be his last chance of returning to the top of the football tree. Back in Holland, van der Meyde simply can’t fail again. The ex-Inter star turned returned to action for PSV in a Youth Eredivisie game between Young PSV and table toppers Young Sparta. The Young Spartans may have won, but van der Meyde didn’t mind that: “It was good to be on the pitch again” said the Dutchman, “This is only the first step in my new career. It doesn’t matter where I have played previously, I’m completely focused on the present. I want to gain fitness and be important for PSV.”
Van der Meyde’s main aim is to arrest a career which has gone into sharp decline. Injury prone and suffering problems off the pitch, in the last six seasons he has managed just 53 games, 2,664 minutes overall.
On 9th April 2005, Inter saw off Bologna at home through a Julio Cruz strike. This was the last time van der Meyde managed a full 90 minutes in an official game. Since the 30-year-old left Amsterdam, he has enjoyed an whole game on just four occasions. The Dutchman impressed in his time at Ajax between 2000 and 2003, and in the 2001/02 double winning side van der Meyde was a key player. That season was a turbulent one for the Dutch giants, with Co Adriaanse being sacked and Ronald Koeman appointed.
Yet van der Meyde played on a regular basis under both coaches, making the right wing position his own in a 4-3-3 system. In 2002, he made his national team debut under Dick Advocaat, and the next season netted 11 goals in the Eredivisie. At the Amsterdam ArenA, van der Meyde soon became known as “the sniper” and “the archer” due to his goal celebratory habit of shooting an imaginary weapon high into the sky. Van der Meyde was doing well, and was part of a young Ajax team that reached the quarter-finals of the Champions League and included Zlatan Ibrahimovic, Christian Chivu, Wesley Sneijder, Rafael van der Vaart, Steven Pienaar and Mido. Amongst that array of talent, van der Meyde was one of the brightest. So where did it all go wrong?
In the summer of 2003, van der Meyde chose to swap Amsterdam for Milan, moving to Internazionale. Ajax coach Koeman later remarked “he left too soon” and went on to comment, “I think he is not yet ready for a top level championship.” In Italy, van der Meyde failed to impress, with many Italian commentators believing that he had arrived in the right place, but at the wrong time. At the time van der Meyde landed at the San Siro, Inter were employing a 4-4-2 system, rather than the 4-3-3 which clearly suited the Dutchman. Van der Meyde was asked to play more as a flank midfielder than a winger, but there were some bright moments.
In the 2003/04 Champions League campaign the Dutchman scored a spectacular goal against Arsenal at Highbury, one so special it is still remembered by the Inter faithful to this day. However, van der Meyde never enjoyed a consistency of play, and while some remember the goal, some also remember him losing consciousness and falling to the ground during a press conference. What everyone at Inter can agree on though is that the Dutchman was never well enough, for long enough, to make an impact.
All in all van der Meyde needed a change of scenery, and on 31st August 2005, the winger moved to Everton for £2M. At the time the move was seen as a masterstroke by Toffees boss David Moyes, but now it is regarded as one of his worst pieces of business. For van der Meyde himself, the transfer was simply a move from the frying pan to the fire. In four seasons at Goodison Park, the Dutchman managed just 20 matches, failing to break into the Everton starting eleven, not scoring a single goal, and hitting the headlines for all the wrong reasons. He was fined and suspended by the Merseyside club for failing to attend training, admitted to hospital after a night out drinking, and had many run-ins with Moyes.
“Moyes constantly tried to break me down” van der Meyde said in a recent interview with Dutch newspaper De Telegraaf. “He’s a man you cannot trust. Several times he told me I didn’t have to worry about physical problems because I was one of the group, but once I was fit again I couldn’t even find a place on the bench.” In his last two seasons on Merseyside van der Meyde played just 11 minutes. On 7th December 2008, he came on for five minutes against Aston Villa, while the following month, having been brought on as a substitute in an FA Cup fourth round replay against bitter rivals Liverpool, he provided Dan Gosling with the assist for Everton’s match winning goal. Typically, such was van der Meyde’s luck, that domestic broadcaster ITV cut to an advert break in the last moments of extra time, meaning millions of viewers missed the goal.
Last summer saw van der Meyde run out his Everton contract. He had a trial at fellow Premier League side Blackburn Rovers, but did not impress, and then refused a move to Hull City. Although the Dutchman was settled in England, he stated he needed a fresh start. And where better than his homeland? As an Ajax player, van der Meyde had the club’s name tattooed on his calf. Now he has joined PSV, TV station Omproep Brabant asked him what he will do with it. “I removed it as soon as I signed for PSV” replied the winger. But in Eindhoven, van der Meyde needs to show more than a quick, perhaps painful, tattoo removal. He needs to show the player he was.
Fonte: Inside Futbol
mercoledì 17 marzo 2010
Il giocatore della settimana: Bryan Ruiz
Dopo il sorpasso, inatteso, ecco il piu' prevedibile allungo. Il Twente ha saputo approfittare del doppio stop consecutivo del Psv Eindhoven, prima fermato (non senza polemiche) a Breda, quindi demolito all'Amsterdam ArenA, portanodsi in vetta alla classifica con un vantaggio di cinque punti sul club della Philips e di sei sull'Ajax. Sugli scudi, ancora una volta, il costaricano Bryan Ruiz, autore lo scorso week-end della doppietta che ha permesso ai Tukkers di cancellare il vantaggio lampo dell'Ado Den Haag e di aggiudicarsi i tre punti in palio, chiudendo poi con perentorio 3-1.
Il rendimento mostrato da Ruiz in Eredivisie sta andando ben oltre le più rosee previsioni. Ad Enschede il nazionale costaricano ha impiegato solo poche partite per far dimenticare Marko Arnautovic, contribuendo a suon di reti (è attualmente vice-capocannoniere della Eredivisie con 19 reti in 27 partita, media di un gol ogni 70 minuti) e assist a mantenere la squadra di Steve McClaren in corsa per il titolo e per la Coppa d'Olanda, dove i Tukkers sono attesi in semifinale dal Feyenoord. Ha iniziato come ala sinistra nel tridente, poi è stato spostato a destra, infine ha giocato da numero 10 alle spalle delle punte, la posizione che ricopriva quando attirò per la prima volta, nell’estate del 2006, l’interesse di un club europeo. Erano i belgi del Gand, il cui allora manager Michel Louwagie era alla ricerca di un trequartista per sostituire Mbark Boussoufa, appena ceduto all’Anderlecht. La visione della sfida di vertice del campionato costaricano tra Deportivo Saprissa e Alajulense (il club in cui militava Ruiz, e con il quale nel 2004 aveva vinto la Coppa Campioni del CONCACAF) ha fatto scoccare la scintilla nei confronti di questo talento nato a San Josè il 18 agosto 1985. In Belgio Ruiz parte a rilento, fino a quando l’arrivo del maestro di calcio norvegese Trond Sollied lo reinventa ala sinistra. L’anno successivo, sotto la gestione Michel Preud’Homme, il costaricano centra la sua miglior stagione da professionista: 18 reti e 14 assist totali, numeri che comprendono anche le partite disputate con la nazionale, e l’elezione quale miglior straniero del campionato belga 2009/2009. In estate si trasferisce al Twente per 5.5 milioni di euro, giocatore più costoso dell’ultima Eredivisie. Attualmente ne vale il triplo e, a differenza del suo alter ego sulla fascia sinistra, lo slovacco di proprietà del Chelsea Miroslav Stoch (bravo, ma non ancora a tal punto da cancellare la nostalgia per Eljero Elia, come invece Ruiz ha saputo fare con Arnautovic) Ruiz rappresenta per i Tukkers un capitale da valorizzare. Come sempre, con una mano sul cuore e l’altra sul portafoglio.
Il rendimento mostrato da Ruiz in Eredivisie sta andando ben oltre le più rosee previsioni. Ad Enschede il nazionale costaricano ha impiegato solo poche partite per far dimenticare Marko Arnautovic, contribuendo a suon di reti (è attualmente vice-capocannoniere della Eredivisie con 19 reti in 27 partita, media di un gol ogni 70 minuti) e assist a mantenere la squadra di Steve McClaren in corsa per il titolo e per la Coppa d'Olanda, dove i Tukkers sono attesi in semifinale dal Feyenoord. Ha iniziato come ala sinistra nel tridente, poi è stato spostato a destra, infine ha giocato da numero 10 alle spalle delle punte, la posizione che ricopriva quando attirò per la prima volta, nell’estate del 2006, l’interesse di un club europeo. Erano i belgi del Gand, il cui allora manager Michel Louwagie era alla ricerca di un trequartista per sostituire Mbark Boussoufa, appena ceduto all’Anderlecht. La visione della sfida di vertice del campionato costaricano tra Deportivo Saprissa e Alajulense (il club in cui militava Ruiz, e con il quale nel 2004 aveva vinto la Coppa Campioni del CONCACAF) ha fatto scoccare la scintilla nei confronti di questo talento nato a San Josè il 18 agosto 1985. In Belgio Ruiz parte a rilento, fino a quando l’arrivo del maestro di calcio norvegese Trond Sollied lo reinventa ala sinistra. L’anno successivo, sotto la gestione Michel Preud’Homme, il costaricano centra la sua miglior stagione da professionista: 18 reti e 14 assist totali, numeri che comprendono anche le partite disputate con la nazionale, e l’elezione quale miglior straniero del campionato belga 2009/2009. In estate si trasferisce al Twente per 5.5 milioni di euro, giocatore più costoso dell’ultima Eredivisie. Attualmente ne vale il triplo e, a differenza del suo alter ego sulla fascia sinistra, lo slovacco di proprietà del Chelsea Miroslav Stoch (bravo, ma non ancora a tal punto da cancellare la nostalgia per Eljero Elia, come invece Ruiz ha saputo fare con Arnautovic) Ruiz rappresenta per i Tukkers un capitale da valorizzare. Come sempre, con una mano sul cuore e l’altra sul portafoglio.
martedì 16 marzo 2010
Christian Eriksen: Danish dynamite
Ajax’s other bright young hope, Christian Eriksen, is only 18. Born on 14th February, 1992, in Middelfart, a town in central Denmark whose name means “central passage”, Eriksen is gunning for the top of the game. Just 424 minutes played for Ajax were enough to secure a first Denmark call-up and Eriksen, uncapped by the Under-21s, made his senior debut on 3rd March 2010, coming on as a substitute in a friendly against Austria. It had been less than two months after his first Eredivisie appearance with Ajax. “I was surprised and a little scared when I heard the voice of the Denmark coach Morten Olsen on the phone” said Eriksen. All at Ajax knew the young Dane had talent, but what really surprised was his instant mental toughness, both on and off the pitch. For Eriksen there seems to be little difference in playing against ADO Den Haag or Juventus. He blends superb technical skills with great vision and a hard working attitude. His cold-blooded composure has even drawn comparisons with the young Dennis Bergkamp.
Eriksen started his career in 2005 when he turned out for the youth team of Odense Boldklub and just three years later was given the Danish Under-17 Talent of the Year award. John Steen Olsen, Ajax’s Scandinavian scout, phoned Danny Blind, at that time technical director of the Dutch giants. “At Odense there’s a 16-year-old midfielder you can’t miss” said Olsen, “please come quickly.”
The young midfielder had already had trials with Barcelona and Chelsea and did not want to go abroad to play for a deal again. “Give me a contract or leave me here” said Eriksen to Blind, and on 17th October 2008 a deal to take the young Dane to Holland was announced. “OB (Odense) gained €500,000, Ajax signed a talented player, and Christian found the right club to develop his skills” said Odense scout Uffe Pedersen at the time.
Erikson has continued his progress at Ajax, picking up the best player award in the Varsseveld Ten Brinke Bouw Tournament in June 2009: An international competition for Under-17 club teams. The jury singled out the youngster for praise due a rare tactical insight into the game and fantastic ability to shoot with both feet. In Holland, in the Eredivisie Youth Championship, Eriksen scored 10 goals with Ajax A1 in the first half of the current season. When in January Ajax picked up the Uruguayan starlet Nicolas Lodeiro from Nacional Montevideo, who plays the same role as Eriksen, it was instead the Dane that broke through first into the Dutch club’s starting line-up.
“Eriksen doesn’t seem like a typical Danish player because he doesn’t drink beer and he doesn’t like to play pool” said Michael Laudrup in the Amsterdam ArenA press room after Ajax recently met Juventus. “Joking apart, I won’t be surprised to see him next June wearing the Denmark shirt during the 2010 World Cup. His play is pure class.”
Fonte: Inside Futbol
Eriksen started his career in 2005 when he turned out for the youth team of Odense Boldklub and just three years later was given the Danish Under-17 Talent of the Year award. John Steen Olsen, Ajax’s Scandinavian scout, phoned Danny Blind, at that time technical director of the Dutch giants. “At Odense there’s a 16-year-old midfielder you can’t miss” said Olsen, “please come quickly.”
The young midfielder had already had trials with Barcelona and Chelsea and did not want to go abroad to play for a deal again. “Give me a contract or leave me here” said Eriksen to Blind, and on 17th October 2008 a deal to take the young Dane to Holland was announced. “OB (Odense) gained €500,000, Ajax signed a talented player, and Christian found the right club to develop his skills” said Odense scout Uffe Pedersen at the time.
Erikson has continued his progress at Ajax, picking up the best player award in the Varsseveld Ten Brinke Bouw Tournament in June 2009: An international competition for Under-17 club teams. The jury singled out the youngster for praise due a rare tactical insight into the game and fantastic ability to shoot with both feet. In Holland, in the Eredivisie Youth Championship, Eriksen scored 10 goals with Ajax A1 in the first half of the current season. When in January Ajax picked up the Uruguayan starlet Nicolas Lodeiro from Nacional Montevideo, who plays the same role as Eriksen, it was instead the Dane that broke through first into the Dutch club’s starting line-up.
“Eriksen doesn’t seem like a typical Danish player because he doesn’t drink beer and he doesn’t like to play pool” said Michael Laudrup in the Amsterdam ArenA press room after Ajax recently met Juventus. “Joking apart, I won’t be surprised to see him next June wearing the Denmark shirt during the 2010 World Cup. His play is pure class.”
Fonte: Inside Futbol
lunedì 15 marzo 2010
Ajax Following Coronel Path to Bright Future
In late 2007, former Ajax board member Uri Coronel was appointed to head a committee to investigate how the Dutch giants had been run over the last 10 years. In February 2008, the Coronel Commission delivered its report, and it was not pretty reading. One sentence summed up its findings: Things had to change.
“Ajax is a football club, not a business”, said Coronel as he spoke at the press conference held to announce his conclusions. Many mistakes had been made as coach after coach exited the Amsterdam ArenA, all failing to show what the Dutch giants needed. Expensive imports too were highlighted by Coronel: Wesley Sonck, Angelos Charisteas and Alberto Luque, amongst others, were all flops. The report also pointed to the listing of the club on the stock market in 1998 as a move which had produced little benefit, but perhaps the most important conclusion of all related to that which Ajax had always done so well, youth development. The club’s youth academy had failed to live up to its former heights and fewer and fewer players were making the grade.
A lack of quality throughout the club’s youth system has been a major reason for Ajax’s failures of the past decade. The Dutch giants have not won the Eredivisie since 2004 and the last world class player to emerge from its academy was Wesley Sneijder, who made his debut in on 2nd February, 2003.
After such a critical report, chairman John Jaakke, general manager Maarten Fontein and technical director Martin van Geel all resigned at the end of the 2007/08 season. Coronel himself was appointed the new chairman.
The pressing question for Coronel’s reign was, as expected, to address the youth issue as his report had highlighted. Indeed, Coronel had said “the largest part of players in the first team must have come through the ranks of the youth system. Ajax should only buy players who are either young and talented, or of such quality that they can lift the team to the next level.” And things have started to change at Ajax in the past two years. First under Marco van Basten, and then with current head coach Martin Jol, players such as Gregory van der Wiel, Siem de Jong and Christian Eriksen are shining examples of the Dutch club’s renowned policy. With these three the future of the Eredivisie giants looks bright once again.
Originally a right-footed centre back, Gregory van der Wiel broke into Ajax’s first team playing as a right back under former coach van Basten. In the summer of 2008, Ajax had bought the Uruguayan defender Bruno Silva, shelling out a cool €3.75M to sign him from Groningen. At that time Bruno Silva was widely considered one of the best full backs in the Eredivisie, while van der Wiel was, while talented, untested and had just been left out of the Dutch Olympic team bound for China. According to ex-Holland Under-21 coach Foppe de Haan, van der Wiel lacked the needed first team experience. Things soon changed though.
Seven months later van der Wiel made his senior debut for Holland, coming on as a substitute for former Ajax team-mate John Heitinga in a friendly against Tunisia. At the end of the 2008/09 season the defender picked up the Ajax Talent of the Year award, having played 40 competitive matches for the club. Meanwhile Bruno Silva asked to leave the Amsterdam ArenA.
Van der Wiel’s lightening pace and speedy runs down the flank have made him a key player for both club and country. At the 2010 World Cup the Ajax man could very well earn a starting spot in the Oranje’s first eleven, and at club level team manager David Endt believes van der Wiel is actually the most talented player, along with Christian Eriksen, at the Dutch giants. Off the pitch the full back likes to model and cut rap records, but once on the pitch his mind turns completely to football.
Marco van Basten did a great job with van der Wiel, but he couldn’t repeat the trick with Siem de Jong. The former De Graafschap midfielder made his first team debut on 26th September, 2007, under Henk Ten Cate, and at the end of the season was the only player aged under 20 to have more than 20 appearances to his name. De Jong excited right from the off, scoring in his first Eredivisie game like many former Ajax greats: Johan Cruyff (1964), Marco van Basten (1982), Ronald de Boer and Bryan Roy (1987), Marciano Vink (1988) and Patrick Kluivert (1994). The youngster melds the dynamism and guile of a classic midfielder with the skill to find space over the pitch and the attacking instinct of a second striker.
Under van Basten, de Jong spent most of his time on the bench and when he did play found himself used too far up the pitch for comfort, once even being deployed as the focal point of the attack. His situation improved dramatically with the arrival of Martin Jol and de Jong was used as an impact substitute, but an ability to link up play between the midfield and attack saw him steadily break into Ajax’s starting eleven. The 21-year-old has chipped in with vital goals and impressed in the recent Europa League clash against Juventus. Swiss-born, De Jong has a younger brother, Luuk, who plays for Eredivisie rivals FC Twente. Both graduated from the Doetinchem’s Rietveld Lyceum school, just as Guus Hiddink, Paul Bosvelt and Klaas-Jan Huntelaar before them.
(to be continued with Christian Eriksen profile)
Fonte: Inside Futbol
“Ajax is a football club, not a business”, said Coronel as he spoke at the press conference held to announce his conclusions. Many mistakes had been made as coach after coach exited the Amsterdam ArenA, all failing to show what the Dutch giants needed. Expensive imports too were highlighted by Coronel: Wesley Sonck, Angelos Charisteas and Alberto Luque, amongst others, were all flops. The report also pointed to the listing of the club on the stock market in 1998 as a move which had produced little benefit, but perhaps the most important conclusion of all related to that which Ajax had always done so well, youth development. The club’s youth academy had failed to live up to its former heights and fewer and fewer players were making the grade.
A lack of quality throughout the club’s youth system has been a major reason for Ajax’s failures of the past decade. The Dutch giants have not won the Eredivisie since 2004 and the last world class player to emerge from its academy was Wesley Sneijder, who made his debut in on 2nd February, 2003.
After such a critical report, chairman John Jaakke, general manager Maarten Fontein and technical director Martin van Geel all resigned at the end of the 2007/08 season. Coronel himself was appointed the new chairman.
The pressing question for Coronel’s reign was, as expected, to address the youth issue as his report had highlighted. Indeed, Coronel had said “the largest part of players in the first team must have come through the ranks of the youth system. Ajax should only buy players who are either young and talented, or of such quality that they can lift the team to the next level.” And things have started to change at Ajax in the past two years. First under Marco van Basten, and then with current head coach Martin Jol, players such as Gregory van der Wiel, Siem de Jong and Christian Eriksen are shining examples of the Dutch club’s renowned policy. With these three the future of the Eredivisie giants looks bright once again.
Originally a right-footed centre back, Gregory van der Wiel broke into Ajax’s first team playing as a right back under former coach van Basten. In the summer of 2008, Ajax had bought the Uruguayan defender Bruno Silva, shelling out a cool €3.75M to sign him from Groningen. At that time Bruno Silva was widely considered one of the best full backs in the Eredivisie, while van der Wiel was, while talented, untested and had just been left out of the Dutch Olympic team bound for China. According to ex-Holland Under-21 coach Foppe de Haan, van der Wiel lacked the needed first team experience. Things soon changed though.
Seven months later van der Wiel made his senior debut for Holland, coming on as a substitute for former Ajax team-mate John Heitinga in a friendly against Tunisia. At the end of the 2008/09 season the defender picked up the Ajax Talent of the Year award, having played 40 competitive matches for the club. Meanwhile Bruno Silva asked to leave the Amsterdam ArenA.
Van der Wiel’s lightening pace and speedy runs down the flank have made him a key player for both club and country. At the 2010 World Cup the Ajax man could very well earn a starting spot in the Oranje’s first eleven, and at club level team manager David Endt believes van der Wiel is actually the most talented player, along with Christian Eriksen, at the Dutch giants. Off the pitch the full back likes to model and cut rap records, but once on the pitch his mind turns completely to football.
Marco van Basten did a great job with van der Wiel, but he couldn’t repeat the trick with Siem de Jong. The former De Graafschap midfielder made his first team debut on 26th September, 2007, under Henk Ten Cate, and at the end of the season was the only player aged under 20 to have more than 20 appearances to his name. De Jong excited right from the off, scoring in his first Eredivisie game like many former Ajax greats: Johan Cruyff (1964), Marco van Basten (1982), Ronald de Boer and Bryan Roy (1987), Marciano Vink (1988) and Patrick Kluivert (1994). The youngster melds the dynamism and guile of a classic midfielder with the skill to find space over the pitch and the attacking instinct of a second striker.
Under van Basten, de Jong spent most of his time on the bench and when he did play found himself used too far up the pitch for comfort, once even being deployed as the focal point of the attack. His situation improved dramatically with the arrival of Martin Jol and de Jong was used as an impact substitute, but an ability to link up play between the midfield and attack saw him steadily break into Ajax’s starting eleven. The 21-year-old has chipped in with vital goals and impressed in the recent Europa League clash against Juventus. Swiss-born, De Jong has a younger brother, Luuk, who plays for Eredivisie rivals FC Twente. Both graduated from the Doetinchem’s Rietveld Lyceum school, just as Guus Hiddink, Paul Bosvelt and Klaas-Jan Huntelaar before them.
(to be continued with Christian Eriksen profile)
Fonte: Inside Futbol
domenica 14 marzo 2010
Momenti di gloria: Stade Reims
Si può essere maestri di calcio in molti modi. Se per Rinus Michels il calcio era una guerra, per Albert Batteux era gioia, e non a caso parlava di “le football en joie”. Il primo era soprannominato “il Generale” per la durezza dell’approccio con i giocatori; il secondo invece “l’Intellettuale” perché all’autoritarismo contrapponeva toni più soft, modi signorili e un’oratoria degna di un politico navigato. L’infanzia trascorsa nella martoriata regione di Champagne-Ardenne, teatro di sanguinose e interminabili battaglie di trincea tra la Francia e gli imperi centrali di Germania e Austria-Ungheria nel corso della Prima Guerra Mondiale, gli aveva procurato una naturale repulsione nei confronti di parole quali “battaglia”, “scontro” e “soldati”. I campi distrutti, le mutilazioni dei poilus (i soldati della fanteria francese), lo spettro della fame; uno sport bello e vitale come il calcio non poteva contenere nel proprio vocabolario termini simili. L’accenno a Michels tuttavia non è casuale: il suo rivoluzionario calcio totale capace di stupire il mondo negli anni Settanta con Ajax e Olanda contiene spunti e idee che fecero la loro comparsa, ad uno stato ancora embrionale, una decina di anni prima in Francia. Dove c’era un allenatore che schierava cinque attaccanti di ruolo predicando un calcio offensivo fatto di passaggi corti e rapidi, triangolazioni, possesso palla e continuo movimento dei giocatori. Era Monsieur Batteux e il suo Stade Reims. Fu davvero troppo facile per la critica ribattezzarlo “calcio-champagne”.
Pronti-via, e il 13 giugno del 1956 al Neckarstadion di Stoccarda il Real Madrid di Gento e Di Stefano è già sotto di due reti contro gli scatenati Rouge et Blanc, il cui calcio armonico, a detta della loro stella più fulgida, Raymond Kopa, “combinava intelligenza e spettacolarità”. Il maggior tasso tecnico delle Merengues non sembrava sufficiente di fronte al collettivo francese, che a mezz’ora dalla fine si trovava ancora in vantaggio, questa volta per 3-2. Poi arriva il classico episodio che decide la Storia scavando un profondo solco che divide vincenti e perdenti; quel giorno si materializza sotto forma di un clamoroso palo colpito da Jean Templin. Avrebbe potuto essere il crollo definitivo del Real, ne diventa invece il punto di rinascita; segnano Di Stefano e Gento, e la prima edizione della Coppa dei Campioni finisce in Spagna. Ci finirà poche settimane dopo anche la stella dello Stade Reims, Kopa, centravanti tattico brevilineo dal dribbling devastante e dalla visione di gioco “totale”. Le Napoleon du Football, il primo giocatore francese a vincere il Pallone d’Oro, il miglior giovane giocatore al Mondiale tedesco del 1954 e il miglior giocatore in assoluto a quello in Svezia quattro anni dopo. Il più grande, prima dell’avvento di un certo Michel Platini.Raymond Kopazewski, figlio di polacchi emigrati negli anni Venti nel villaggio di Nouex-les Mines, Francia Settentrionale, per lavorare nelle miniere, era una delle scoperte di Albert Batteux, che nel 1951 aveva convinto il presidente dello Stade Reims Henri Germain a sborsare 1.8 milioni di franchi francesi per assicurarselo dall’Angers. Batteux era stato promosso allenatore l’anno prima all’età di 29 anni. Le perplessità di molti dirigenti, preoccupati dall’insediamento in panchina di una persona più giovane di alcuni elementi della squadra, suoi ex compagni (Batteux giocava come centrocampista nello Stade Reims), non frenarono Germain. Nel 1953 arriva il titolo nazionale e la vittoria della Copa Latina (torneo internazionale al quale partecipavano le migliori squadre di Italia, Spagna, Francia e Portogallo, poi sostituito proprio dalla Coppa Campioni), quest’ultima ottenuta con un secco 3-0 al Milan del Gre-No-Li. Il quintetto d’attacco Appel-Glovacki-Kopa-Sinibaldi-Méano fa sfracelli, e nel 1955 entra in bacheca un altro campionato. Batteux non si dimostra solo maestro di tattica, ma allenatore innovativo a tutto tondo, introducendo nella preparazione estiva i “seminaires”, sorta stage psico-atletici durante i quali i giocatori vengono sottoposti ad un durissimo tour de force di dieci giorni che combina preparazione fisica, tecnica e psicologica.
Persi la Coppa dei Campioni e Kopa nel 1956, Batteux riparte prelevando dal Nizza Just Fontaine, affiancato in avanti dall’interno offensivo Roger Piantoni, dall’ala sinistra Jean Vincent e dall’attaccante Renè Bliard. Arriveranno altri tre titoli, nel ’58, nel ’60 e nel ’62, più un terzo posto al campionato mondiale svedese del 1958 “conquistato”, ricorda ancora Kopa, “più dallo Stade Reims che dalla Francia”. Il club francese forniva infatti ai Galletti bel otto elementi (inclusi il difensore Robert Jonquet e il mediano Armand Penverne), oltre allo stesso Batteux, che vedrà la sua squadra arrendersi in semifinale solamente al cospetto del Brasile di Pelè, Didi, Vavà e Garrincha. Fontaine chiude capocannoniere con 13 reti, record tutt’oggi imbattuto. Il 1958 è anche l’anno dell’accoppiata campionato-coppa di Francia, quest’ultima vinta grazie ad un 3-1 al Nimes in finale firmato Bliard (doppietta) e Fontaine. L’anno successivo lo Stade Reims, trascinato dalla reti del “pied noir” (così sono definiti i francesi nati in Africa e poi rimpatriati) Fontaine, autore di 10 gol, è di nuovo in finale di Coppa Campioni, sempre contro il Real Madrid. Lo champagne dei francesi però evapora subito e l’incontro si chiude con un 2-0 senza storia.
Gli anni Sessanta portano il declino; rientra alla base Kopa ma è in parabola discendente; Fontaine lascia il calcio giocato a soli 29 anni per un brutto infortunio; nel 1963 lo Stade Reims non rinnova il contratto a Batteux. Nel 1992 il club fallisce ed è costretto a ripartire dai dilettanti. Dieci anni dopo Christope Chenut, boss della Lacoste, riporta in club in Ligue 2, dove langue tuttora senza arte né parte. Il figlio talentuoso di un minatore polacco e un genio visionario della Marna che vede il calcio come un inno alla gioia sono eventi che capitano una sola volta nella vita.
Palmares
Campionato francese (6): 1949, 1953, 1955, 1958, 1960, 1962.
Coppa di Francia (2): 1950, 1958.
Coppa di Lega (1): 1991.
Pronti-via, e il 13 giugno del 1956 al Neckarstadion di Stoccarda il Real Madrid di Gento e Di Stefano è già sotto di due reti contro gli scatenati Rouge et Blanc, il cui calcio armonico, a detta della loro stella più fulgida, Raymond Kopa, “combinava intelligenza e spettacolarità”. Il maggior tasso tecnico delle Merengues non sembrava sufficiente di fronte al collettivo francese, che a mezz’ora dalla fine si trovava ancora in vantaggio, questa volta per 3-2. Poi arriva il classico episodio che decide la Storia scavando un profondo solco che divide vincenti e perdenti; quel giorno si materializza sotto forma di un clamoroso palo colpito da Jean Templin. Avrebbe potuto essere il crollo definitivo del Real, ne diventa invece il punto di rinascita; segnano Di Stefano e Gento, e la prima edizione della Coppa dei Campioni finisce in Spagna. Ci finirà poche settimane dopo anche la stella dello Stade Reims, Kopa, centravanti tattico brevilineo dal dribbling devastante e dalla visione di gioco “totale”. Le Napoleon du Football, il primo giocatore francese a vincere il Pallone d’Oro, il miglior giovane giocatore al Mondiale tedesco del 1954 e il miglior giocatore in assoluto a quello in Svezia quattro anni dopo. Il più grande, prima dell’avvento di un certo Michel Platini.Raymond Kopazewski, figlio di polacchi emigrati negli anni Venti nel villaggio di Nouex-les Mines, Francia Settentrionale, per lavorare nelle miniere, era una delle scoperte di Albert Batteux, che nel 1951 aveva convinto il presidente dello Stade Reims Henri Germain a sborsare 1.8 milioni di franchi francesi per assicurarselo dall’Angers. Batteux era stato promosso allenatore l’anno prima all’età di 29 anni. Le perplessità di molti dirigenti, preoccupati dall’insediamento in panchina di una persona più giovane di alcuni elementi della squadra, suoi ex compagni (Batteux giocava come centrocampista nello Stade Reims), non frenarono Germain. Nel 1953 arriva il titolo nazionale e la vittoria della Copa Latina (torneo internazionale al quale partecipavano le migliori squadre di Italia, Spagna, Francia e Portogallo, poi sostituito proprio dalla Coppa Campioni), quest’ultima ottenuta con un secco 3-0 al Milan del Gre-No-Li. Il quintetto d’attacco Appel-Glovacki-Kopa-Sinibaldi-Méano fa sfracelli, e nel 1955 entra in bacheca un altro campionato. Batteux non si dimostra solo maestro di tattica, ma allenatore innovativo a tutto tondo, introducendo nella preparazione estiva i “seminaires”, sorta stage psico-atletici durante i quali i giocatori vengono sottoposti ad un durissimo tour de force di dieci giorni che combina preparazione fisica, tecnica e psicologica.
Persi la Coppa dei Campioni e Kopa nel 1956, Batteux riparte prelevando dal Nizza Just Fontaine, affiancato in avanti dall’interno offensivo Roger Piantoni, dall’ala sinistra Jean Vincent e dall’attaccante Renè Bliard. Arriveranno altri tre titoli, nel ’58, nel ’60 e nel ’62, più un terzo posto al campionato mondiale svedese del 1958 “conquistato”, ricorda ancora Kopa, “più dallo Stade Reims che dalla Francia”. Il club francese forniva infatti ai Galletti bel otto elementi (inclusi il difensore Robert Jonquet e il mediano Armand Penverne), oltre allo stesso Batteux, che vedrà la sua squadra arrendersi in semifinale solamente al cospetto del Brasile di Pelè, Didi, Vavà e Garrincha. Fontaine chiude capocannoniere con 13 reti, record tutt’oggi imbattuto. Il 1958 è anche l’anno dell’accoppiata campionato-coppa di Francia, quest’ultima vinta grazie ad un 3-1 al Nimes in finale firmato Bliard (doppietta) e Fontaine. L’anno successivo lo Stade Reims, trascinato dalla reti del “pied noir” (così sono definiti i francesi nati in Africa e poi rimpatriati) Fontaine, autore di 10 gol, è di nuovo in finale di Coppa Campioni, sempre contro il Real Madrid. Lo champagne dei francesi però evapora subito e l’incontro si chiude con un 2-0 senza storia.
Gli anni Sessanta portano il declino; rientra alla base Kopa ma è in parabola discendente; Fontaine lascia il calcio giocato a soli 29 anni per un brutto infortunio; nel 1963 lo Stade Reims non rinnova il contratto a Batteux. Nel 1992 il club fallisce ed è costretto a ripartire dai dilettanti. Dieci anni dopo Christope Chenut, boss della Lacoste, riporta in club in Ligue 2, dove langue tuttora senza arte né parte. Il figlio talentuoso di un minatore polacco e un genio visionario della Marna che vede il calcio come un inno alla gioia sono eventi che capitano una sola volta nella vita.
Palmares
Campionato francese (6): 1949, 1953, 1955, 1958, 1960, 1962.
Coppa di Francia (2): 1950, 1958.
Coppa di Lega (1): 1991.
venerdì 12 marzo 2010
L'ultima chance di Andy
Il 18 marzo del 2000 l’Ajax si appresta a festeggiare il proprio centenario. L’occasione è la partita casalinga di campionato contro il Twente, che gli uomini allenati da Jan Wouters affrontano vestendo delle suggestive divise d’epoca. Sarà un disastro. Al minuto 29 Jan Vennegoor of Hesselink porta in vantaggio i Tukkers, che poi restano in dieci per l’espulsione dell’attaccante scozzese Scott Booth. Ma il portiere Sander Boschker abbassa la saracinesca. Finisce 0-1. Wouters viene silurato.
Nel Twente si segnala tra i più brillanti una giovane ala destra di proprietà dell’Ajax, mandata ad inizio stagione ad Enschede per acquisire un po’ di esperienza. Si chiama Andy van der Meyde e sta disputando un campionato di alto livello. Le sue prestazioni gli garantiranno il rientro alla casa madre, e un posto nell’undici titolare dell’Ajax. Van der Meyde, Van der Vaart, Chivu, Pasanen e Van der Gun. Le promesse degli ajacidi stagione 2000/2001 sono loro. Non tutte verranno mantenute.
All’Amsterdam Arena Van der Meyde diventa l’arciere, per l’esultanza di mirare un bersaglio immaginario nel cielo dopo ogni rete segnata. Nel 2002 Dick Advocaat lo fa esordire in nazionale. Sarà il primo dei cinque “deb” nel corso della gestione del Piccolo Generale (gli altri sono Wesley Sneijder, Arjen Robben, John Heitinga e Nigel de Jong). Con Ronald Koeman vince il double campionato-coppa, e la stagione successiva è tra i protagonisti, assieme ad Ibrahimovic, Chivu, Sneijder e Pienaar, dell’Ajax che raggiunge i quarti di finale di Champions League. Termina il campionato in doppia cifra e decide di lasciare Amsterdam per l’Inter. “Troppo presto”, sentenzia Koeman, “Andy non è ancora pronto per un campionato estero”. Mai previsione fu più azzeccata.
Andy van der Meyde ha trascorso sei stagioni all’estero. Due a Milano, quattro a Liverpool, sponda Everton. In questo lasso di tempo ha disputato solamente 52 partite, 32 delle quali in Serie A con l’Inter, per un totale di 2.664 minuti di calcio giocato. Infortuni e problemi personali (legati specialmente alla bottiglia) lo hanno quasi trasformato in un ex-giocatore. Nell’Inter non giocava bene (da ricordare un bel gol nel 3-0 rifilato dai nerazzurri all’Arsenal ad Higbury, e poco altro), nell’Everton non giocava proprio. I numeri parlano di 220partite con i Toffees in quattro anni, ed una frattura con il tecnico David Moyes progressivamente allargatasi mese dopo mese. Nell’estate 2009, Van der Meyde rimane senza squadra. Il suo ultimo anno all’Everton: sei minuti nel match di Premier League contro l’Aston Villa, cinque nel derby di FA Cup contro il Liverpool, vinto dall’Everton nelle battute conclusive grazie ad una rete di Dan Gosling proprio su assist dell’olandese.
Per disputare nuovamente un incontro ufficiale Van der Meyde ha dovuto attendere la scorsa settimana, quando è sceso in campo con lo Jong Psv Eindhoven in un match perso (2-1) contro lo Jong Sparta, campionato Primavera olandese. Il club della Philips, allenato da quel Fred Rutten che sedeva sulla panchina del Twente quando Van der Meyde arrivò in prestito dall’Ajax, lo ha ingaggiato per sostituire Danko Lazovic, ceduto allo Zenit San Pietroburgo. Van der Meyde è rimasto in campo trenta minuti. La sua ultima partita per intero Andy l’ha disputata il 9 aprile 2005, Bologna-Inter 0-1 (rete di Julio Cruz). Per lui Eindhoven rappresenta l’ultimo treno di una carriera che ha mantenuto il trenta per cento, a volere essere generosi, di quanto promesso. Nel frattempo l’ex nazionale olandese ha provveduto a mettere ordine sulla propria pelle. Il tatuaggio a caratteri gotici recante la scritta “Ajax”, ha fatto sapere Van der Meyde in un’intervista all’emittente televisiva Omroep Brabant, è stato rimosso. Ma ci vuole ben altro per dimostrare al Psv di non essere un nuovo flop alla Patrick Kluivert.
Nel Twente si segnala tra i più brillanti una giovane ala destra di proprietà dell’Ajax, mandata ad inizio stagione ad Enschede per acquisire un po’ di esperienza. Si chiama Andy van der Meyde e sta disputando un campionato di alto livello. Le sue prestazioni gli garantiranno il rientro alla casa madre, e un posto nell’undici titolare dell’Ajax. Van der Meyde, Van der Vaart, Chivu, Pasanen e Van der Gun. Le promesse degli ajacidi stagione 2000/2001 sono loro. Non tutte verranno mantenute.
All’Amsterdam Arena Van der Meyde diventa l’arciere, per l’esultanza di mirare un bersaglio immaginario nel cielo dopo ogni rete segnata. Nel 2002 Dick Advocaat lo fa esordire in nazionale. Sarà il primo dei cinque “deb” nel corso della gestione del Piccolo Generale (gli altri sono Wesley Sneijder, Arjen Robben, John Heitinga e Nigel de Jong). Con Ronald Koeman vince il double campionato-coppa, e la stagione successiva è tra i protagonisti, assieme ad Ibrahimovic, Chivu, Sneijder e Pienaar, dell’Ajax che raggiunge i quarti di finale di Champions League. Termina il campionato in doppia cifra e decide di lasciare Amsterdam per l’Inter. “Troppo presto”, sentenzia Koeman, “Andy non è ancora pronto per un campionato estero”. Mai previsione fu più azzeccata.
Andy van der Meyde ha trascorso sei stagioni all’estero. Due a Milano, quattro a Liverpool, sponda Everton. In questo lasso di tempo ha disputato solamente 52 partite, 32 delle quali in Serie A con l’Inter, per un totale di 2.664 minuti di calcio giocato. Infortuni e problemi personali (legati specialmente alla bottiglia) lo hanno quasi trasformato in un ex-giocatore. Nell’Inter non giocava bene (da ricordare un bel gol nel 3-0 rifilato dai nerazzurri all’Arsenal ad Higbury, e poco altro), nell’Everton non giocava proprio. I numeri parlano di 220partite con i Toffees in quattro anni, ed una frattura con il tecnico David Moyes progressivamente allargatasi mese dopo mese. Nell’estate 2009, Van der Meyde rimane senza squadra. Il suo ultimo anno all’Everton: sei minuti nel match di Premier League contro l’Aston Villa, cinque nel derby di FA Cup contro il Liverpool, vinto dall’Everton nelle battute conclusive grazie ad una rete di Dan Gosling proprio su assist dell’olandese.
Per disputare nuovamente un incontro ufficiale Van der Meyde ha dovuto attendere la scorsa settimana, quando è sceso in campo con lo Jong Psv Eindhoven in un match perso (2-1) contro lo Jong Sparta, campionato Primavera olandese. Il club della Philips, allenato da quel Fred Rutten che sedeva sulla panchina del Twente quando Van der Meyde arrivò in prestito dall’Ajax, lo ha ingaggiato per sostituire Danko Lazovic, ceduto allo Zenit San Pietroburgo. Van der Meyde è rimasto in campo trenta minuti. La sua ultima partita per intero Andy l’ha disputata il 9 aprile 2005, Bologna-Inter 0-1 (rete di Julio Cruz). Per lui Eindhoven rappresenta l’ultimo treno di una carriera che ha mantenuto il trenta per cento, a volere essere generosi, di quanto promesso. Nel frattempo l’ex nazionale olandese ha provveduto a mettere ordine sulla propria pelle. Il tatuaggio a caratteri gotici recante la scritta “Ajax”, ha fatto sapere Van der Meyde in un’intervista all’emittente televisiva Omroep Brabant, è stato rimosso. Ma ci vuole ben altro per dimostrare al Psv di non essere un nuovo flop alla Patrick Kluivert.
Linea Bianca reloaded
E' tornato nelle librerie Linea Bianca, il trimestrale di scienza e cultura sportiva edito da Limina. Il primo numero del nuovo corso e' dedicato all'Africa ed ai Mondiali di calcio. Radio Olanda ha contribuito con un pezzo dedicato al tecnico olandese Arie Schans.
Schans, che Arie da globetrotter.
Un moderno esploratore "travestito" da maestro di calcio. E' un olandese senza paura, diviso tra Africa e Cina. Ha vinto anche una finale Mondiale, quando la Fifa la organizzo' tra le peggiori nazionali del mondo. Fini' 4-0 per il Bhutan contro Montserrat. Il ct del Bhutan era Arie Schans...
(Linea Bianca, n. 9/2010, € 17,90)
Schans, che Arie da globetrotter.
Un moderno esploratore "travestito" da maestro di calcio. E' un olandese senza paura, diviso tra Africa e Cina. Ha vinto anche una finale Mondiale, quando la Fifa la organizzo' tra le peggiori nazionali del mondo. Fini' 4-0 per il Bhutan contro Montserrat. Il ct del Bhutan era Arie Schans...
(Linea Bianca, n. 9/2010, € 17,90)
domenica 7 marzo 2010
Un inglese a Mosca
I primi anni Sessanta a Mosca non erano sicuramente Swinging come quelli a Londra, ma la ventata di aria fresca si poteva percepire anche nella capitale dell’Unione Sovietica. Yuri Gagarin era volato nello spazio; la politica di destalinizzazione voluta da Nikita Khrushchev aveva portato alla rimozione del corpo del dittatore georgiano dal Mausoleo di Lenin per seppellirlo fuori dalle mura del Cremlino; lo scrittore Alexander Solženicyn aveva pubblicato “Una giornata di Ivan Denisovič”, romanzo che denunciava gli orrori dei gulag; la musica jazz stava rapidamente diffondendosi nei ceti popolari. Senza dimenticare che a livello politico il modello di stato proposto dall’URSS appariva solido e compatto come non mai; Cuba e diversi stati africani avevano scelto il socialismo anziché il capitalismo, militarmente l’Unione Sovietica gareggiava alla pari con gli Stati Uniti, mentre dal punto di vista economico la produzione di gas e acciaio superava addirittura quella del nemico americano.
“Sembrava proprio che il comunismo stesse marciando verso un grande futuro”; con questo spirito sbarcava Mosca nel 1963 un giovane studente inglese di Portsmouth, James Riordan, iscrittosi alla scuola superiore del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Riordan aveva due passioni nella vita: il comunismo e il calcio. La prima era maturata durante il servizio militare, che Riordan aveva svolto a Berlino seguendo un corso di addestramento per spie. Proprio il costante contatto con studenti e soldati sovietici lo avevano spinto a passare dall’altra parte della barricata, e una volta tornato in Inghilterra si era iscritto al partito comunista locale. I contatti acquisiti tra esercito, ambasciata e partito avevano infine reso possibile il proprio sogno: recarsi direttamente in URSS per studiare il socialismo in presa diretta.
A Mosca Riordan lavora come traduttore, segue le lezioni di Leonid Brezhnev e della “Pasionaria” Dolores Ibarruri, beve vodka con Khrushchev, pranza con Lev Yaschin e, nel tempo libero, gioca a calcio. Le partite le organizza l’ambasciata britannica secondo lo schema “Inghilterra e Irlanda contro resto del mondo”. A Riordan capita così di trovarsi di fronte l’ambasciatore del Kenya, che gioca scalzo, ma anche il difensore dello Spartak Mosca e della nazionale sovietica Gennardy Logofet. Proprio da quest’ultimo arriva un giorno un invito molto particolare: “vieni al nostro prossimo allenamento, e porta le scarpe da calcio”.
Inizia così l’avventura del primo calciatore inglese ad aver giocato nel campionato sovietico. Riordan era cresciuto nel mito della Dinamo Mosca, che nel 1945 aveva disputato una serie di incontri in Inghilterra riscuotendo numerosi consensi per l’elevata qualità espressa dal proprio calcio. Il piccolo James era uno dei bambini presenti sugli spalti quando i sovietici toccarono la costa meridionale d’Albione. Poco meno di venti anni dopo eccolo esordire al centro della difesa dello Spartak Mosca di fronte a 50mila persone che gremiscono il Lenin Stadium. Nikita Simonyan, il tecnico dello Spartak, aveva scelto Riordan per sostituire Valery Volkov, in condizioni pietose dopo l’ennesima sbronza. L’avversario è il Pakhtakor di Tashkent, l’incontro termina 2-2 e Riordan, annunciato dallo speaker dello stadio con il nome di Yakov Eordahnov (“per evitare complicazioni”, ricorda il diretto interessato), disputa una buona partita. “Iniziai all’inglese”, scherza Riordan, “liberando l’area con un paio di campanili, e venni ripreso dal capitano Igor Netto. Passala ad un compagno – mi disse – non al pubblico. A fine partita, stremato, ricevetti i complimenti della squadra”. Nell’1-0 rifilato al Kairat Almaty un paio di settimane dopo Riordan/Eordahnov è nuovamente in campo; poi, dopo qualche presenza in panchina, l’esperienza si conclude. Lo Spartak terminerà secondo in campionato alle spalle della Dinamo Mosca.
Nel 1965 Riordan, disilluso dal regime sovietico, rientra in Inghilterra. Era stato dichiarato persona non gradita in URSS dopo la pubblicazione sul British Soviet Friendship Journal di un articolo dal titolo “I crescenti dolori della gioventù sovietica”, e anche in Inghilterra il partito comunista aveva stigmatizzato i suoi “sofismi borghesi”. L’ex studente di Portsmouth in realtà era rimasto profondamente colpito dall’esperienza con lo Spartak Mosca, e soprattutto dall’incontro con il suo fondatore Nikolai Starostin, l’uomo che assieme ai suoi tre fratelli fu deportato da Stalin in un campo di lavoro in Siberia, dove vi rimase dieci anni, con l’accusa di “propagandare uno sport di ideali borghesi”. I fili della condanna-farsa erano stati mossi da Lavrentriy Beria, capo dei servizi di sicurezza sovietici nonché presidente di quella Dinamo Mosca che nel 1938 aveva dovuto assistere impassibile alla doppietta campionato-coppa messa a segna dallo Spartak. Dall’anno successivo era iniziati gli arresti, le esecuzioni e le deportazioni di numerosi membri della squadra. “Il calcio veniva manipolato e controllato dal potere”, ha scritto Riordan, “perché la sua capacità di aggregazione e la sua vitalità era temuta dai dittatori. Sono convinto che se non fosse stato un giocatore di fama nazionale, Starostin non sarebbe sopravvissuto né a Stalin né a Beria”.
La carriera calcistica di Riordan è proseguita nella Dockyard League di Portsmouth, ottava divisione del campionato inglese. Ben più consistente è stata la sua attività di scrittore, con la pubblicazione di “Sport in Soviet Society”, il primo libro che ha raccontato in occidente la storia dei fratelli Starostin, e dell’autobiografia “Comrade Jim – Ths spy who played for Spartak”. Qualche anno fa Riordan è tornato a Mosca come inviato della BBC per ripercorrere la sua storia, imbattendosi però in ciò che il diretto interessato ha chiamato “l’amnesia post-URSS”. Nessuno, ad eccezione del vecchio compagno di squadra Galimzyan Khusainov, ha voluto incontrarlo, e diverse persone hanno negato di conoscerlo. “Cancellare il passato”, ha commentato l’ex Spartak Mosca, “un atteggiamento tipicamente russo. Non nego di esserci rimasto molto male. Nemmeno i vecchi compagni alla scuola del PCUS hanno accettato di vedermi”.
Oggi a Mosca non esiste alcuna traccia di Yakov Eordahnov; non c’è negli archivi dello Spartak, né in alcun giornale d’epoca. L’unica via percorribile è il mercatino delle pulci, cercando tra le collezioni di cartoncini che venivano inseriti nei pacchetti di sigarette. Alcuni di questi raffiguravano i calciatori del campionato sovietico. “Niente televisione, niente figurine, uno dei pochi modi che i giocatori avevano per farsi conoscere era questo. Una volta mi fermò un tizio e mi chiese il permesso di prepararne alcuni dedicati al sottoscritto”. Alexey Smertin, acquistato nel 2003 dal Chelsea del neo-presidente Roman Abramovich, ha confermato di aver ascoltato delle storie riguardanti un inglese nel campionato sovietico nei primi anni Sessanta. Si era anche accordato con Riordan per scrivere la prefazione di “Comrade Jim”, ma l’idea è stata bocciata dall’editore. Non sapeva chi fosse Smertin…
A Mosca, però, di questa storia non ci sono tracce. Nessuno si ricorda di Riordan e Khuisanov, oggi 72enne, spesso non ci sta con la testa. Per gli annuari, quello Spartak-Pakhtakor finì 4-4.
Fonte: Guerin Sportivo
“Sembrava proprio che il comunismo stesse marciando verso un grande futuro”; con questo spirito sbarcava Mosca nel 1963 un giovane studente inglese di Portsmouth, James Riordan, iscrittosi alla scuola superiore del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Riordan aveva due passioni nella vita: il comunismo e il calcio. La prima era maturata durante il servizio militare, che Riordan aveva svolto a Berlino seguendo un corso di addestramento per spie. Proprio il costante contatto con studenti e soldati sovietici lo avevano spinto a passare dall’altra parte della barricata, e una volta tornato in Inghilterra si era iscritto al partito comunista locale. I contatti acquisiti tra esercito, ambasciata e partito avevano infine reso possibile il proprio sogno: recarsi direttamente in URSS per studiare il socialismo in presa diretta.
A Mosca Riordan lavora come traduttore, segue le lezioni di Leonid Brezhnev e della “Pasionaria” Dolores Ibarruri, beve vodka con Khrushchev, pranza con Lev Yaschin e, nel tempo libero, gioca a calcio. Le partite le organizza l’ambasciata britannica secondo lo schema “Inghilterra e Irlanda contro resto del mondo”. A Riordan capita così di trovarsi di fronte l’ambasciatore del Kenya, che gioca scalzo, ma anche il difensore dello Spartak Mosca e della nazionale sovietica Gennardy Logofet. Proprio da quest’ultimo arriva un giorno un invito molto particolare: “vieni al nostro prossimo allenamento, e porta le scarpe da calcio”.
Inizia così l’avventura del primo calciatore inglese ad aver giocato nel campionato sovietico. Riordan era cresciuto nel mito della Dinamo Mosca, che nel 1945 aveva disputato una serie di incontri in Inghilterra riscuotendo numerosi consensi per l’elevata qualità espressa dal proprio calcio. Il piccolo James era uno dei bambini presenti sugli spalti quando i sovietici toccarono la costa meridionale d’Albione. Poco meno di venti anni dopo eccolo esordire al centro della difesa dello Spartak Mosca di fronte a 50mila persone che gremiscono il Lenin Stadium. Nikita Simonyan, il tecnico dello Spartak, aveva scelto Riordan per sostituire Valery Volkov, in condizioni pietose dopo l’ennesima sbronza. L’avversario è il Pakhtakor di Tashkent, l’incontro termina 2-2 e Riordan, annunciato dallo speaker dello stadio con il nome di Yakov Eordahnov (“per evitare complicazioni”, ricorda il diretto interessato), disputa una buona partita. “Iniziai all’inglese”, scherza Riordan, “liberando l’area con un paio di campanili, e venni ripreso dal capitano Igor Netto. Passala ad un compagno – mi disse – non al pubblico. A fine partita, stremato, ricevetti i complimenti della squadra”. Nell’1-0 rifilato al Kairat Almaty un paio di settimane dopo Riordan/Eordahnov è nuovamente in campo; poi, dopo qualche presenza in panchina, l’esperienza si conclude. Lo Spartak terminerà secondo in campionato alle spalle della Dinamo Mosca.
Nel 1965 Riordan, disilluso dal regime sovietico, rientra in Inghilterra. Era stato dichiarato persona non gradita in URSS dopo la pubblicazione sul British Soviet Friendship Journal di un articolo dal titolo “I crescenti dolori della gioventù sovietica”, e anche in Inghilterra il partito comunista aveva stigmatizzato i suoi “sofismi borghesi”. L’ex studente di Portsmouth in realtà era rimasto profondamente colpito dall’esperienza con lo Spartak Mosca, e soprattutto dall’incontro con il suo fondatore Nikolai Starostin, l’uomo che assieme ai suoi tre fratelli fu deportato da Stalin in un campo di lavoro in Siberia, dove vi rimase dieci anni, con l’accusa di “propagandare uno sport di ideali borghesi”. I fili della condanna-farsa erano stati mossi da Lavrentriy Beria, capo dei servizi di sicurezza sovietici nonché presidente di quella Dinamo Mosca che nel 1938 aveva dovuto assistere impassibile alla doppietta campionato-coppa messa a segna dallo Spartak. Dall’anno successivo era iniziati gli arresti, le esecuzioni e le deportazioni di numerosi membri della squadra. “Il calcio veniva manipolato e controllato dal potere”, ha scritto Riordan, “perché la sua capacità di aggregazione e la sua vitalità era temuta dai dittatori. Sono convinto che se non fosse stato un giocatore di fama nazionale, Starostin non sarebbe sopravvissuto né a Stalin né a Beria”.
La carriera calcistica di Riordan è proseguita nella Dockyard League di Portsmouth, ottava divisione del campionato inglese. Ben più consistente è stata la sua attività di scrittore, con la pubblicazione di “Sport in Soviet Society”, il primo libro che ha raccontato in occidente la storia dei fratelli Starostin, e dell’autobiografia “Comrade Jim – Ths spy who played for Spartak”. Qualche anno fa Riordan è tornato a Mosca come inviato della BBC per ripercorrere la sua storia, imbattendosi però in ciò che il diretto interessato ha chiamato “l’amnesia post-URSS”. Nessuno, ad eccezione del vecchio compagno di squadra Galimzyan Khusainov, ha voluto incontrarlo, e diverse persone hanno negato di conoscerlo. “Cancellare il passato”, ha commentato l’ex Spartak Mosca, “un atteggiamento tipicamente russo. Non nego di esserci rimasto molto male. Nemmeno i vecchi compagni alla scuola del PCUS hanno accettato di vedermi”.
Oggi a Mosca non esiste alcuna traccia di Yakov Eordahnov; non c’è negli archivi dello Spartak, né in alcun giornale d’epoca. L’unica via percorribile è il mercatino delle pulci, cercando tra le collezioni di cartoncini che venivano inseriti nei pacchetti di sigarette. Alcuni di questi raffiguravano i calciatori del campionato sovietico. “Niente televisione, niente figurine, uno dei pochi modi che i giocatori avevano per farsi conoscere era questo. Una volta mi fermò un tizio e mi chiese il permesso di prepararne alcuni dedicati al sottoscritto”. Alexey Smertin, acquistato nel 2003 dal Chelsea del neo-presidente Roman Abramovich, ha confermato di aver ascoltato delle storie riguardanti un inglese nel campionato sovietico nei primi anni Sessanta. Si era anche accordato con Riordan per scrivere la prefazione di “Comrade Jim”, ma l’idea è stata bocciata dall’editore. Non sapeva chi fosse Smertin…
A Mosca, però, di questa storia non ci sono tracce. Nessuno si ricorda di Riordan e Khuisanov, oggi 72enne, spesso non ci sta con la testa. Per gli annuari, quello Spartak-Pakhtakor finì 4-4.
Fonte: Guerin Sportivo
venerdì 5 marzo 2010
Il caso Jens Toornstra
Fino a qualche settimana fa Jens Toornstra era un calciatore conosciuto solo dai propri genitori. Oggi è un piccolo caso nazionale. La sua è una storia già sentita anche al di fuori dei confini olandesi. Parla di un ragazzo che nel giro di pochi mesi è passato dal campionato dilettanti ad una maglia da titolare nella massima divisione nazionale. Nel suo caso, l’esordio è avvenuto con la maglia dell’Ado Den Haag il 4 dicembre 2009, trasferta a Kerkrade contro il Roda (1-1 il risultato finale). Nel 2010 il 21enne che studia economia e finanza non ha ancora saltato un incontro.
Un paio di settimane fa Toornstra ha incrociato i tacchetti con Mitchell Donald, talento uscito dal vivaio dell’Ajax che aveva fatto furore nelle selezioni giovanili dell’Olanda, e che è finito in prestito al Willem II per accumulare minuti ed esperienza, nonché ristabilirsi pienamente da un brutto infortunio. La scorsa stagione Donald debuttava con la prima squadra dell’Ajax, mentre Toornstra se la sfangava con i dilettanti dell’Alphense Boys, Tweede Klasse C, distretto West II. Nell’incontro tra Ado e Willem II Toornstra, schierato interno sinistro in una mediana a tre, ha schiantato Donald, interno destro, sotto ogni punto di vista: atletico, tecnico, fisico e decisionale. Qualcuno si è chiesto, non a torto, come fosse possibile per un ragazzo che fino a pochi mesi prima si allenava solamente due volte alla settimana e giocava per divertimento alla domenica, imporsi così nettamente su un pari età (i due sono separati da appena tre settimane) abituato da anni ai ritmi del professionista. E soprattutto come fosse possibile che questo ragazzo non fosse mai stato notato da alcun osservatore dei club di Eredivisie. I quali setacciano capillarmente il mondo intero alla ricerca del potenziale affare, non lesinando nello stipulare contratti importanti che vanno a gravare sulle già poco floride casse societarie (in Eredivisie solo tre club su 18 rispettano la regola istituita dalla Federcalcio, la quale prevede che gli stipendi non incidano più del 40% sui costi complessivi della società), e magari sono anche i primi ad importare “pacchi” griffati da qualche vivaio importante (vedi i casi Maaroufi e Kerlon); nelle province a loro limitrofe però, non guardano nemmeno.
La fortuna di Toornstra ha un nome ed un cognome: Kees Jansma, addetto stampa della nazionale olandese, produttore televisivo nonché capo della redazione sport dell’emittente Sport1. Jansma ha una passione: gli Alphense Boys, squadra della quale difficilmente perde un incontro. Dopo aver visto il giovane talento crescere attraverso la classica trafila delle selezioni giovanili fino ad arrivare con profitto in prima squadra, il boss dei media oranje si è attivato per farlo visionare da un osservatore delle giovanili dell’Ado Den Haag. Pochi mesi fa Toornstra ha messo piede per la prima volta nel centro sportivo dei giallo-verdi. Oggi è titolare fisso. Per chi ama vedere il bicchiere mezzo pieno, una bella storia di calcio. Per gli altri, una montagna di dubbi su tanti addetti ai lavori.
mercoledì 3 marzo 2010
Inside scoop on Liverpool bound Jovanovic
Per il web-magazine inglese Inside Futbol Radio Olanda ha stilato un profilo di Milan Jovanovic, attaccante dello Standard Liegi che dalla prossima estate vestirà la maglia del Liverpool..
“Sometimes you want to kiss him, sometimes you want to kill him”. That’s how Standard Liege captain Steven Defour described Milan Jovanovic, the Serbian forward who will join Liverpool on a free transfer this summer. Jovanovic isn’t the easiest character, neither for team-mates nor opponents. A son of the Balkan war, the Serbian knows what he wants and how to get it. “I have character”, he declared upon his arrival at the Standard Liege training ground, “and I am here to become a top player”. While such a phrase might be typical for a newly signed player, Jovanovic was soon to prove his brash statement right. Just four years after signing, he is leaving the Belgian Jupiler League for the Premier League, and his time in the Walloon region – the predominantly French-speaking southern area of the country – has been outstanding.
The way to the top
Jovanovic has picked up two consecutive league titles with Standard; he was elected Belgian Footballer of the Year for the 2007/08 season (the award is organised by the Belgian Football Association and Sport Foot magazine), and Best Footballer of the Jupiler League for 2009 (also known as the Gouden Schoen award, a prize given by a selection of the Belgian press and football personalities); the Serb also became his country’s top scorer during qualifying for the 2010 World Cup with four goals. All in all it’s no wonder Jovanovic quickly became one of the most desired players in Europe.
When Jovanovic landed in Liege in the summer of 2006, the Serb was almost ready to hang up his boots. The former Vojvodina Novi Sad man had suffered a series of injuries, leading to long spells on the sidelines, and restricting him to just 12 games in four season, with Shakhtar Donetsk and Lokomotiv Moscow, picking up the Russian league with the latter.
At Standard, Jovanovic was soon introduced to the club doctor, Dr Popovic, who helped him to find the right level of physical fitness, enough to allow him to undertake a trial. The Reds were on the lookout for someone to replace top scorer Mohammed Tchité, who had just been sold to Anderlecht. Jovanovic impressed instantly in his first friendly appearance, particularly for his speed and coolness in front of goal. But while Jovanovic was gaining fans, Standard were losing. The club had suffered a poor start to the Belgian league season, picking up just two points from four games, and exiting the Champions League in the third qualifying round, falling to Steaua Bucharest. It wasn’t good enough, and Dutch coach Johan Boskamp was sacked.
The Serbian striker could have been forgiven for feeling unsure of his future with Standard, but he need not have worried. Technical director Michel Preud’Homme stepped into the breach, and signed Jovanovic to a permanent deal immediately. Not just that, but the new boy began to replace the established Milan Rapaic on the left wing. Soon though Jovanovic was on the move again, up front to fill in for the injured Igor De Camargo. In his first season in Liege, Jovanovic scored 14 goals and quickly became a fan favourite. The Standard support labelled him the “snake” for his quick movement.
In the 2007/08 season, the Reds won their first Belgian league title in 25 years, boasting at one point a record of 31 games unbeaten. Standard were also one of the youngest teams in the whole Jupiler League. The man born on 18th April 1981 in Bajina Basta – a town in the western mountains of Serbia close to the Bosnian border – played a key part, scoring 16 goals in 30 games, his best season so far.
The golden age of Standard seemed to have begun and carried on into the next season when a second Belgian title was picked up, via two tense, nervy playoff matches with Anderlecht, drawn 1-1 and won 1-0. Europe was also impressed with the Reds. Although Standard exited the Champions League in the third qualifying round, going out cruelly to Liverpool through a Dirk Kuyt header in extra-time at Anfield, they made real progress in the UEFA Cup. Liverpool’s Merseyside rivals Everton were beaten (2-1), Spanish giants Sevilla (1-0), Partizan Belgrade (1-0) and Sampdoria (3-0). Jovanovic himself was just pipped to the Gouden Schoen by team-mate Axel Witsel, the youngster standing out as another precocious talent, but the Serb had still bagged 12 goals in a successful campaign.
Jovanovic didn’t have to wait long for recognition however. Only 12 months in fact. For on 13th January 2010, at the Casino Kursaal of Oostende the jury spoke the Serb’s name, Jovanovic becoming the fourth Standard Liege player to be voted Jupiler League Player of the Year in the previous five years, a clear indication of the Walloon club’s growing domination of Belgian football. The future wasn’t quite as bright though as the signs had suggested, and in the first half of the 2009/10 season, Standard’s empire began to crumble. An outgoing coach – Laszlo Boloni, who had taken over from Preud’Homme in the summer of 2008 – a mid-table struggle in the Jupiler League, and dressing room bust-ups: “In the last months I was isolated from the rest of the group”, said Jovanovic, who has still managed 12 goals at the time of writing. Nevertheless, the time had come to go, and Liverpool was his choice.
Between thought and expression
Jovanovic is a player who must be handled with care. A hard worker on the pitch – Liverpool fans may equate his effort with that displayed by Dirk Kuyt – but also someone not afraid to express his opinion. The Serb had problems of some sort with almost every established player at Standard. There were bust-ups with Sergio Conceicao and Marouane Fellaini, while he collided twice with Axel Witsel over penalty taking duties. Dieumerci Mbokani was given a taste of his anger during a match against Roeselare, and coach Boloni was on the receiving end of a dispute about tactics: Jovanovic prefers to play as a striker in a 4-4-2 system, instead of as a left winger in a 4-3-3.
On 30th August, 2009, Jovanovic’s club colleague Witsel broke Marcin Wasilewski’s leg after a dangerous challenge as Standard met Anderlecht – he would later be banned for eight matches. The Serbian striker was the only one in the changing room who didn’t stand behind his team-mate. “It was the most dangerous tackle I ever saw”, he declared.
In January, Jovanovic didn’t travel to Oostende to collect his Gouden Schoen, Standard forbade the Serbian as they were boycotting Het Laaste Nieuws, the organisers of the poll. The newspaper had compared Axel Witsel with Kim De Gelder, the 20-year-old mass murderer who had painted his face in the style of The Joker from Batman, and killed two baby boys and their carer at the “Fabeltjesland” crèche in Dendermonde, putting them together on their list of most obnoxious men of 2009. Jovanovic declared through, “I don’t care about the boycott. It’s just Standard’s political decision. I am not their prostitute and I don’t need any Gouden Schoen to tell me how good I am. Statistics prove it.”
While Jovanovic is sure of his own class, there remain question marks over how he will adjust to life with Liverpool next season. One former Red who made the move from Belgium to England, Ronny Rosenthal has given his thoughts. The Israeli international, who played for FC Brugge, Standard Liege and Liverpool amongst others was clear why the English side have moved for the Serbian. “At the moment Liverpool doesn’t have enough money to buy top players”, explained Rosenthal, “that’s why their targets are footballers like Milan Jovanovic: Not the best but a good one.”
Rosenthal also believes however that Jovanovic is in for a shock when he, like the Israeli once did, swaps Belgium for England. “He will surely have a chance of playing, but he must understand that the Premier League is a world apart. He will play against defenders five times as quick and five times as strong as Belgian ones. At Standard he was a star, at Liverpool he will be just a member of the team”. The league title winner with Liverpool does though believe Jovanovic can cope, “He’s mentally strong and has a good working attitude. I don’t think there will be any problem if he is sometimes on the bench. I expect to see him on the left side of the pitch, opening up spaces with his movement and quickness.”
There is no doubt Milan Jovanovic is talented, and Standard will be sad to see him go. But whether the Serbian has made the right choice in heading to England still remains to be seen. Rosenthal is not so sure, “I know there were many clubs linked with him. For example, Milan, and maybe Serie A would have been the best choice for a player like Jovanovic. In the Premier League everybody runs and runs. But I can understand him. He chose the best championship in the world.”
It’s been quite a journey for Jovanovic so far, from an injury hit time in Russia and the Ukraine to lighting up Belgium. Now he faces his biggest test yet. He will not be short of confidence.
Link a Inside Futbol
“Sometimes you want to kiss him, sometimes you want to kill him”. That’s how Standard Liege captain Steven Defour described Milan Jovanovic, the Serbian forward who will join Liverpool on a free transfer this summer. Jovanovic isn’t the easiest character, neither for team-mates nor opponents. A son of the Balkan war, the Serbian knows what he wants and how to get it. “I have character”, he declared upon his arrival at the Standard Liege training ground, “and I am here to become a top player”. While such a phrase might be typical for a newly signed player, Jovanovic was soon to prove his brash statement right. Just four years after signing, he is leaving the Belgian Jupiler League for the Premier League, and his time in the Walloon region – the predominantly French-speaking southern area of the country – has been outstanding.
The way to the top
Jovanovic has picked up two consecutive league titles with Standard; he was elected Belgian Footballer of the Year for the 2007/08 season (the award is organised by the Belgian Football Association and Sport Foot magazine), and Best Footballer of the Jupiler League for 2009 (also known as the Gouden Schoen award, a prize given by a selection of the Belgian press and football personalities); the Serb also became his country’s top scorer during qualifying for the 2010 World Cup with four goals. All in all it’s no wonder Jovanovic quickly became one of the most desired players in Europe.
When Jovanovic landed in Liege in the summer of 2006, the Serb was almost ready to hang up his boots. The former Vojvodina Novi Sad man had suffered a series of injuries, leading to long spells on the sidelines, and restricting him to just 12 games in four season, with Shakhtar Donetsk and Lokomotiv Moscow, picking up the Russian league with the latter.
At Standard, Jovanovic was soon introduced to the club doctor, Dr Popovic, who helped him to find the right level of physical fitness, enough to allow him to undertake a trial. The Reds were on the lookout for someone to replace top scorer Mohammed Tchité, who had just been sold to Anderlecht. Jovanovic impressed instantly in his first friendly appearance, particularly for his speed and coolness in front of goal. But while Jovanovic was gaining fans, Standard were losing. The club had suffered a poor start to the Belgian league season, picking up just two points from four games, and exiting the Champions League in the third qualifying round, falling to Steaua Bucharest. It wasn’t good enough, and Dutch coach Johan Boskamp was sacked.
The Serbian striker could have been forgiven for feeling unsure of his future with Standard, but he need not have worried. Technical director Michel Preud’Homme stepped into the breach, and signed Jovanovic to a permanent deal immediately. Not just that, but the new boy began to replace the established Milan Rapaic on the left wing. Soon though Jovanovic was on the move again, up front to fill in for the injured Igor De Camargo. In his first season in Liege, Jovanovic scored 14 goals and quickly became a fan favourite. The Standard support labelled him the “snake” for his quick movement.
In the 2007/08 season, the Reds won their first Belgian league title in 25 years, boasting at one point a record of 31 games unbeaten. Standard were also one of the youngest teams in the whole Jupiler League. The man born on 18th April 1981 in Bajina Basta – a town in the western mountains of Serbia close to the Bosnian border – played a key part, scoring 16 goals in 30 games, his best season so far.
The golden age of Standard seemed to have begun and carried on into the next season when a second Belgian title was picked up, via two tense, nervy playoff matches with Anderlecht, drawn 1-1 and won 1-0. Europe was also impressed with the Reds. Although Standard exited the Champions League in the third qualifying round, going out cruelly to Liverpool through a Dirk Kuyt header in extra-time at Anfield, they made real progress in the UEFA Cup. Liverpool’s Merseyside rivals Everton were beaten (2-1), Spanish giants Sevilla (1-0), Partizan Belgrade (1-0) and Sampdoria (3-0). Jovanovic himself was just pipped to the Gouden Schoen by team-mate Axel Witsel, the youngster standing out as another precocious talent, but the Serb had still bagged 12 goals in a successful campaign.
Jovanovic didn’t have to wait long for recognition however. Only 12 months in fact. For on 13th January 2010, at the Casino Kursaal of Oostende the jury spoke the Serb’s name, Jovanovic becoming the fourth Standard Liege player to be voted Jupiler League Player of the Year in the previous five years, a clear indication of the Walloon club’s growing domination of Belgian football. The future wasn’t quite as bright though as the signs had suggested, and in the first half of the 2009/10 season, Standard’s empire began to crumble. An outgoing coach – Laszlo Boloni, who had taken over from Preud’Homme in the summer of 2008 – a mid-table struggle in the Jupiler League, and dressing room bust-ups: “In the last months I was isolated from the rest of the group”, said Jovanovic, who has still managed 12 goals at the time of writing. Nevertheless, the time had come to go, and Liverpool was his choice.
Between thought and expression
Jovanovic is a player who must be handled with care. A hard worker on the pitch – Liverpool fans may equate his effort with that displayed by Dirk Kuyt – but also someone not afraid to express his opinion. The Serb had problems of some sort with almost every established player at Standard. There were bust-ups with Sergio Conceicao and Marouane Fellaini, while he collided twice with Axel Witsel over penalty taking duties. Dieumerci Mbokani was given a taste of his anger during a match against Roeselare, and coach Boloni was on the receiving end of a dispute about tactics: Jovanovic prefers to play as a striker in a 4-4-2 system, instead of as a left winger in a 4-3-3.
On 30th August, 2009, Jovanovic’s club colleague Witsel broke Marcin Wasilewski’s leg after a dangerous challenge as Standard met Anderlecht – he would later be banned for eight matches. The Serbian striker was the only one in the changing room who didn’t stand behind his team-mate. “It was the most dangerous tackle I ever saw”, he declared.
In January, Jovanovic didn’t travel to Oostende to collect his Gouden Schoen, Standard forbade the Serbian as they were boycotting Het Laaste Nieuws, the organisers of the poll. The newspaper had compared Axel Witsel with Kim De Gelder, the 20-year-old mass murderer who had painted his face in the style of The Joker from Batman, and killed two baby boys and their carer at the “Fabeltjesland” crèche in Dendermonde, putting them together on their list of most obnoxious men of 2009. Jovanovic declared through, “I don’t care about the boycott. It’s just Standard’s political decision. I am not their prostitute and I don’t need any Gouden Schoen to tell me how good I am. Statistics prove it.”
While Jovanovic is sure of his own class, there remain question marks over how he will adjust to life with Liverpool next season. One former Red who made the move from Belgium to England, Ronny Rosenthal has given his thoughts. The Israeli international, who played for FC Brugge, Standard Liege and Liverpool amongst others was clear why the English side have moved for the Serbian. “At the moment Liverpool doesn’t have enough money to buy top players”, explained Rosenthal, “that’s why their targets are footballers like Milan Jovanovic: Not the best but a good one.”
Rosenthal also believes however that Jovanovic is in for a shock when he, like the Israeli once did, swaps Belgium for England. “He will surely have a chance of playing, but he must understand that the Premier League is a world apart. He will play against defenders five times as quick and five times as strong as Belgian ones. At Standard he was a star, at Liverpool he will be just a member of the team”. The league title winner with Liverpool does though believe Jovanovic can cope, “He’s mentally strong and has a good working attitude. I don’t think there will be any problem if he is sometimes on the bench. I expect to see him on the left side of the pitch, opening up spaces with his movement and quickness.”
There is no doubt Milan Jovanovic is talented, and Standard will be sad to see him go. But whether the Serbian has made the right choice in heading to England still remains to be seen. Rosenthal is not so sure, “I know there were many clubs linked with him. For example, Milan, and maybe Serie A would have been the best choice for a player like Jovanovic. In the Premier League everybody runs and runs. But I can understand him. He chose the best championship in the world.”
It’s been quite a journey for Jovanovic so far, from an injury hit time in Russia and the Ukraine to lighting up Belgium. Now he faces his biggest test yet. He will not be short of confidence.
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martedì 2 marzo 2010
Il personaggio della settimana: Mounir El Hamdaoui
Giocare nell’Az Alkmaar 2009/2010, sopravvissuto al rovinoso crollo della proprietà (la DSB Bank), non è la cosa più facile di questo mondo. Ripetere una stagione da 23 reti, titolo di capocannoniere della Eredivisie incluso, nemmeno. Per Mounir El Hamdaoui la stagione della definitiva consacrazione ha rischiato seriamente di trasformarsi in un boomerang. Poco convincente in Champions League, a rilento in campionato, lui come tutta la squadra. Ma una volta rimesso un minimo di ordine nel caso societario post-fallimento, e lasciato finalmente alle spalle il deserto di idee della gestione Ronald Koeman, la marcia è ripresa. Con la tripletta rifilata al Vitesse El Hamdaoui ha festeggiato come meglio non avrebbe potuto la sua partita numero cento in Eredivisie, raggiungendo la doppia cifra (12 gol) in campionato. Il periodo di appannamento è alle spalle, grazia anche all’efficace cura Dick Advocaat, accolto come uno spauracchio (per i metodi rudi) e invece rivelatosi eccellente nella non semplice missione di ricaricare e compattare un gruppo prossimo allo sbando. El Hamdaoui è tornato ad agire come unica punta centrale, supportato da un Maarten Martens restituito al suo ruolo di esterno sinistro creativo e libero da vincoli tattici troppo rigidi, e da un Moussa Dembele che pare aver ritrovato la voglia di essere decisivo. A questi si aggiunge un Rasmus Elm che in mediana ha finalmente trovato un impiego definito, uscendo dal poco meritato status di oggetto misterioso, nel quale invece permane l’altro svedese Pontus Wernbloom. L’Az ha ritrovato il suo bomber (quinto gol nelle ultime quattro partite, prima non segnava dal 10 ottobre contro i dilettanti dello Sparkenburg in Coppa d’Olanda), raggiungendo così quel quinto posto in classifica che significa piazzamento in Europa League. Un notevole balzo in avanti.
Mounire El Hamdaoui nasce ala sinistra nell’Excelsior Rotterdam, ma le movenze sono da seconda punta che ama tagliare il campo con improvvisi inserimenti piuttosto che cercare il fondo. 28 reti in una stagione e mezza gli valgono la chiamata nel Tottenham Hotspur di Martin Jol, dove però la folta concorrenza (Defoe, Keane, Kanoutè, Mido) gli permette di mettersi in mostra solo nelle amichevoli. Nel Derby County in Championship gioca largo sulla fascia, il ritorno in Olanda nel Willem II lo ripropone – prima che il menisco finisca in frantumi - in posizione più centrale. Ci vuole un grande allenatore per sfruttarlo al meglio. Lo trova in Louis van Gaal all’Az Alkmaar. Funziona bene sia come supporto ad una punta fisica (Pellè) o rapida (Ari), sia come terminale offensivo avanzato in un 4411 o in un 442. L’ottima tecnica di base lo rende incline alla giocata. Lo scorso anno trova la via del gol in tutti i modi: di testa, di destro, da lontano, in acrobazia. Al termine della stagione El Hamdaoui viene eletto calciatore dell’anno in Eredivisie. A lungo indeciso tra nazionale olandese e marocchina, ha scelto i Leoni dell’Atlante.
Mounire El Hamdaoui nasce ala sinistra nell’Excelsior Rotterdam, ma le movenze sono da seconda punta che ama tagliare il campo con improvvisi inserimenti piuttosto che cercare il fondo. 28 reti in una stagione e mezza gli valgono la chiamata nel Tottenham Hotspur di Martin Jol, dove però la folta concorrenza (Defoe, Keane, Kanoutè, Mido) gli permette di mettersi in mostra solo nelle amichevoli. Nel Derby County in Championship gioca largo sulla fascia, il ritorno in Olanda nel Willem II lo ripropone – prima che il menisco finisca in frantumi - in posizione più centrale. Ci vuole un grande allenatore per sfruttarlo al meglio. Lo trova in Louis van Gaal all’Az Alkmaar. Funziona bene sia come supporto ad una punta fisica (Pellè) o rapida (Ari), sia come terminale offensivo avanzato in un 4411 o in un 442. L’ottima tecnica di base lo rende incline alla giocata. Lo scorso anno trova la via del gol in tutti i modi: di testa, di destro, da lontano, in acrobazia. Al termine della stagione El Hamdaoui viene eletto calciatore dell’anno in Eredivisie. A lungo indeciso tra nazionale olandese e marocchina, ha scelto i Leoni dell’Atlante.
lunedì 1 marzo 2010
Sussidi e grida
In Olanda sembra impossibile parlare di Ado Den Haag senza innescare qualche polemica. Questa volta però i ben noti problemi (violenza, antisemitismo, razzismo) riguardanti il tifo organizzato dei giallo-verdi non c’entrano. L’Ado Den Haag è stato accusato da altri club di Eredivisie di falsare il campionato a causa della generosa erogazione di sussidi pubblici concessa dalla municipalità locale. Il dato è stato messo nero su bianco da un’inchiesta del settimanale Voetbal International, intitolata Sussidio Football Club, che ha esaminato l’incidenza dei contributi pubblici sulle casse dei 18 club di Eredivisie. Rkc Waalwijck, Roda, Vitesse e, appunto, Ado Den Haag sono le squadre che spiccano in cima alla graduatoria. Di queste, l’Ado è quello che ha ricevuto più soldi: 46.5 milioni di euro, di cui 40.2 investiti nello stadio e 6.3 tra prestiti e contributi. Un sussidio-tsunami, questa la definizione usata dal giornale, che ha garantito a quello che viene definito il gigante dormiente del calcio olandese molto più che la semplice sopravvivenza. Senza i soldi del comune, il gigante avrebbe continuato il suo sonno nei secoli dei secoli.
In fondo alla graduatoria ci sono Az Alkmaar, Feyenoord e Psv Eindhoven. Il club della Philips non ha mai ricevuto un solo centesimo dall’amministrazione comunale (la quale è invece intervenuta più volte per aiutare i cugini poveri dell’Fc Eindhoven), e rappresenta uno dei rari casi in cui è stata la città ad approfittare (seppur indirettamente) del business prodotto dalla società calcistica piuttosto che viceversa. Mentre l’Az ha un debito di 5.1 milioni con la municipalità di Alkmaar ed il Feyenoord sarà costretto ad appoggiarsi al comune di Rotterdam per il progetto del nuovo stadio, il Psv rimane l’unico club in Olanda autosufficiente al 100%. Ed è anche quello più vincente degli ultimi anni.
In fondo alla graduatoria ci sono Az Alkmaar, Feyenoord e Psv Eindhoven. Il club della Philips non ha mai ricevuto un solo centesimo dall’amministrazione comunale (la quale è invece intervenuta più volte per aiutare i cugini poveri dell’Fc Eindhoven), e rappresenta uno dei rari casi in cui è stata la città ad approfittare (seppur indirettamente) del business prodotto dalla società calcistica piuttosto che viceversa. Mentre l’Az ha un debito di 5.1 milioni con la municipalità di Alkmaar ed il Feyenoord sarà costretto ad appoggiarsi al comune di Rotterdam per il progetto del nuovo stadio, il Psv rimane l’unico club in Olanda autosufficiente al 100%. Ed è anche quello più vincente degli ultimi anni.